«Chi non ha mai urlato nella vita fa molto rumore quando se ne va», ha scritto qualcuno su Twitter dopo l’improvvisa scomparsa di David Sassoli. Proprio così. Lascia stupefatti l’ondata di commozione propagatasi in tutta Europa dopo la notizia della morte del presidente italiano del Parlamento europeo: deputati e attivisti, leader di governo ed ex colleghi, semplici cittadini e osservatori – tutti capiscono in un lampo che il vuoto che lascia Sassoli è direttamente proporzionale alla forza della sua tranquillità.
Perché? Sospettiamo tutto ciò abbia a che fare con le tre chiavi di volta del modo di Sassoli di stare al mondo, e di fare politica. Tre valori talmente limpidi da non aver mai bisogno di essere sottolineati, ma folgoranti nell’era del chiacchiericcio indistinto e del cinismo cronico.
Primo, come ha ricordato il suo “collega” di partito e di responsabilità europee Paolo Gentiloni, la chiarezza. Il parlar chiaro eredità più netta della sua professione era ed è, traslata in politica, la porta della trasparenza, la capacità di intendere e farsi intendere da ogni cittadino, anche se a digiuno – anzi, a maggior ragione – dei complicati schemi della politica europea. E non a caso quella per l’apertura e la democratizzazione dei processi decisionali europei è stata una battaglia chiave del mandato di Sassoli: con la richiesta, in buona parte coronata dal successo, di un ruolo di maggior peso per il Parlamento europeo, e con la spinta, in buona parte andata perduta, per il coinvolgimento diretto dei cittadini nella Conferenza sul futuro dell’Unione.
Secondo, intimamente collegato, il rispetto. Per ogni interlocutore – capo di Stato o studente, giornalista o attivista. Un modo gentile di approcciare le cose della vita pubblica e privata, eredità certo del miglior cattolicesimo democratico, capace di restituirgli, non a caso, una dose raddoppiata di rispetto anche dai più fieri avversari e una carriera di successi, che lo avrebbe portato forse ancora più in alto.
Terzo, e non per importanza, la coerenza tra valori di riferimento e azione quotidiana. La convinzione profonda di un ancoraggio della costruzione europea direttamente dentro ai drammi e alle persecuzioni della prima metà del ‘900 – declamato con parole alte nel discorso di Fossoli ripubblicato su queste pagine – non era per Sassoli un esercizio di Storia, ma il punto di partenza per ogni iniziativa politica. La difesa dei diritti dentro e fuori l’Europa: in Polonia e Ungheria, a costo di sospendere se necessario ogni versamento comunitario; in Russia e in molte altre vicine autocrazie, a costo di vedersi bollato come persona non grata. Ma anche – poco ricordata in queste ore – la rottura del tabù sulla gestione dei giganteschi debiti pubblici accumulati per rispondere alle necessità dei cittadini dopo l’esplosione della pandemia e combattere le diseguaglianze.
Ben vengano dunque i tributi di queste ore e dei giorni prossimi – quelli spontanei e quelli ufficiali, a Roma come a Bruxelles. Poi però, ed è già ora di pensarci, si porrà la Questione con la Q maiuscola – che alle latitudini nostrane suona così: può la politica italiana stringersi nel dolore e negli omaggi più vivi e sinceri, e tornare un minuto dopo al caos inconcludente, simile a tratti al cammino verso un burrone, con cui si avvicina all’elezione del prossimo presidente della Repubblica?
La distanza tra cittadini e istituzioni, è bene ricordarlo, non è mai stata tanto ampia. Il presidente del Consiglio Mario Draghi godrà certo di stima ampia e trasversale, come fotografano i sondaggi, ma il governo di larghissima maggioranza che lo sostiene pare di nessuno più che di tutti. Il capo dello Stato uscente, Sergio Mattarella, in cui più i cittadini si riconoscono ha le valigie pronte per lasciare il Quirinale. E il Parlamento che si appresta ad eleggere il suo successore, come ha ricordato Michele Ainis, appare quanto mai debole e delegittimato – con gruppi politici che non rispondono più in larghissima parte all’elettorato che li ha scelti, né ad alcun capo.
Ce n’è abbastanza per porre le basi di un collettivo e irrazionalissimo suicidio politico – in una delle seguenti forme a scelta, o magari più d’una insieme: l’elezione del fondatore ad honorem del populismo italiano a capo dello Stato; la bruciatura di tutti i nomi più credibili in una serie infinita di votazioni; l’espulsione dal sistema di Mario Draghi, con tanti ringraziamenti per il lavoro svolto.
Oppure.
Oppure ce ne sarebbe abbastanza per fermarsi e cogliere l’”altro” spirito del tempo che per un attimo la scomparsa di Sassoli pare avere richiamato. Quello che lo stesso Draghi è parso in fondo aver intuito – in una coincidenza temporale del tutto fortuita – quando poche ore prima si è scusato di fronte all’opinione pubblica per non essersi preso il tempo di spiegare gli ultimi provvedimenti anti-pandemia, di discuterne senso e ragioni, di indicare a una comunità il senso di marcia.
Parole mai sentite, da Draghi, e forse neppure da alcuno dei suoi predecessori, che testimoniano la consapevolezza di un fatto tremendamente semplice in un’epoca tanto complicata: nessuno può farcela da solo. Vale per i cittadini, alle prese con l’ennesima, insopportabile ondata epidemica e i mille dilemmi conseguenti. Vale per qualsiasi lavoratore o imprenditore, nei mari agitati di un’economia imprevedibile. E vale per i decisori pubblici – tutti, perfino Draghi. Senza il confronto e il raffronto, la discussione e l’esame, la collaborazione e l’ascolto, non s’arriva da nessuna parte – sia la fine del mese o il Quirinale. Con quelle armi, chiamate in una parola democrazia, forse sì.
Se vogliono essere conseguenti agli omaggi a Sassoli allora, i politici italiani hanno una grande chance: quella di usare questo passaggio istituzionale cruciale per cominciare a ricucire il tessuto che connette cittadini e istituzioni. Eleggendo un o una presidente della Repubblica che abbia quest’impulso nelle corde e al cuore del suo mandato – in continuità con Mattarella – e richiamando il governo – lo stesso o il successivo che verrà – a un esercizio quotidiano di chiarezza ed umiltà, oltre che di efficacia, per il successivo anno.
Se così sarà, contro ogni previsione, la sgangherata Italia ne uscirà a sorpresa un po’ più forte e solidale, e capace di coltivare altri talenti che l’Europa ci possa invidiare.