Donne al presbiterio, l’ultima svolta
post-clericale di Papa Francesco

Lunedì sera, dopo aver letto “Spiritus Domini”, l’atto di riforma ecclesiale varato da Francesco, ho sentito il bisogno di chiamare una delle migliori teologhe italiane, Serena Noceti, per capire bene di cosa si trattasse. Una Chiesa che prevede che ora maschi e femmine laiche possano proclamare la Parola e servire all’altare è molto diversa da quella in cui tutto, anche la lettura della Parola e del servizio all’altare, era affidata al sacerdote e al ministro maschio. È la Chiesa che va oltre il clericalismo di cui spesso ha parlato e parla Francesco? Il clericalismo si era impossessato di ogni spazio?

Ricordavo di aver letto che alle origini la distinzione tra celebrante e lettore poteva essere stata determinata dal diffuso analfabetismo di tanti secoli fa, anche molti Apostoli lo erano. Ma San Paolo no, lui certamente non lo era, eppure anche San Paolo si avvaleva di un lettore. Allora che riforma ha varato Francesco? Cosa vuol dire che 48 anni dopo la riforma di Paolo VI che affidava ai laici maschi il ministero della proclamazione della Parola ora questo ministero viene affidato a maschi e femmine? E’ davvero così scontato che si preveda che un ministero che va esercitato dal “presbiterio”, cioè dall’area della chiesa riservato ai preti, sia anche femminile?

Le riforme si capiscono a seconda di come vengono presentate. Parlare di una riforma ecclesiale che non limita più solo ai maschi il lettorato e l’accolitato consente a pochi di capire di cosa parliamo. Dire che, come accade di fatto da anni ormai in tantissime chiese, le donne potranno proclamare le varie letture sacre durante la celebrazione e coadiuvare il sacerdote nella celebrazione eucaristica, allarga un bel po’ la cerchia, ma non fa capire molto di più, anzi, allontana dalla comprensione.

Meglio di ogni altro una donna, e teologa, può far capire appieno il senso di questa riforma  strutturale di Papa Francesco. Con l’accompagnamento colto e accurato della teologa Serena Noceti si capisce subito che bisogna tornare al Concilio Vaticano II e a quella nuova idea di Chiesa che ne emerse. Per capire il nuovo occorre partire dal vecchio. E Serena Noceti è chiarissima sul passato usando il termine “ascensionale”. E cioè? Tentando di esprimere il punto si può dire che, prima del Concilio, la Chiesa era una società tutta centrata sul clero, una piramide a gradini, tappe della formazione spirituale del sacerdote. Tutti i ministeri sviluppavano e afferivano, passo dopo passo, al clero. Anche quello di lettore era un “ministero minore”: ci si avvicinava al sacerdozio accedendo al ministero della proclamazione della Parola, ad esempio. Ecco l’ordine “ascensionale”: era una piramide. Questo ordine ascensionale separava i laici dai chierici. Tutto questo aveva compimento nella forma del rito: celebrava solo il sacerdote, i fedeli come gregge lo seguivano separati da lui da una balaustra; lui, il presbitero dal presbiterio, dando loro le spalle perché posto davanti a loro, gli indicava la strada, conducendoli.

Il Concilio ha creato uno spazio comune, eliminato la balaustra separatoria, girato gli altari, rendendo la celebrazione comunitaria. Da allora si è formata una Chiesa nella quale tutto il popolo di Dio partecipa ai ministeri ecclesiali. Ecco perché il Concilio ha parlato di Chiesa “tutta ministeriale”: tutti sono ministri in questa visione. Paolo VI subito dopo il Concilio di conseguenza ha abolito i ministeri minori, che rappresentavano le tappe di avvicinamento al sacerdozio, e i laici hanno avuto accesso a ministeri definiti  “istituiti”. Si tratta di ministeri permanenti perché istituiti con apposito rito dal vescovo – chiarisce la teologa – che sono quelli oggetto delle riforma di cui parliamo, e poi di altri ministeri “affidati”, cioè frutto di un semplice affidamento che può essere revocato.

I laici dunque con questa riforma di Paolo VI sono diventati anche loro ministri nel culto: i ministeri affidati per capirci sono quelli svolti dagli animatori e catechisti parrocchiali, ad esempio. Con i ministeri istituiti, quello di leggere le sacre scritture e di coadiuvare il sacerdote, si riceve dal vescovo l’affidamento definitivo, nessuno potrà rimuoverli. Il racconto ecclesiale di Serena Noceti aiuta a capire bene il valore di questa differenza.  La riforma varata da Paolo VI ha creato una Chiesa tutta ministeriale; i laici, senza avere intenzione di diventare sacerdoti, hanno i ruoli citati (che in qualche caso, ricorda la teologa, hanno anche ecceduto questi confini, contemplando anche la predicazione): poi ci sono i tre ministeri consacrati, cioè i diaconi, i sacerdoti e i vescovi.

