«Crescita e migrazioni, è l’ora di una vera alleanza euro-africana»

Ea pars quam Africam appellavimus dividitur in duas provincias, veterem et novam, discretas fossa inter Africanum sequentem et reges Thenas usque perducta, quod oppidum a Carthagine abest.

Per i nostri antenati romani, come ricorda con precisione cartografica Plinio il Vecchio nella sua Historia Naturalis, l’Africa altro non era se non la porzione settentrionale del continente che oggi conosciamo, fiorita attorno alla strategica Cartagine – due passi dall’odierna Tunisi – per poi estendersi ad inglobare la Numidia, coincidente grosso modo con l’Algeria e parte della Libia. Una radice africana, quella del Maghreb odierno, spesso dimenticata: dagli abitanti stessi, e da noi europei. E se per risolvere di slancio la sfida decennale delle migrazioni, intimamente legata allo sviluppo economico dei due continenti, tornassimo a considerare Tunisia, Marocco, Egitto ed Algeria come protagonisti di ponte di una vera nuova alleanza euro-africana?

È l’idea che propone in questa lunga conversazione con Reset Stefano Manservisi, dirigente di primo piano della Commissione Europea: capo di gabinetto di Mario Monti (1995-2000) e quindi di Romano Prodi all’epoca della sua presidenza (2000-2004), poi dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini, è stato anche direttore generale della Commissione per gli Affari Interni e in seguito per la Cooperazione Internazionale e lo Sviluppo. Sino a ieri, quando ha terminato la sua carriera presso le istituzioni Ue per raggiunti limiti di servizio. L’occasione, alla vigilia della pubblicazione del volume di Reset Sfida Mediterranea sul futuro delle relazioni euro-africane, per gettare lo sguardo sulla posizione internazionale dell’Ue e sul futuro della democrazia, a nord come a sud del Mediterraneo.

Manservisi, a quasi nove anni dall’immolazione dell’ambulante Mohamed Bouazizi, la Tunisia è rimasta di fatto l’unico Paese “sopravvissuto” all’ondata di proteste anti-autoritarie delle cosiddette Primavere Arabe. Eppure le perduranti difficoltà economiche continuano a metterne a rischio la tenuta sociale e politica. Come scongiurare tale scenario?  

Partiamo dai dati. Secondo l’ultimo Afrobarometro, un opinion poll su ciò che accade nella regione, in Tunisia il sostegno alla democrazia era al 71% nel 2012, all’indomani della Rivoluzione, e al 46% nel 2017. Che cosa significa? Che esaurito l’impulso di essersi liberati da un sistema vecchio – paternalista, ingessato – oltre che repressivo, i benefici sul piano della crescita e della trasformazione di questa in coesione sociale sono mancati. Una serie di attese in termini di democrazia, di crescita, di giustizia sociale, in altre parole, in Tunisia visibilmente non sono state adeguatamente ripagate: il che spiega perché malgrado una certa stabilità e credibilità delle istituzioni tunisine, sotto la pelle la fragilità è immensa, e dunque le elezioni che ora affronta il Paese non sono solo politiche ma riguardano il modello di crescita stesso, perché sostanzialmente i poveri ed esclusi del 2011 sono rimasti poveri ed esclusi anche adesso. E in questo modo l’assioma di una correlazione evidente tra democratizzazione e crescita economica e a cascata distribuzione dei suoi frutti è messo a dura prova.

Un pessimo segnale nel momento in cui il modello liberaldemocratico soffre la concorrenza impietosa di altri grandi player globali. Dobbiamo davvero pensare che sistemi chiusi o perfino autoritari siano in grado di garantire risultati socio-economici più efficaci?

Non c’è dubbio che sul piano globale, come testimoniano tutte la analisi contemporanee sul tema, assistiamo oggi a una restrizione dei Paesi governati da democrazie liberali ed un’affermazione parallela delle democrazie autoritarie o autocrazie. Questo indica una serie di problemi su cui l’Europa per prima deve riflettere. Da un lato, la complessità dei problemi e delle paure che crea una globalizzazione policentrica richiede dalle istituzioni una capacità di azione rapida, efficace e visibile. Ora evidentemente ciò non sempre è possibile, il che genera quel cortocircuito in cui s’inseriscono i populismi o forme autoritarie che vediamo prendere piede attorno a noi. Dall’altra parte, è evidente che una democrazia che lascia magari più spazi di libertà ma che non affronta la questione della coesione sociale, della distribuzione della ricchezza, che non fa insomma che creare una nuova casta di ricchi al posto di quella vecchia senza concedere alla gente comune nuove opportunità crea delle delusioni. Tale fenomeno ha giocato senza dubbio a favore delle democrazie autoritarie. Tuttavia se ci chiediamo se in fin dei conti queste siano davvero in grado di governare questa complessità, direi che c’è un’illusione di breve termine, ma che i risultati sono ben lungi dall’essere dimostrabili. Sono spesso operazioni di contenimento e di breve periodo, che dimostrano a mio avviso una cosa fondamentale: che la democrazia deve riflettere sulla capacità di essere non solo formalmente legittima, attraverso elezioni, ma sostanzialmente accettata perché in grado di portare frutti tangibili. In mancanza di questi, i populisti di ogni tipo navigano, in Europa come altrove.

