Cangiano: L’arma del “buonismo”
che fa trionfare il “cattivismo”

In Europa e negli Stati Uniti la politica è guerra culturale da ormai molti anni e questo porta a polarizzare radicalmente la discussione pubblica. Una delle conseguenze è l’oscuramento delle distanze economiche e dei conflitti nell’ordine sociale. Quali sono le origini di questo fenomeno e i suoi sviluppi recenti? Come rimediarvi?

Su queste domande Reset ha raggiunto Mimmo Cangiano, intellettuale impegnato su questi temi: fra i suoi lavori più recenti Cultura di destra e società di massa (Nottetempo, 2022) e Guerre culturali e neoliberismo (Nottetempo, 2024).

 

Nel mondo euroatlantico tutto tende a diventare una guerra culturale, quali sono le origini di questo fenomeno?

Il fenomeno è ormai più che trentennale. L’espressione “cultural wars” viene coniata all’inizio degli anni ‘90, in sintonia con la caduta del socialismo reale e con la prima formazione dei governi di centrosinistra, la cosiddetta “Terza Via” di Blair e Clinton. Di lì a poco, almeno all’inizio, sono divenute parte di un’ideologia di sinistra sempre più staccata dal discorso di classe. Il principio alla base è che il sistema economico è senza alternativa, ma può essere migliorato con dei correttivi. Da un lato, si tratta di correttivi socioeconomici, che sono ancora quelli della tradizione socialdemocratica; dall’altro, iniziano a essere dei risarcimenti simbolici, vale a dire delle operazioni di emancipazione che avvengono solo sul piano culturale. In questo contesto, per esempio, all’inizio degli anni ‘90 anche in Italia, e quindi non soltanto negli Stati Uniti, ci sono i primi accenni di “politicamente corretto”. Si comincia, per esempio, a rifiutare l’uso di certe parole, come “netturbino” che viene cambiato in “operatore ecologico” e cose di questo tipo.

 

Come si è sviluppato in seguito?

L’ideologia delle guerre culturali a sinistra è sembrata latente per un quindicennio, ma non era finita. In realtà, è continuata all’interno tanto degli ambienti attivistici, quanto delle università statunitensi, dove si è legata a precisi fenomeni teorico-culturali, come la massiccia introduzione dei principi della cosiddetta “French Theory”. È in questa forma che le guerre culturali sono risorte, più o meno alla metà degli anni Duemila. Anche in questo caso, in sintonia con l’incapacità della politica di mettere in discussione il sistema economico, tanto da sinistra quanto da destra.

 

Ci sono guerre culturali da destra?

Sì. Per fare un esempio più recente, quando Trump ha affermato che se fosse stato eletto l’avrebbe fatta finita con le “bullshit del discorso liberal”, in realtà quello che stava facendo era avanzare una mossa della guerra culturale da destra. In questo modo stava offrendo ai suoi elettori l’idea che tutto un discorso che non li rappresenta sarebbe stato eliminato con la sua vittoria. Ha offerto loro un risarcimento simbolico-culturale, muovendosi su un piano che potremmo definire “sovrastrutturale”, usando una parola del marxismo, per fare riferimento all’ideologia.

 

L’attacco di Trump alla sinistra si muove quindi anche sul piano delle guerre culturali. In Italia è avvenuto qualcosa di simile?

Sì. Ad esempio, in Italia uno dei grandi grimaldelli ideologici della destra nell’ultimo decennio è stato il concetto di “buonismo”, che ha funzionato veramente bene. L’elettorato di destra si è riconosciuto contro il “buonismo”, compattandosi. La sinistra non è riuscita a rispondere bene a questa accusa, perché contiene un nocciolo di verità: può essere considerato “buonismo”, infatti, accettare di stare all’interno del sistema capitalistico, tutt’altro che buono, mantenendo però un’attenzione al linguaggio politicamente corretto.

 

Al contempo, la destra viene spesso accusata di “cattivismo” dalle forze di sinistra, per gli atteggiamenti poco tolleranti e politicamente scorretti dei suoi esponenti. A ogni modo, anche a destra nessuno mette in discussione il sistema economico e il suo funzionamento, è così?

A destra assistiamo al solito gioco: da un lato, si allude a un vago, anzi vaghissimo anticapitalismo a trazione sociale, dall’altro però sul piano economico si difendono quelli che restano caposaldi del neoliberalismo. In Italia, Salvini può contrapporre la tradizione del presepe alla globalizzazione e, al tempo stesso, proporre la flat tax per incentivare gli investimenti dei grandi capitali transnazionali nel nostro Paese; il ministro della Cultura Giuli può evocare Evola, e il valore delle radici e dell’italianismo, salvo poi proporre una visione totalmente commercializzata della cultura, da svendere al miglior offerente. In generale, il sovranismo è un sottoprodotto del neoliberalismo e non un’alternativa a esso.

 

Le destre accusano le sinistre di “buonismo”, le sinistre accusano le destre di “cattivismo”. Quali altre tendenze riferibili alle guerre culturale vi sono in Italia e nel resto del mondo euroatlantico?

