Il ritorno dell’opposizione polacca verso le politiche

C’era un clima elettrico il 4 giugno a Varsavia, un clima che non si viveva da tempo. Fin dalle prime ore del mattino le strade della capitale polacca si erano animate di un’inusuale vivacità per trattarsi di una domenica. Treni e pullman provenienti da tutto il Paese, stazioni della metro straripanti di persone e una certa difficoltà nel flusso del traffico, segnalavano che non si sarebbe trattato di una giornata come le altre. Migliaia le bandiere dell’Unione europea, sventolanti accanto a quelle della Polonia, in marcia verso la centrale Piazza Na Rozdrożu. L’appuntamento per tutti era alle ore 12.

Lo aveva fissato qualche settimana prima il leader di Piattaforma Civica (Po) Donald Tusk. Il programma prevedeva una lunga marcia, circa 3,5 chilometri, che avrebbe portato i partecipanti fino alla piazza del Castello. Una manifestazione che inizialmente doveva essere di partito, una convocata per protestare contro le politiche del governo conservatore e nazionalista di Diritto e Giustizia (PiS), ma anche un modo per misurare le proprie forze in vista delle prossime elezioni d’autunno e forse, per lanciare un messaggio alle altre anime dell’opposizione.

La data prescelta d’altra parte aveva un potere altamente evocativo. Il 4 giugno 1989 i polacchi si recarono alle urne nelle prime elezioni semi libere dal dopoguerra. All’epoca a fronteggiarsi c’erano il Pzpr, il Partito operaio unificato polacco, e Solidarność, il sindacato polacco diventato movimento politico che per un decennio aveva preso a spallate il regime. Su cento seggi disponibili al Senato Solidarność se ne aggiudicò novantanove (uno venne assegnato a un senatore indipendente). Al Sejm, la camera bassa del parlamento, Solidarność conquistò 33 seggi su 35 disponibili. I restanti 65 erano stati riservati al Pzpr, come previsto dagli accordi della tavola rotonda firmati qualche mese prima.

Per la storia democratica della Polonia fu un trionfo, che ancora oggi viene ricordato e celebrato. A richiamare quei giorni è stata anche la scelta iconografica. L’organizzazione di Piattaforma Civica aveva deciso di utilizzare lo stesso poster pubblicitario dell’epoca: Gary Cooper nei panni dello sceriffo di Mezzogiorno di fuoco che avanza caracollando con una tessera elettorale in mano.

 

Le ragioni del successo

 

Eppure tutto questo non spiega l’enorme successo della manifestazione voluta da Tusk. Secondo gli organizzatori sono state mezzo milione le persone affluite da tutto il Paese, mentre altre manifestazioni piuttosto partecipate si sono tenute anche in altre città. È difficile stimare con esattezza quanti fossero realmente i partecipanti, ma per chi si trovava lì in mezzo il numero appare attendibile.

A trasformare una manifestazione di partito in una chiamata a raccolta in difesa della democrazia è stato un fatto accaduto qualche giorno prima, quando il presidente della Repubblica Andrej Duda ha approvato un disegno di legge promosso dal governo “contro le influenze russe”. Il provvedimento prevede l’istituzione di una commissione che vada a verificare se negli anni tra il 2007 e il 2022 la Polonia sia stata soggetta alle ingerenze di Mosca. I suoi membri saranno nominati dal Parlamento, godranno di potere investigativi e giudiziari e potranno beneficiare dell’immunità. Chi sarà ritenuto colpevole potrà essere interdetto dai pubblici offici fino a 10 anni.

La legge ha scatenato le ire dell’opposizione e di buona parte dell’opinione pubblica. Oltre alle tempistiche – le elezioni si terranno tra quattro mesi e i primi risultati dovrebbero arrivare a settembre – viene messa in discussione la costituzionalità della legge, che va ad attribuire a un organo amministrativo dei poteri quasi illimitati. Nel mirino ci sarebbe proprio Donald Tusk che della Polonia è stato primo ministro negli anni tra il 2007 e il 2014. Negli ultimi è stato ripetutamente accusato da Diritto e Giustizia e in particolare dal suo leader Jarosław Kaczyński, di essere uomo al soldo di Berlino, e che per compiacere la Germania abbia intrattenuto rapporti amichevoli con Mosca, non opponendosi alla realizzazione del gasdotto Nord Stream 2.