In questa visione è davvero difficile, oppure è facilissimo, capire perché le donne fossero escluse, ai sensi del diritto canonico, da questi ministeri affidati. È stata una limitazione senza fondamento teologico, spiega Serena Noceti, visto che è richiesto il battesimo (oltre al merito). Dunque con la riforma si superava il clericalismo, ma non l’idea di Chiesa androcentrica. Lo sforzo di Papa Francesco a rendere la Chiesa davvero Chiesa di popolo e non clericale, riconoscere l’unzione di tutti i battezzati (come ha affermato nella lettera al popolo di Dio che vive in Cile dopo lo scandalo della pedofilia) è stato enorme e causa di non pochi problemi. Per procedere però non poteva non affrontare anche l’infondata esclusione delle donne da questi ministeri affidati. Il superamento nei fatti dell’esclusione non risolveva il problema, spiega Serena Noceti, perché il ruolo di fatto non comportava il rito di istituzione. “Il problema è chi sei, non cosa fai”, afferma con acume e accuratezza: insomma, in assenza di rito di affidamento si fa senza essere. La Chiesa restava androcentrica.

Questa spiegazione mi ha aiutato a capire che questa riforma dimostra l’intenzione di Francesco: creare una Chiesa post-clericale in cui come nel rito anche nel governo della Chiesa, a tutti i livelli, siano coinvolti i laici, maschi e femmine. Qui proprio Serena Noceti, già anni fa, ha giustamente osservato: “è innegabile il fatto che, limitando l’istituzione ai servizi liturgici del lettore e dell’accolito, si è finito per separare – indebitamente, rispetto alla visione ecclesiologica conciliare – il modo di pensare e organizzare il momento celebrativo rispetto al resto della vita ecclesiale, laddove invece una ministerialità poliedrica e ricca andava sviluppandosi senza che venisse effettivamente posta (o meglio, recepita) la questione di istituire altri ministeri, la cui rilevanza pastorale e influsso per la vita di chiesa, sono indubbi”. È infatti difficile capire come mai non si riconosca che i catechisti siano ministri e non richiedano l’istituzione di questo ministero. Forse, penso, perché le catechiste sono tante.

Ma intanto ore le donne hanno ottenuto diritto anche a ministeri istituiti dal vescovo, non è poco. La portata di questo cambiamento l’ho colta seguendo nell’esposizione  della teologa la sottolineature dei tempi che sono serviti per arrivarci: 48 anni. La riforma di Paolo VI, che apriva al laici ma si doveva fermare davanti al problema delle donne, è infatti di 48 anni fa. Dunque è chiaro perché per Serena Noceti questo sia un “riconoscimento visibile” che cambierà “la percezione della Chiesa”. Non è un fatto enorme?

Questo cambiamento apre una prospettiva evidente, chiara e fondata nella storia della Chiesa, quella dell’accesso delle donne al diaconato. I diaconi, che sono il primo grado del ministero ordinato, non sono sacerdoti: Giovanni Paolo II ha ribadito che le donne non possono accedere al sacerdozio. “Le questioni non sono collegate, ma la riforma ha certamente un valore simbolico”, afferma la teologa. Sapevo che il fondamento dell’esclusione delle donne dal sacerdozio sta nella condotta di Gesù, che non scelse una donna tra i suoi apostoli. Così attenta alla parola, la Chiesa ha scelto questa regola seguendo la prassi, convinta che se Gesù non fu rivoluzionario rispetto al sistema vigente a quel tempo, come fu rivoluzionario in tanti altri campi, lo avrà fatto a ragion veduta. Ma i diaconi non sono sacerdoti, le indicazioni esplicite di Giovanni Paolo II non escludono le donne dal diaconato, ma dal sacerdozio: dunque perché le donne, che nei tempi lontani erano diacone, non lo sono più?

Il ragionamento della teologa torna alla ministerialità nella Chiesa, ma è lecito andare a un altro tema proprio del pontificato di Francesco. La sua Chiesa in uscita non ha paura dell’altro, e nel documento di Abu Dhabi si capisce chiaramente che il primo altro per l’uomo è la donna. Questo punto Serena Noceti lo chiarisce con grande visione. Allora immagino che per arrivare a una Chiesa davvero aperta all’altro, una Chiesa capace davvero di inculturarsi in contesti diversi, che non si ponga o imponga come un monolite culturale e sociale, il punto di partenza non può che essere l’aprirsi alle donne. Se Francesco parla di superamento della globalizzazione uniformante non poteva che vedere una Chiesa non uniformante. Andare oltre il clericalismo richiede andare oltre la visione e la cultura centralista e androcentrica, quindi una concezione patriarcale della società, della vita e di supremazia culturale. Porre al centro le periferie vuol dire soprattutto questo. Dunque nell’approccio spirituale di Francesco la riforma ha preso ora un tratto di riforma fattuale a partire dall’apertura al primo altro, la donna. Dicendo approccio spirituale intendo dire quel che ha spiegato così padre Antonio Spadaro: “una volta ho chiesto al Papa: santità, lei vuole fare la riforma della Chiesa? Mi ha risposto: no! Io voglio portare Cristo al centro della Chiesa. Poi la riforma la farà lui.” Portare Cristo al centro vuol dire cambiare i cuori prima degli uffici. Ora era il tempo di aprire le finestre per consentire a tutti di respirare il Concilio, probabilmente, che non va più interpretato, ma attuato.

 

Foto: Vincenzo Pinto / AFP

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