Dalle caldarroste di Sipolje alla “presa” del Tamigi: il ritorno delle identità

Il fiume inglese [1]

In un’inchiesta giornalistica recente sulle ragioni che hanno indotto nel 2016 i cittadini britannici, pur con una ridotta maggioranza, a votare per l’opzione “leave” invece che “remain” nel referendum sull’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione Europa, si sente una cittadina di Sua Maestà affermare:

Siamo qui alle sorgenti del Tamigi, e posso dirti che ora è un fiume d’Europa, ma dopo marzo tornerà ad essere solo il fiume dell’Inghilterra. Vogliamo riprenderci il nostro fiume.[2]

Se c’è un apologo rivelatore della torsione identitaria che ha investito la politica – tutta la politica, da quella municipale a quella mondiale –  è proprio questa storia del “fiume” europeo che ridiventa inglese. E’ come se il fiume cominciasse a scorrere in senso inverso, dalla foce alla sorgente. Non c’è nulla di più liquido di un fiume, che per definizione cambia continuamente la propria consistenza materica (l’acqua e ciò che essa trasporta non possono mai essere identiche nel tempo) eppure nella visione dell’Englishness esso costituisce un riferimento solido, un ancoraggio rispetto al mutamento globale. Il Tamigi attraversa l’Inghilterra da Ovest ad Est per 400 chilometri, ed è sempre stato, come tutti i fiumi, una via di collegamento, una “liquid highway”, un’arteria di connessione tra mondi diversi, tra terra e mare, tra campagna e città, tra una nazione e il resto del mondo. Come scrivono gli autori del reportage,

Quando siamo arrivati alla fine di questo viaggio – nel pieno del dramma Brexit – dove il Tamigi muore nel Mare del Nord, l’impressione è stata quella di un fiume che ha perso la sua forza simbolica di apertura al mondo, ma è diventato l’imbocco d’un’isola sempre più chiusa. Eppure è stato la porta del più grande impero nella storia dell’uomo; i romani, che probabilmente hanno trovato similitudini con il loro Tevere, quasi volessero consegnare un testimone hanno lasciato rovine sull’estuario e all’inizio, proprio alle sorgenti nella regione dei monti Cotswolds. [3]

Come si è giunti a questo capovolgimento di prospettiva? E’ il concetto di identità a spiegare questa introversione? E, più fondamentalmente, l’identità gioca un ruolo nelle relazioni internazionali? E se si, quale è la natura e la salienza della sua influenza? L’identità ha certamente un posto di primo piano nelle relazioni internazionali, ma ciò non è un fatto nuovo. Vi sono state, nella storia recente dello studio e della interpretazione delle relazioni internazionali, distinte fasi nell’affermazione di questo referente ermeneutico. L’identità è diventata una chiave concettuale dominante nelle relazioni internazionali a partire dagli anni ’90 del secolo scorso. Gli studiosi erano alla ricerca di un’alternativa al vocabolario realista-razionalista della disciplina accademica delle relazioni internazionali, che ruotava attorno al concetto di potere inteso in senso materiale. [4]

Lo scontro nelle civiltà

Un primo approccio, abbastanza ineludibile, è il famosissimo tema di Samuel Huntington sullo “scontro di civiltà” [5]. Un concetto controverso ma non per questo meno fondamentale per l’analisi delle relazioni internazionali. Huntington afferma che

la fonte principale del conflitto in questo nuovo mondo [quello che è apparso dopo la fine della guerra fredda] non sarà in prima battuta ideologica, né economica. Le grandi fratture tra gli uomini e la fonte più abbondante del conflitto avranno una matrice culturale. Gli stati nazionali sono destinati a mantenere il loro ruolo di primo piano nelle vicende politiche globali, ma i conflitti principali scoppieranno tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Le linee di faglia tra le civiltà saranno le trincee lungo le quali si consumeranno le battaglie del futuro. [6]

Fatta questa premessa, che ha il merito almeno di reintrodurre nelle relazioni internazionali un elemento immateriale (non solo potere economico o militare), Huntington indica proprio nell’identità il motore dei conflitti o confronti internazionali:

L’identità a livello di civiltà sarà sempre più importante in futuro e il mondo sarà in gran parte formato dalle interazioni tra le sette o otto civiltà principali [7]

che egli indica nelle seguenti: occidentale, confuciana, giapponese, islamica, induista, slavo-ortodossa e (forse) africana.

