Non temessi di essere frainteso direi che Emanuele Macaluso era un uomo a una dimensione: la dimensione della politica. La politica nel senso più alto che si può attribuire al termine: quel che ha a che fare con il governo della polis, della città, del paese, del mondo. E, quindi, col modo in cui gli uomini, i politici, si organizzano in parti, partiti, coalizioni per governare. O contestare chi governa. E, siccome gli uomini sono animali molto complicati, hanno ideologie, simpatie ed antipatie, provano emozioni nobili o meno nobili, o addirittura spregevoli, si potrebbe dire che far politica è occuparsi di tutto. “La scienza più difficile e complicata di tutte” diceva Gerardo Chiaromonte, un altro totus politicus che ebbi la fortuna di avere come direttore nei lunghi decenni in cui ho lavorato per l’Unità.
Mi è rimasta impressa una sua commemorazione, pochi anni fa, che aveva già superato di parecchio i novanta, di Enrico Berlinguer. Parlò tersamente, senza il minimo fronzolo, solo del Berlinguer politico, delle sue posizioni e iniziative politiche, della sua linea politica. Non un cenno agli aneddoti, non un tocco di colore sentimentale, non una sbavatura retorica, non il minimo cedimento alla banalità sentimentale, nessuna sdolcinatura, un solo momento di commozione: quando citò l’amico Pio La Torre, assassinato dalla Mafia. Politica e ancora politica, ripercorse, lui che era stato, a fianco di Berlinguer, uno dei protagonisti delle politica del Pci, le scelte, le posizioni, le iniziative negli ultimi anni, dal “compromesso storico” alla morte, i rapporti con Moro e con Craxi. Spiegò in che senso Berlinguer era stato, prima ancora che figura carismatica, un leader politico, uno statista, uno capace di fare scelte politiche epocali, tipo quella che mezzo secolo prima aveva fatto quello che Macaluso ha sempre considerato un altro grande politico: Palmiro Togliatti. Cos’era stata la Svolta di Salerno, la scelta di fare un governo con il monarchico Badoglio, nel 1943 agli occhi della sinistra molto più impresentabile di quanto fosse Moro nel 1968, o Conte ai giorni nostri, se non una formidabile iniziativa politica? Non è forse grazie a quella scelta che poi nacque la Repubblica, si fece la Costituzione, l’Italia è, con tutte le sue fragilità, ancora un grande Paese, e un Paese democratico?
In una delle ultime conversazioni al telefono – no, non eravamo intimi: solo negli ultimissimi anni mi azzardavo a chiamarlo Emanuele, così come non ho mai chiamato Berlinguer Enrico, e faccio ancora fatica a chiamare Napolitano Giorgio – mi ero vantato di essere stato citato dal papa a proposito di Sindrome 1933, un libro in cui ricordo che Hitler andò al governo anche perché i sui avversari non seppero fare politica. Papa Francesco aveva esortato a leggerlo nel corso di un’udienza col premier spagnolo Sánchez. Giusto poco prima delle presidenziali americane, forse perché intuiva i rischi che stava correndo la democrazia americana (e di rimando tutte le democrazie). Quell’udienza era stata una straordinaria lezione di politica: di alta politica, di “politica come forma più alta di carità” per dirla con papa Bergoglio. Macaluso non era credente, come non lo sono io. Ma questa è l’idea di politica che gli era congeniale. Non quella di chi dà addosso ai “politicanti”, e quindi, di conserva alla democrazia rappresentativa che ci siamo storicamente conquistati, e non è così scontato riusciamo a mantenere.
Certo, ci sono buona politica e cattiva politica. Animale politico di razza, Macaluso era un politico di parte. Fortemente, sanguignamente di parte. Fortemente legato al Pci (ma non fece più parte dei partiti che succedettero al Pci), fortemente di sinistra, fortemente italiano, fortemente siciliano (ricordo quando mi bacchettò pubblicamente perché in un articolo, riferito a Sindona, avevo usato l’espressione stereotipata “banchiere siciliano”).
A 96 anni compiuti continuava a seguire con estrema lucidità e inalterata passione le vicende della politica, e in modo particolare di quella italiana. Non si identificava più con nessuno dei partiti esistenti, E certo con nessuno dei loro leader. Continuava anche a fare il giornalista, ormai solo online, con i suoi corsivi firmati em.ma. Come avrebbe reagito e commentato gli ultimissimi sviluppi della politica italiana? Chiedo scusa per la presunzione, ma credo di saperlo.
Per chi ha conosciuto Emanuele Macaluso da vicino e personalmente, Macaluso era totus politicus e totus humanus. Poiché eravamo, fin dagli anni ’80 nell’area migliorista e poi in LIBERTA’ EGUALE, penso di poter “certificare” che il ricordo di S. Ginzberg ha colto perfettamente l’uomo e il politico Macaluso.
Come si dice a Milano, “inscì aveghen!” (traduzione: averne di uomini così!). Poi, certo, ha mantenuto alcuni “fondamentali” comunisti (come si evince dall’ultimo libro scritto con C. Petruccioli COMUNISTI A MODO NOSTRO), che molti di noi riformisti liberal non condividevamo più.
Io non credo che Macaluso sia stato un uomo totalmente politico, ma lo credo un devoto e limitato seguace di Togliatti. Gli uomini totalmente politici hanno una certa tendenza a dimenticare l’umanità e l’umanesimo e sono spesso uomini del momento, trascorso il quale appaiono terribilmente inadeguati – mi si passi il gioco di parole – alle esigenze politiche del momento. Oggi, a distanza di anni, Stalin e Togliatti suscitano ripugnanza e nessuno più si sogna di condividerne opinioni e linguaggio se non un numero ristrettissimo di tardi seguaci. Per questi uomini totalmente politici vale il detto di Mark Twain “Le crociate possono esser state pienamente giustificate, ma da quello che ho sentito dire, tutti quelli che vi parteciparono EBBERO A PASSARE UN BRUTTO QUARTO D’ORA.
Bellissimo autentico e acuto ricordo di Macaluso. Era anche,se posso,un raffinato intellettuale. Nei suoi interventi c’era tutta quella politica alta di cui ha parlato,direi con riconoscenza e affetto Sigmund Ginzberg, ma anche pensieri,conoscenze di vita vissuta,una indomabile razionalità critica,a volte spietata contro ogni sopruso contro ogni ingiustizia.