In questi anni abbiamo visto due tendenze significative che vanno sotto il nome di woke e “rossobrunismo” (un’ideologia che combina alcuni temi di estrema sinistra, come l’anticapitalismo, con alcuni temi di estrema destra, come il nazionalismo e il sovranismo, Ndr). I primi puntano a sfidare il sistema, chiedendo il riconoscimento delle differenze delle minoranze, promuovendo il politicamente corretto, esaltando la molteplicità e il pluralismo. I secondi mirano a mettere in crisi il sistema insistendo sull’opposizione del singolo Stato-nazione a un mercato globale corrotto. L’accusa dei rossobruni all’ideologia woke è quella di restare all’interno di un discorso liberal, le cui tematiche sarebbero inerenti al capitalismo stesso. Dall’altro lato, invece, l’accusa woke al rossobrunismo è, in poche parole, di riprendere il discorso tradizionalista “monologico” e universalistico della destra. Entrambi tendono a pensare che l’ideologia dell’altro sia filo-sistema e a credere che la propria ideologia sia realmente antisistema.

 

Eppure entrambe le ideologie sono compatibili con il sistema capitalistico.

Il sistema capitalistico non è legato per la vita a nessuna direttiva ideologica. Vediamo anzi il capitalismo prendere costantemente direzioni diverse: il singolo capitalista cambia la propria ideologia, seguendo le dinamiche necessarie al proprio profitto. Lo abbiamo visto di recente con Amazon, che è passata da una posizione woke, devolvendo centinaia di milioni di dollari per la giustizia sociale e aprendo corsi per il linguaggio inclusivo nelle proprie aziende, al sostenere Trump. Poco prima della vittoria di Trump, l’editore Bezos aveva messo il bavaglio ai giornalisti del Washington Post che ne avevano parlato male. Non è fissa l’ideologia del capitalista, perché i capitalisti sono fra di loro in competizione; quindi, tendono a servirsi di ideologie differenti e a tollerare ogni cambiamento ideologico. Viene messa a valore e neutralizzata anche l’ideologia marxista. Le magliette di Che Guevara ne sono state un grande esempio.

 

Il cambiamento ideologico può incidere però, sulla trasformazione del piano economico-politico? Oppure è destinato a essere assimilato e strumentalizzato? Quale può essere il ruolo degli intellettuali e del dibattito pubblico in questo contesto?

Sono pienamente convinto che il piano ideologico, chiamiamolo “sovrastruttura”, abbia un effetto di ritorno su quello “strutturale”, cioè economico-politico, ma solo se riesce ad avere degli effetti sulla società, in relazione con un movimento sociale esistente. E ciò non sta accadendo oggi. Più di 120 anni fa il buon Labriola diceva che, purtroppo, non essendoci in quel momento uno sbocco rivoluzionario, gli toccava scrivere libri. Mi sembra che la situazione sia ancora questa. Si tratta di un problema spinoso. Perché? Perché in molti casi, non avendo di fronte uno sbocco pragmatico per le loro idee, molti intellettuali di oggi pensano che l’emancipazione possa essere fatta per mezzo del mercato, persuasi che il piano ideologico sia l’unico su cui sia possibile condurre delle battaglie. Così facendo, trascurano il fatto che le idee commercializzate, se sconnesse dalla prassi, dal movimento, rischiano di essere mera merce. Si tende a trascurare questo aspetto proprio in virtù della logica delle guerre culturali.

 

Secondo lei questo si riflette anche nel dibattito sulle guerre “guerreggiate” di oggi?

Oggi si rischia di leggere le guerre “guerreggiate” in atto come “scontri di civiltà”, per usare la categoria di Huntington, e quindi come delle forme di guerra culturale. Tuttavia, questa lettura è incompleta: le guerre di oggi sono scontri fra capitalismi che si fanno anche, ma non esclusivamente, sul piano culturale. Il fatto ad esempio che la mobilitazione sul tema della guerra a Gaza si sia basata soprattutto sul piano culturale ha avuto delle conseguenze ambivalenti. Da un lato, ha sollecitato la riattivazione politica di un’intera generazione che, sensibile ai temi postcoloniali, si è schierata dalla parte della Palestina. Dall’altro, però, questa spinta postcoloniale è risultata dimidiata, perché spesso sganciata dalla critica al sistema di sfruttamento capitalistico trans-nazionale.

 

A suo avviso, quindi, bisognerebbe affrontare le guerre culturali dal punto di vista della lotta di classe? In che modo?

Bisogna prendere le guerre culturali sul serio; non sono affatto, come talvolta viene detto, un’invenzione della destra. Occorre però rendere le guerre culturali anche delle guerre materiali. A mio avviso, bisognerebbe farlo adottando il punto di vista della lotta di classe. Mentre il genere e la razza sono un’identità, la classe non lo è, la classe è la posizione che ognuno di noi occupa all’interno del sistema di produzione capitalistico. Ora, è ovvio che il genere, la razza e altre differenze intersecano continuamente la classe e che dunque noi non siamo all’interno della classe allo stesso modo. Non ho alcun dubbio e mi schiero con i teorici delle guerre culturali per ciò che riguarda quest’ultimo punto. Tuttavia, il genere, la razza e altre differenze non ci fanno smettere di essere classe e quest’ultima non è a esse equivalente, ma ne specifica di volta in volta il peso: è in quest’ottica che occorre pensarle nella loro “intersezionalità”, ripesando dunque le guerre culturali dal punto di vista della lotta di classe.

 

 

Foto di copertina: due manifestanti discutono alla parata del Los Angeles Pride, 11 giugno 2023 a Hollywood, California. (Foto di Robyn Beck / AFP)

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