I limiti di questa tesi sono evidenti, a cominciare dalla confusione – come appare chiaro dall’elenco – tra contesti meramente geografici, civiltà, culture, religioni. Le cosiddette civiltà sono poi concepite in modo essenzialistico ed in termini statici, a-temporali e di immobilità. Infine, ciò che appare meno convincente, è che secondo Huntington le civiltà “separano” e non sembrano – come invece di raccontano sia la storia che l’antropologia – interpenetrarsi, influenzarsi reciprocamente, trasformarsi, evolvere. Tutte le civiltà sono il risultato più o meno riuscito di un amalgama, fatto anche di “stracci e toppe” (nell’espressione dell’antropologo Lowie: that thing of shreds and patches called civilization [8]), non insiemi monolitici dai contorni netti e definiti.

Huntington non avrebbe poi potuto immaginare che gli scontri di cui ci parla non sarebbero stati tanto tra le civiltà, ma nelle civiltà, come dimostra quello che ho chiamato lo “sconcerto europeo” (per opposizione all’idea ottocentesca del “concerto europeo”), e addirittura si sarebbe manifestato a livello nazionale, più che civilizzazionale, con una crescente polarizzazione politica ed economica all’interno dei Paesi, e non solo quelli occidentali.

In ogni caso, non è detto che la formazione d’identità debba essere sempre associata alla simultanea creazione di uno stereotipo negativo dell’altro. Huntington, alla stregua di Carl Schmitt, adotta una logica binaria ed oppositiva. La creazione/percezione dell’altro non è sempre necessariamente un processo avversariale, anche in contesti in cui emerge una chiara asimmetria degli attori. La formulazione “fondamentalista” dell’altro è, pertanto, più il risultato di un riflesso ideologico che una rappresentazione della realtà. [9] Inoltre, non è dimostrato che le differenze culturali, come fattori essenziali dell’identità, conducano più facilmente a discordie e conflitti; in ogni caso, si tratta di una conclusione esagerata. Al contrario, sembrerebbe che i conflitti esplodano più facilmente tra “diadi” statali con caratteristiche culturali simili. [10]

La politica internazionale come ontologia sociale

Un’altra grande opera che ha attinenza con il tema dell’identità è Teoria sociale della politica internazionale di Alexander Wendt [11]. Per Wendt, le relazioni internazionali sono rappresentabili come distribuzione di idee e di saperi,  più che come distribuzione di risorse materiali. I materialisti (intesi come corrente nella teoria delle relazioni internazionali)

ritengono che l’elemento basilare della società sia la natura e l’organizzazione delle forze materiali. [12]

Al contrario, gli idealisti (naturalmente non in senso filosofico né in quello dispregiativo della lingua corrente)

ritengono che l’elemento fondamentale della società sia la natura e la struttura della coscienza sociale. [13]

Per Wendt,

materialisti e idealisti tendono a concepire diversamente l’incidenza delle idee sulla società: i primi privilegiano relazioni, effetti e domande di tipo “causale”; i secondi privilegiano relazioni, effetti e domande di tipo “costitutivo”. [14]

Si pone poi la questione di quale sia il rapporto tra le diverse configurazioni della struttura relazionale della politica internazionale rispetto agli attori.