La legge, ribattezzata “Lex Tusk” sarebbe un vero e proprio colpo di Stato secondo gli organi di informazione non allineati all’esecutivo, che paventano la possibilità che l’opposizione perda il suo principale punto di riferimento politico in prossimità dell’appuntamento elettorale. È stato proprio questo il campanello d’allarme che è risuonato nell’opinione pubblica e ha permesso alla marcia del 4 giugno di trasformarsi in un grande successo. Del passo falso sembra d’altronde essersene reso conto, troppo tardi, lo stesso Duda, che pochi giorni dopo averla firmata ha già presentato una modifica della legge privandola delle sue caratteristiche più spinose, come l’interdizione dagli incarichi pubblici. In questo caso sui “colpevoli” cadrebbe una sorta di stigma ma non ci sarebbero conseguenze pratiche come il divieto di partecipare alle elezioni.

La “Lex Tusk 2.0” ha già ottenuto l’approvazione in prima lettura del Parlamento. La sua entrata in vigore avrebbe come conseguenza anche lo slittamento dei primi risultati della commissione, che dovrebbero arrivare dopo la prima tornata elettorale.

 

Il ritorno dell’opposizione in vista delle elezioni

 

Quella del 4 giugno è stata la più grande manifestazione di massa dal 1989, ma soprattutto segna la riappropriazione di uno spazio – quello della piazza – da parte di un partito di opposizione, come non accadeva ormai da molti anni. A cavallo tra il 2015 e il 2016 era stato l’allora KOD (Comitato Difesa della Democrazia) a scendere in piazza in difesa della giustizia e contro l’assalto alla tv pubblica messo in atto da PiS. In anni più recenti la massa si era invece radunata intorno al collettivo femminista Strajk Kobiet (Sciopero delle donne). Tra il 2020 e il 2021 erano stato loro a sfidare le norme anti pandemiche per manifestare contro le la sentenza del Tribunale Costituzionale, che ha limitato in maniera drastico l’accesso all’aborto in Polonia. Tuttavia in quei casi si era trattato di manifestazioni che si erano svolte senza bandiere di partito.

Questa volta la bandiera c’era e intorno a essa si sono stretti anche gli altri partiti dell’opposizione democratica – Polska 2050, Psl, Lewica (Sinistra). Per quanto tutti i principali leader abbiano negato la possibilità di presentarsi alle elezioni con una lista unita, è apparsa la volontà di avviare un dialogo per formare un governo di coalizione. Non è uno scenario irreale. Un sondaggio elettorale condotto dall’agenzia Kantar nei giorni successivi alla marcia indica che Piattaforma Civica otterrebbe oggi il 32 per cento delle preferenze, superando Destra Unita, la colazione guidata da Diritto e Giustizia, che arriva al 31 per cento. La Terza via, costituita da Polska 2050 e PSL, prenderebbe il 10 per cento mentre Lewica il 6 per cento. Il totale dei voti proietterebbe dunque le opposizioni poco sotto il 50 per cento, mentre Diritto e Giustizia anche se trovasse un accordo con l’estrema destra di Konfederacja (10 per cento secondo il sondaggio) rimarrebbe indietro.

Ancora più importante è un altro dato politico. Se andiamo a considerare lo storico delle campagne elettorali degli ultimi otto anni questa è la prima volta in cui l’opposizione sta provando perlomeno a competere. Non era accaduto alle presidenziali della primavera 2015, quando il presidente uscente Bronisław Komorowski dilapidò l’enorme vantaggio attribuitogli dai sondaggi, spianando la vittoria ad Andrzej Duda. Ne approfittò in generale Diritto e Giustizia che alle parlamentari di quell’anno ottenne la super maggioranza dei due terzi in parlamento. Nel 2019 accadde qualcosa di simile, seppur con distacchi minori. In quel caso Diritto e Giustizia ottenne nuovamente una solida maggioranza in parlamento (stavolta però senza i due terzi dell’aula) mentre al Senato le opposizioni la spuntarono per un seggio.

