Il futuro del Pd? Antagonismi
e scissioni mali mortali da fermare

Dopo il voto del 25 settembre e il governo che ne è seguito, gran parte della famosa “gente” prova il desiderio di sentire più forte e subito la voce della sinistra. I tempi di una reazione si annunciano invece laschi e i modi languidi, ma la natura della sconfitta, a ben vedere, non giustifica una lunga depressione.

Mentre sentiamo ripetere il mantra della necessità di tornare “tra la gente” e di superare il “distacco” che si sarebbe creato, è il caso di notare che il 19 per cento degli elettori è rimasto “attaccato” al Pd perché continua a vederlo come la soluzione più rassicurante, o almeno come la meno inaffidabile, per contrastare la non irresistibile ascesa di FdI al 27 per cento e di una coalizione di destra che ha stravinto perché non aveva avversari. Il sistema elettorale infatti rendeva indispensabile, per giocare la partita, allearsi anche col diavolo.

In un sistema diverso, per esempio il semipresidenzialismo a doppio turno come in Francia, il Pd si sarebbe guadagnato il ballottaggio e nel ballottaggio Letta, e non Calenda, avrebbe fatto fare a Meloni, forse, la fine di Marine Le Pen. Una sorte quella del Pd molto diversa da quella del Partito socialista francese, che ha oggi meno della metà dei deputati di Mélenchon. Ma, appunto, la partita si giocava qui e bisognava pensarci prima.

È vero anche che l’astensionismo record è un segno di abbandono e forse protesta, ma nessuno può intestarselo, nel bene e nel male, come suo bacino esclusivo. È un fatto che i segni più gravi di “distacco” dal Pd sono venuti non dagli elettori, ma da suoi leader in questi anni. Tra il 2017 e il 2021 i Dem hanno subito tre scissioni, Leu-Articolo1, Italia Viva e Azione. In tre casi, dopo una sconfitta politica, dirigenti del partito hanno rovesciato il tavolo e se ne sono andati. A differenza di quanto accade in altri partiti della stessa famiglia in Europa, dove lo sconfitto è rimasto e si è adattato a un ruolo di minoranza dentro il partito. Così fece l’ala sinistra del Partito laburista con Blair al comando e così i riformisti con Corbyn.

Bersani, D’Alema e altri di provenienza Pci-Pds hanno abbandonato il Pd per avventure che hanno avuto modesto seguito. La stessa scelta ha fatto Renzi dopo la sua sconfitta nel 2016, applicandosi a combattere il partito di cui era stato segretario. E da ultimo Calenda ha deciso, scegliendo un momento rovinoso per tutto il centrosinistra, forse per produrre il massimo effetto negativo o forse per sbaglio, di fare la stessa cosa. Ha fondato un partito che ha nelle sue carte dei valori il socialismo liberale dei Rosselli, l’eredità del Partito d’Azione, la lotta al populismo, l’Europa, principi ispiratori affini se non identici a quelli da cui è nato nel 2007 il Partito democratico.

Scissioni necessarie e inevitabili? Si può rispondere di sì solo nel caso che si riduca a zero il valore della lealtà che è parte costitutiva della appartenenza a un partito. A proposito di aziende, comunità e Stati il vecchio Hirschman sosteneva che la loro buona salute dipendeva da tre parole: exit, voice, loyalty. Se ci sono critiche da fare, si fa valere la “voce” per cercare di cambiare le cose e continuare a convivere “lealmente”, se invece al malessere si risponde con l'”uscita” vuole dire che la comunità non si tiene più insieme.

Il primo punto all’ordine del giorno per un partito sopravvissuto a queste vicissitudini rancorose e alla delegittimazione incrociata, peraltro mai giustificata da colpi di Stato interni, è dunque il recupero di lealtà e di unione tra coloro che l’hanno guidato e lo guidano senza considerarlo un veicolo, un taxi per il solo percorso utile al passeggero in carriera. Un recupero da farsi se non per decenza, almeno per il rispetto di chi l’ha continuato a votare senza mai seguire, se non in minima parte, gli ardori scissionistici. Non è questo solo un pio desiderio, ma una realistica aspettativa: dai tempi dell’Ulivo, e poi della confluenza di Margherita e Ds nel Pd, diverse generazioni di dirigenti, militanti ed elettori hanno superato la fase del fresco incollaggio.

Per recuperare una voce forte e autorevole un congresso dovrà ridurre il peso delle correnti, strumento che si è evidentemente cristallizzato nel Pd come mappa per la distribuzione del potere. E ha paralizzato la capacità di comunicare obiettivi, intenzioni, finalità politiche con chiarezza e determinazione. Posto che la linea di un partito riformista come il Pd si dovrà collocare sui pilastri di una strategia ambientalista, di una difesa delle libertà democratiche, di un ordine economico basato sulla libertà di impresa e capace di produrre una riduzione delle ineguaglianze, nello spazio cioè in cui opera tutta la socialdemocrazia, bisognerà evitare che a ogni variazione di questo equilibrio, entro quello spazio, corrisponda una faida con interminabili strascichi.

Se per esempio ci sono misure contro la povertà da attuare e difendere, occorrerà farlo con una forza che la sinistra non ha mostrato. Il reddito di inclusione caro al Pd era forse più elegante ed efficace del reddito di cittadinanza del M5S, ma non ha avuto finanziamenti sufficienti, ci voleva almeno il triplo. Sulla transizione ambientale, altra “centralità” decantata, tutti gli ultimi governi di cui il Pd ha fatto parte, Draghi compreso, non hanno fatto abbastanza per accelerare le energie rinnovabili. Per gli asili nido e l’occupazione femminile anche qui troppo poco e per lasciare il segno non basta quanto stanziato con il Pnrr. Discussioni e poi decisioni a maggioranza, non faide. Battaglie più chiare, parole più crude in questo e altri campi. Forse questo aiuterà a finirla con la coazione a ripetere i cambi di segretario a ogni cambio di stagione.

Quest’articolo è stato pubblicato in origine su La Repubblica di sabato 12 novembre. 

Foto di copertina: Una manifestazione di piazza dopo il giuramento del governo Conte I, il 1 giugno 2018 (foto di Alberto Pizzoli/Afp).

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