Affermare che una struttura “vincola” gli attori è come dire che essa ha effetti solo sul comportamento. Se si dice che una struttura “costruisce” gli attori, significa che essa ha effetti sulle loro proprietà [e dunque sulla loro identità, ndr].[15]

A esempio, una struttura internazionale come la guerra fredda influenza non solo il comportamento degli stati (conforme al blocco di appartenenza) ma anche le loro identità e i loro interessi. La guerra fredda ha perciò avuto effetti causali (essere fedeli a Mosca o a Washington), ma anche e forse soprattutto effetti costitutivi. Wendt, in accordo con l’ipotesi generale della teoria costruttivista, spiega che le identità degli stati non sono esogene rispetto al contesto di interazione, ma sono endogene rispetto ad essa. Le strutture sociali non sono solo “distribuzione di risorse e capacità” (schema del materialismo), ma soprattutto sono “distribuzioni di idee” e “stocks di conoscenza” [16]. Di conseguenza,

il carattere della vita internazionale è determinato dalle credenze e dalle aspettative reciproche degli Stati, e queste sono costituite in larga parte da strutture sociali piuttosto che materiali. [17]

Naturalmente anche la tesi di Wendt ha i suoi difetti; ad esempio non pare che la lunga permanenza dei paesi dell’est europeo nel campo sovietico abbia avuto effetti “costitutivi” di lungo periodo sull’identità degli stessi, oltre a quelli comportamentali (degli Stati, più che dei popoli); d’altra parte, come vediamo in questi anni, nemmeno l’appartenenza all’Unione Europa ha avuto effetti stabilmente costitutivi sugli stessi Paesi, anche se l’analogia che spesso viene proposta in termini ideologici tra il ruolo di Mosca e quello di Bruxelles è semplicemente risibile. Le identità dunque sarebbe sì costituite, ma in modo funzionale alla tipologia dell’interazione intersoggettiva, salvo mutare al mutare della qualità e al contesto dell’interazione.

E’ chiaro che una costitutività transitoria rischia di apparire una nozione contraddittoria o paradossale. Wendt offre una spiegazione di questa variabilità. Esistono, in effetti, tre “culture” che determinato i caratteri dell’anarchia internazionale: quella hobbesiana (basata sull’idea di nemico), quella lockiana (basata sull’idea di rivale), e quella kantiana (basata sull’idea di amico). Queste tre culture si articolano secondo tre gradi di “interiorizzazione”, che rispondono a tre diversi percorsi di realizzazione: la forza (nell’ipotesi realista tradizionale), il prezzo (nell’ipotesi neoliberale e razionalista), la legittimità (secondo l’ipotesi realista e costruttivista). [18] Solo l’interiorizzazione in termini di legittimità conferisce stabilità (relativa) all’identità degli stati costituita in ciascuno dei tre modelli culturali.

Restiamo nell’ambito dell’Unione Europea. Essa, nonostante molteplici tentativi, non è mai giunta a definire in modo netto i suoi confini. La questione si pone non solo con riguardo alla Turchia, ma in termini più ampi. Ad esempio, è noto che il Marocco avanzò richiesta formale, nel 1987, di adesione alla CEE. Lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun sostenne che

sarebbe una buona idea, perché incoraggerebbe il Marocco sulla strada dello sviluppo e della democrazia. [19]

Altri hanno proposto l’adesione di Israele all’Unione Europea. E’ recentissima l’ipotesi, ventilata dal Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump [20], di un ingresso del Brasile, che si affaccia sull’Atlantico meridionale, nella NATO, che per definizione raccoglie Paesi dell’Atlantico del Nord (oltre che Mediterranei), e comunque dell’emisfero settentrionale.

D’altra parte, se si ragione di fini, e non meramente di confini, cosa impedirebbe ai Paesi che li condividono di entrare nel consesso di nazioni che li propugnano? E’ un palese paradosso, perché al limite ogni organizzazione regionale tenderebbe a divenire universale, ma ciò è un’evidente aporia. Il concetto di identità non ci aiuta, sia perché è arduo applicare la nozione di identità – in questo caso si tratterebbe di una identità “collettiva” – ad organizzazioni politiche, sia perché dovremmo fare i conti con la compresenza di unità politiche con identità molto distanti all’interno dello stesso contesto politico-istituzionale internazionale. Quando queste entità tentano di formulare la loro ragion d’essere in termini di identità condivisa, quasi sempre cadono in contraddizione con se stesse.