Le dinamiche che l’anno successivo portarono il sindaco liberale di Varsavia Rafał Trzaskowski, espressione di Piattaforma Civica, a contendere fino all’ultimo volto la rielezione di Andrzej Duda, furono dettate più che altro dall’eccezionalità della situazione pandemica, che impose la posticipazione della tornata elettorale e permise al partito di cambiare in corsa il suo candidato. In prima battuta era stata scelta Małgorzata Kidawa – Błońska, che secondo i sondaggi non avrebbe raggiunto nemmeno il ballottaggio.

Le parlamentari, come detto, si terranno in autunno. Non c’è ancora una data, il presidente Duda ha tempo fino a inizio agosto per annunciarla. L’unica finestra possibile include le ultime tre domeniche di ottobre e la prima di novembre. A prescindere da quali saranno le conseguenze della Lex Tusk, da qui ad allora la principale sfida che Piattaforma Civica dovrà affrontare sarà quella di scegliere un candidato premier aperto al dialogo con gli altri partiti dell’opposizione. Le possibilità di vincere la tornata elettorale sono concrete, ma l’equilibro è fragilissimo. Dall’altra parte Diritto e Giustizia non lascerà niente d’intentato.

 

Varsavia – Bruxelles, botta e risposta

 

Le politica interna polacca è ormai intrecciata a doppio filo con l’Europa. Qualche giorno dopo entrata in vigore della “Lex Tusk” la Commissione europea ha aperto una procedura di infrazione nei confronti della Polonia. La Commissione ha espresso il timore che la nuova legge possa inquinare la regolarità delle prossime elezioni.

Negli stessi giorni è arrivata la sentenza della Corte di giustizia europea che boccia in maniera netta la riforma della magistratura attuata da Varsavia nel 2019, in particolare per quanto concerne le modalità di valutazione dei giudici. Tra Varsavia e Bruxelles, è quasi superfluo ricordarlo, è in corso da anni uno scontro durissimo sullo Stato di diritto in materia di giustizia.

I giudici polacchi hanno perso la loro indipendenza e non esiste più separazione dei poteri tra il potere giudiziario e quello esecutivo. È questa in sintesi la valutazione espressa dalla corte del Lussemburgo. La sentenza accoglie quindi il ricorso presentato due anni fa dalla Commissione europea. Il ministro polacco della giustizia Zbigniew Ziobro, ideatore e alfiere di quella riforma, ha commentato con sdegno definendo “corrotti” i giudici europei. Sullo sfondo va ricordato che Bruxelles tiene sempre bloccati i 35,4 miliardi di euro del Recovery Fund destinati alla Polonia proprio per le violazioni di Varsavia sullo stato di diritto. La Commissione attende che il governo polacco attui una serie di riforme richieste lo scorso lo scorso anno nel momento in cui fu approvato il Pnrr polacco. Una di queste riforme, che andrebbe a toccare la modalità di funzionamento della Corte Suprema è attualmente ferma al vaglio del Tribunale Costituzionale.

Intanto Duda guarda avanti Nel primo semestre del 2025 alla Polonia toccherà la presidenza del consiglio dell’Ue. Un traguardo importante, a poca distanza dal ventennale dell’adesione di Varsavia nell’Unione (maggio 2024). Partendo da questi presupposti il presidente polacco ha auspicato un maggiore dialogo tra le istituzioni nazionali.

Per migliorare la cooperazione tra presidenza della Repubblica, Parlamento e Senato ha presentato un disegno di legge che però contiene un punto piuttosto controverso. Nei fatti permetterebbe al presidente di porre il veto alle nomine di dei candidati polacchi alle principali cariche europee. Da una parte questo provvedimento viene visto dai suoi critici come un’importante prevaricazione del proprio ruolo da parte di Duda, dall’altra viene letto come il segnale che lo stesso presidente considera reale la possibilità che in autunno la Polonia possa assistere dopo otto anni a un cambio di governo.

 

Foto di copertina: il leader di Piattaforma Civica ed ex primo ministro polacco Donald Tusk durante la manifestazione anti governativa del 4 giugno, anniversario delle prime elezioni democratiche (4 giugno 1989). Foto di Andrzej Iwanczuk/NurPhoto via AFP.

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