Esemplare è il caso della NATO, una “comunità di sicurezza” [21] come viene definita nella teoria, che dopo aver allegramente annoverato tra i suoi membri dittature o regimi autoritari come quelli della Grecia dei colonnelli, del Portogallo di Salazar e della Turchia dei colpi di stato degli anni ’80 dello secolo scorso, si è successivamente definita – come si legge nel mission statement online [22] – come una organizzazione che “promuove i valori democratici”.  In realtà la NATO, in quanto comunità di sicurezza “pluralistica” (in cui le differenze in termini di valori, idee e comportamenti assumono carattere convergente in un contesto di diffusa reciprocità), ha attraversato fasi diverse, come tutte le organizzazioni complesse: la fase nascente, la fase dell’ascesa, e quella della maturità. Solo in quest’ultimo stadio è possibile constatare lo sviluppo di un’identità della comunità che non sia semplicemente la somma delle identità dei membri o una stabilizzazione al punto di equilibrio più basso, nel senso di un minimo comune denominatore.

Difficile dunque parlare di identità come parametro immutabile. In definitiva, ciò che determina l’appartenenza e l’ammissione ad una organizzazione regionale è l’insieme delle norme che essa si dà ed amministra; è la deliberazione politica collettiva; è un fatto, se vogliamo, sociale, anzi associativo, prima ancora che giuridico.[23] D’altra parte, le regioni geografiche sono esse stesse il prodotto di un costruzione sociale legata agli scopi pratici delle organizzazioni politiche o economiche che in esse operano. Inoltre le identità collettive non sono quasi mai perfette o totali.

Nella maggior parte delle situazioni, il meglio che possiamo aspettarci è l’esistenza di cerchi concentrici di identificazione, al cui interno gli attori si identificano con gli altri in vari gradi, a seconda di chi essi sono e di qual è la posta in gioco, pur cercando sempre di soddisfare anche i propri bisogni individuali. Dall’altro lato, il fatto che gli Stati opporranno resistenza alla formazione dell’identità collettiva non vuole dire che essa non verrà mai creata (….) Gli Stati cercheranno sempre di preservare la propria individualità, ma ciò non preclude l’evoluzione in senso più collettivo dei termini della loro individualità. [24]

Un ulteriore elemento che entra in gioco, in seconda battuta, nella formazione e, soprattutto, nella declinazione dell’identità all’interno delle collettività internazionali è la stratificazione sociale determinata dalle differenze di capacità o di ruolo degli stati. Specie nella pratica multilaterale, gli stati si distribuiscono in diversi insiemi, a seconda dei caratteri della loro appartenenza ad organizzazioni o ad istituzioni. Ad esempio, la stratificazione degli Stati all’interno della NATO (basata sulle capacità politico-militari e sulla competenza, in un contesto deliberativo egualitario fondato sul consenso) è molto diversa rispetto alla stratificazione che emerge nelle Nazioni Unite, molto più formale e procedurale, specie per quanto riguarda la condizione dei cinque stati membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con diritto di veto. Queste diverse collocazioni degli Stati nei contesti multilaterali influenzano anche la percezione dell’identità degli stessi, con la conseguenza di una considerevole variabilità. [25]

La “seconda immagine” rovesciata

In ogni caso, nei processi di formazione dell’identità collettiva internazionale opera, nella maggior parte dei casi, quella che è stata definita “la seconda immagine rovesciata” [26] nei rapporti tra gli stati e la struttura delle relazioni internazionali nella quale sono inseriti. Come è noto, Kenneth Waltz [27] propone tre possibili spiegazioni sulle cause dei conflitti: il ruolo di individui malvagi alla guida degli Stati (prima immagine); società nazionali che favoriscono politiche estere aggressive (seconda immagine); la struttura “permissiva” delle relazioni internazionali, nel senso che le guerre scoppiano perché in realtà il sistema internazionale non ha gli strumenti regolatori coercitivi per impedirlo (terza immagine).

La seconda immagine rovesciata consiste, dunque, nel fatto che è la struttura internazionale a determinare in buona parte le politiche nazionali (oggi in particolare lo vediamo con le politiche economiche) e non viceversa. In termini più propriamente politici, questa influenza outside-inside assume il carattere di un “vincolo esterno”, che limita lo spettro di articolazione della politica estera di un Paese. E’ quanto è avvenuto, sul piano economico, con la globalizzazione, con una specificità importante: la globalizzazione non è un regime internazionale esplicito (come lo è invece il caso del multilateralismo) ma una struttura che si è sviluppata per “accumulazione” di disparate regole, norme e aspettative nella rete delle relazioni internazionali, e che gli stati senza troppo successo hanno cercato affannosamente di adattare alla loro struttura sociale ed economica, ma che hanno in larga parte finito per introiettare con poca deliberazione.

Soft power

Una terza prospettiva da considerare quando si parla di identità in campo internazionale è quella di Joseph Nye, che ha introdotto nelle relazioni internazionali la nozione di soft power, il potere soffice, contrapposto all’hard power (in gran parte coincidente con la forza militare). Per Nye,

un paese può raggiungere i suoi scopi in politica internazionale perché altri paesi – che ammirano i suoi valori, emulano il suo esempio, aspirano al suo stesso livello di prosperità e di apertura – desiderano seguirlo. In tal senso, nel campo della politica internazionale è importante anche stabilire le priorità e attrarre gli altri, e non solo costringerli a cambiare minacciandoli con al forza militare o le sanzioni economiche. Il soft power – far sì che gli altri vogliano gli stessi risultati cui miriamo noi – coopta le persone anziché forzarle. [28]

Si può ovviamente osservare che il soft power di Nye non si discosta certo dal paradigma prevalente del potere; in realtà il concetto più pregante fu introdotto nel lessico politico da Antonio Gramsci, con la nozione di egemonia. Qui mi limito ad osservare che l’idea di soft power è strettamente connessa all’identità. In effetti, un Paese diventa attraente per gli altri attori internazionali se il suo sistema sociale, il suo assetto politico-istituzionale ed economico, le sue risorse culturali configurano un contesto di successo, tale da suscitare ammirazione e spirito di emulazione. Secondo Nye,

in politica internazionale, le risorse che producono soft power scaturiscono in gran parte dai valori che un’organizzazione o un paese esprime nella sua cultura, negli esempi che fornisce con le pratiche e le politiche interne, e nel modo in cui gestisce i rapporti con gli altri. [29]

Per lungo tempo, nella seconda metà del Novecento, gli Stati Uniti hanno svolto questa funzione di paese di riferimento almeno per tutto il mondo occidentale, in considerazione della natura liberale del loro sistema politico. Se tuttavia si inseriscono nell’equazione altri fattori, come ad esempio la letteratura e soprattutto la cultura pop e la musica, gli Stati Uniti hanno esercitato (e tuttora esercitano) una forte attrazione in ampie regioni del globo.

Una “etnografia comparata”?

Se torniamo per un attimo alla vicenda del fiume Tamigi nell’Oxfordshire, la cittadina britannica che reclama per sé il fiume che nessuno le ha sottratto è l’immagine non dell’identità, ma della riduzione della politica a localismo esclusivista. L’immaginazione politica ritorna ad ancorarsi al territorio, in termini di proprietà e soprattutto di appropriazione avversativa se non di vera e propria conquista, come ci dice Carl Schmitt nel Nomos della terra[30] Non sembri lontana questa prospettiva: l’identità costruita e riprodotta viene continuamente riferita ad uno spazio fisico, e si tramuta in politica estera, persino in annessione, come dimostra l’antistorica “riappropriazione” – per giunta infondata storicamente – della Crimea da parte della Russia. Un’identità legata ad un territorio può essere brandita come un’arma.

Eppure, la cittadina britannica fiera del suo Tamigi va rispettata. Questo popolo non è illusorio, al massimo è un popolo illuso da chi tenta di fargli credere che si possa dis-inventare la globalizzazione, come se il fiume potesse risalire il suo stesso corso. È il popolo radicato, come è stato scritto con qualche semplificazione, nel somewhere rispetto a popolo globalizzante dell’anywhere. [31] Ed è anche il popolo che si rappresenta come ethnos, in termini connotativi, restrittivi, più che come demos, cioè in termini denotativi, più ampi. Ma il nastro della storia non si riavvolge. Il rischio della politica internazionale è che si riduca ad una sorta di etnografia comparata mentre dovrebbe evolvere in una politica panumana.

La politica della dignità

Tuttavia c’è un grande filo conduttore tra la “Lady del Tamigi” e la de-costruzione dell’ordine internazionale, ed è, come osserva Francis Fukyuma, la rivendicazione della dignità. Dietro la retorica dell’identità, si cela un concetto antico della politica tra la gli stati e negli stati, che è la dignità, associata al riconoscimento degli attori, siano essi persone o unità politiche. Fukuyama recupera il valore semantico della parola thymos, in greco θυμός, e cioè il desiderio di riconoscimento come fondamento e contenuto dell’identità, che è dunque una nozione eminentemente relazionale, anche nell’ottica delle relazioni internazionali. [32] Panebianco [33] ha proposto di rivolgere l’attenzione ad una micro-fondazione della politica mondiale al di là delle narrative sistemiche e macro-politiche. È il concetto di relazioni politiche integrate, che connettono, volendo usare un’espressione retorica, il palazzo comunale al palazzo di vetro, attraverso la rilevanza delle azioni individuali.

Se assumiamo che il modo migliore per spiegare le dinamiche internazionali consista nel microfondarle, dobbiamo trovare la strada per “dare voce” alle persone in carne ed ossa, dobbiamo comprendere come agiscono coloro che, quale che sia la loro posizione sociale, fanno parte dei diversi aggregati sociali e politici, e in che modo il loro agire condizioni quelle dinamiche. [34]

La ricerca della dignità è il nuovo contesto in cui si svolgono o si disfano le relazioni internazionali. Il processo era stato avviato positivamente con il pensiero politico post-coloniale, ma si è arrestato a causa delle nuove forme di politica di potenza, di pre-potenza o, più spesso, di impotenza.  Prendiamo il caso del Mediterraneo. Ha oggi poco senso, ad esempio, continuare a parlare di “sponda Nord” e “sponda Sud”: si tratta di un lessico che rimanda ad una dicotomia che risente di una concezione del Mediterraneo che non è ancora divenuta pienamente post-coloniale.

Nel Mediterraneo, storicamente, è esistita piuttosto una chiara distinzione Est/Ovest, e la stessa “sponda Sud” è articolata in spazi storico-culturali dotati di una relativa omogeneità, come il Maghreb (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia), il Levante o Medio Oriente (Egitto, Giordania, Israele, Libano, Siria), il Golfo, Mediterraneo “profondo” (Iraq, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar, Bahrein, Yemen). Spesso dimentichiamo che in questo unico bacino albergano diverse “anime”, differenti ambiti definitisi e precisati nel corso di secoli e nel crogiolo di complesse interazioni. La dimensione adriatico-balcanica, infatti, va ripensata nell’ambito di un approccio complessivo al Mediterraneo; quanto accade intorno al Mar Nero e nel Caspio ci interessa o no, per i risvolti che ha sul Mediterraneo?

Che razza di mondo

Qual è – per concludere – il problema dell’identità in politica internazionale? Consiste, a mio avviso, in un’accezione duplice e divergente. La prima è un concetto di identità che chiamerei de-costruttiva: si privilegia la dimensione nazionale, si svalorizza la cooperazione internazionale, si depotenzia il multilateralismo a favore del multipolarismo, si privilegia l’inter-governativismo rispetto all’integrazione politica ed economica. E’ l’idea di una identità a somma zero, un’identità meramente distributiva. Questa è l’essenza del neo-sovranismo. La seconda è invece un’identità strutturante ed integrativa, che si amplia per interazione e condivisione. Nel primo caso siamo all’accezione dell’identità come sostanza, nel secondo caso alla nozione più laica ed operazionalizzante dell’identificazione che matura attraverso l’azione collettiva. Come scrive Wendt,

le identità sono sempre in svolgimento, sempre possibili, sempre realizzazioni della pratica. [35]

Panebianco suggerisce in modo esplicito di distinguere tra identificazione (un processo) e identità (una condizione):

identificarsi in un gruppo può dare luogo, e qualche volta lo fa, a una stabile identità, durevole nel tempo. Altre volte l’identificazione mette capo a un legame più fragile, e più contingente, con un gruppo politico, e per conseguenza a una realtà a termine, meno “rocciosa” e durevole. [36]

Nelle relazioni internazionali, mentre l’identificazione funzionale contribuisce a costruire contesti di cooperazione, l’identità tende ad operare in senso opposto. E’ per questo che essa assume spesso un tono polemico e rivendicativo, specie nei confronti della onnipresente narrazione della globalizzazione, processo tanto intrusivo quanto privo di centri di imputazione certi. Ad un secolo di distanza dalla fine della prima guerra mondiale, che comportò la dissoluzione di tre Imperi (germanico, austro-ungarico, ottomano) e la formazione di nuovi stati, sembra che l’identità torni a svolgere una funzione a favore del momento nazionale.

Ne “La cripta dei cappuccini” Joseph Roth descrive in modo plastico e romanzato il disorientamento dinanzi al disfacimento dell’impero asburgico (la “Duplice Monarchia”). E’ un caso assai interessante, perché, contrariamente al movimento attuale in direzione della sovranità (il cosiddetto sovranismo, che altro non è che un nazionalismo in salsa culturalista ed “immunitaria” direbbe Roberto Esposito [37], in opposizione al “dono” comunitario) qui è la formazione dello stato nazione che è percepita come un processo di alienazione, e di perdita dell’identità. L’impero multinazionale asburgico (“il frainteso ed anche abusato spirito della vecchia monarchia” [38]) permetteva di

accostare ciò che è distante, di rendere affine l’estraneo e di conciliare l’apparentemente divergente. [39]

Solo che, scrive Roth,

in questa pazza Europa degli stati nazionali e dei nazionalisti ciò che è ovvio sembra bizzarro. [40]

Nel grandioso disfacimento dell’impero multinazionale, si staglia per contrasto la storia personale dell’umile caldarrostaio Joseph Branco Trotta di Sipolje, un signore – scrive Roth – che aveva venduto le sue castagne ovunque, in metà dell’Europa si poteva dire.

Ma – nota con disappunto il personaggio Chojnicki – oggi niente più caldarroste senza visto. Che razza di mondo! [41]

Non si può ovviamente nutrire alcuna nostalgia dell’impero, ma sicuramente mi sembrano obiettivi sottoscrivibili di politica internazionale, molto legati ad un concetto integrativo e pragmatico di identità, “accostare ciò che è distante, rendere affine l’estraneo e conciliare l’apparentemente divergente”.

 

[1] La presente relazione è stata presentata sotto al titolo “Politiche identitarie e relazioni internazionali” al Seminario Popolo illusorio e relazioni identitarie, Istituto Universitario Sophia, Figline-Incisa Valdarno, 22.3.2019

[2] Marzio G. Mian e Massimo Di Nonno, Brexit, paure e speranze lungo il Tamigi. Reportage SkyTG24, 15.3.2019 – https://tg24.sky.it/mondo/approfondimenti/brexit-reportage-tamigi.html

[3] Ibidem

[4] Cf. Felix Berenskoetter, Identity in International Relations, “Oxford Research Encyclopedia of International Studies”, Oxford University Press, Oxford 2010

[5] Cfr. Samuel P. Huntington, Ordine politico e scontro di civiltà, Il Mulino, Bologna 2013

[6] Ibidem, p.273

[7] Ibidem, p.276

[8] Robert H. Lowie, Primitive Society, Boni and Liveright, New York 1947 [1920], p.441.

[9] Cf. Richard Ned Lebow, Identity and International Relations, “International Relations”, 22:473, 2008

[10] Cf. Erik Gartzke, Kristian Skrede Gleditsch, Identity and Conflict: Ties that Bind and Differences that Divide, “European Journal of International Relations”, Vol. 12(1) 2006: 53–87

[11] Cf. Alexander Wendt, Teoria sociale della politica internazionale, Vita e Pensiero, Milano 2007 [1999]

[12] Ibidem, p. 38

[13] Ibidem, p. 39

[14] Ibidem, p.40

[15] Ibidem, p.43

[16] Ibidem, p.337

[17] Ibidem, p. 35

[18] Cf. Ibidem, p.364

[19]“ Tahar Ben Jelloun, Una democrazia in cammino, aspettando l’UE, intervista di Daniele Castellani Perelli  (https://www.resetdoc.org/it/story/una-democrazia-in-cammino-aspettando-lue/)

[20] Remarks by President Trump and President Bolsonaro of the Federative Republic of Brazil Before Bilateral Meeting, 19.3.2019 (https://www.whitehouse.gov/briefings-statements/remarks-president-trump-president-bolsonaro-federative-republic-brazil-bilateral-meeting/)

[21] Cf. Emanuel Adler, Michael Barnett, Security Communities, Cambridge University Press, Cambridge UK 1998

[22]  Cf. NATO website, A political and military alliance, https://www.nato.int/nato-welcome/index.html (ultimo accesso 30.3.2019)

[23] Cf. Daniel C. Thomas, Beyond identity: Membership norms and regional organization, “European Journal of International Relations”, Vol. 23(1) 217–240, 2017

[24] Alexander Wendt, op.cit., p.490

[25] Cf. Vincent Pouliot, International Pecking Orders. The practice of multilateral diplomacy, Cambridge University Press, Cambridge UK 2016

[26] Cf. P. Gourevitch, The second image reversed: The international source of domestic politics, “International Organization”, 1978, 32

[27] Cf. Kenneth Waltz, Man, the State, and War. A theoretical analysis, Columbia University Press, New York 2001 [1959]

[28] Joseph Nye, Soft power. Un nuovo futuro per l’America, Einaudi, Torino 2005 [2004]. p. 8.

[29] Ibidem, p. 11

[30] Cf. Carl Schimtt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991 [1950]

[31] Cf. David Goodhart, The Road to Somewhere: The Populist Revolt and the Future of Politics, Oxford University Press, Oxford 2017

[32] Cf. Francis Fukuyama, Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi, UTET,  Torino 2019

[33] Cf. Angelo Panebianco, op. cit.

[34] Ibidem, p. 17

[35] Alexdander Wendt, op. cit., p. 459

[36] Cf. Angelo Panebianco, Persone e mondi. Azioni individuali e ordine internazionale, Il Mulino, Bologna 2018

[37] Cf. Roberto Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002.

[38] Joseph Roth, La Cripta dei Cappuccini, Adelphi, Milano 1974 [1950], p.50

[39] Ivi

[40] Ibidem, p. 23

[41] Ibidem, p. 174

 

Pasquale Ferrara è attualmente ambasciatore Italiano ad Algeri. E’ stato Segretario Generale dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze fino al 2016. Si è laureato nel 1981 in Scienze Politiche – indirizzo politico-internazionale – presso l’Università di Napoli. Ha poi frequentato il Corso di specializzazione post-Laurea presso la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale a Napoli e, in seguito, la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.
Nel 1984 è entrato nella carriera diplomatica, ed ha prestato servizio tra l’altro presso il Gabinetto del Ministro e, successivamente (1987- 88), presso l’Ufficio del Consigliere Diplomatico del Presidente della Repubblica.
Ha svolto diversi incarichi all’estero, in particolare a Santiago del Cile (1989 al 1992), Atene (come Console, 1992-1996), Bruxelles (alla Rappresentanza d’Italia presso l’Unione Europea, 1999-2002) e infine a Washington (2002-2006). E’ stato dal 2006 al gennaio 2009 capo del servizio stampa e portavoce del Ministro e successivamente, dal febbraio del 2009 a giugno 2011, capo dell’unità di analisi e programmazione del Ministero degli Esteri.

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