Sulla scia di quel domino incredibile dell’inverno/primavera 2011, l’Ue lanciò un’ambiziosa risposta, la cosiddetta Partnership per la democrazia e la prosperità condivise con il Mediterraneo del Sud. Che fine ha fatto quell’aspirazione “macro-regionale”? E chi ha tradito le promesse di rifioritura del Nord Africa?

Con tutta l’amicizia per i nostri partner, i primi responsabili sono le nuove classi dirigenti dei Paesi stessi: in troppi casi queste hanno creato un cortocircuito contendendosi il potere ma tentando anche di usarlo a proprio favore, con scarsi risultati. I dati del citato Afrobarometro in questo senso sono preoccupanti: se in cinque anni il consenso per la democrazia è calato dal 71 al 46% significa che la politica e le istituzioni tunisine in primis sono stati deludenti. Quanto a noi, l’Unione Europea ha sposato subito quelle primavere, pur forse non leggendo sempre a fondo le sfumature di quei fenomeni, con la risposta politica del partenariato: negli ultimi cinque anni abbiamo investito circa 1,5 miliardi nei Paesi del NordAfrica per il rafforzamento delle istituzioni, per la creazione di occupazione e la coesione sociale. Ma va detto che simmetricamente in Europa, specie dal 2013-14, la pressione migratoria dalla Libia insieme con gli attacchi terroristici hanno generato un importante fenomeno di autodifesa. I populisti nostrani così come le politiche restrittive hanno giocato molto. Poiché la richiesta chiave dei giovani di quei Paesi era ed è di potersi muovere di più, non dimentico che in quegli anni in cui ero direttore generale agli Affari Interni parlare di liberalizzazione o facilitazione dei visti dal NordAfrica era quasi una bestemmia…

Le mutazioni di sensibilità politica, insomma, hanno condizionato la capacità delle istituzioni Ue di dare una risposta ambiziosa a quella domanda che veniva da Sud.

Proprio così. Ci sono state condizioni oggettive dai due lati del Mediterraneo che malgrado la buona fede hanno impedito la sola vera risposta alla domanda, cioè una vera integrazione. Per spiegare in modo immediato la politica di vicinato specie nei confronti del Nord Africa, Romano Prodi coniò l’espressione “Everything but insitutions”: voleva dire mirare di fatto a una piena integrazione economica, unico modo per ancorare quelle economie e quelle istituzioni all’Europa, e facilitare così sui due lati del mare sviluppi sostenibili. Mi pare evidente che siamo ben lontani dalla realizzazione di quel motto.

Allarghiamo la visuale ai due continenti. Entro i prossimi due decenni, come Reset racconterà in un libro di prossima uscita, la popolazione africana supererà quota 2,5 miliardi di persone, il triplo di quella europea. Come ci dovremo relazionare con il “gigante” a sud?

Il differenziale demografico tra un’Europa che invecchia e un’Africa sempre più giovane è già oggi una componente centrale della relazione: il 60% della popolazione africana ha meno di 35 anni. Poi il trend potrà evolversi in direzioni diverse a seconda che vengono attuate o meno anche in Africa politiche di controllo delle nascite e di pianificazione famigliare, ma lo scenario è chiaro. Come Commissione noi riteniamo che la soluzione sia un’alleanza tra Europa e Africa: non solo l’Africa sub-sahariana, tutta l’Africa. Stiamo lavorando, pur mantenendo la differenziazione tra i Paesi nell’area del Vicinato e gli altri, per avere un dialogo politico con tutti allo stesso momento di modo da affrontare le questioni continentali in modo differenziato ma in un luogo unico – l’ultima volta è stata ad Abidjan con il vertice Europa-Africa (a novembre 2017, ndr). Dobbiamo essere chiari: o quel differenziale ci fa paura, o ci spinge a vederne le opportunità e potenzialità. Un continente giovane è un continente di persone che sono più facilmente entusiaste di inventare, di innovare, che ha una propensione alla creazione di impresa più alta di quella dell’Estremo Oriente, dove le nuove tecnologie si espandono in maniera molto veloce. Oggi in Africa c’è più di uno smartphone a testa: e non è solo per telefonate “private”, ma soprattutto per svolgere attività economiche, scambi etc. Costruiamo con l’Africa una vera alleanza, dunque, basata su quattro pilastri. Il primo sono gli investimenti – superando il concetto dei vecchi “aiuti allo sviluppo” – che devono essere orientati all’obiettivo di creare occupazione: lavoro che generi a sua volta ricchezza sostenibile e distribuibile. Secondo, la lotta al cambiamento climatico, al tempo stesso foriera di opportunità e di sfide comuni – pensiamo al suo impatto già oggi sui flussi migratori. Terzo, l’adozione di politiche ed approcci pan-africani, che tengano conto cioé di quella dimensione di mercato interno africano che si sta costruendo, e per la quale possiamo condividere tutta la nostra esperienza. Quarto ed ultimo, i giovani e le donne, gruppi entrambi in maggioranza all’interno di quelle società cui vanno riconosciuti maggiori spazi ed opportunità.

Sul breve periodo, resta però il gigantesco problema di gestire in maniera ordinata i flussi migratori: possibilità o utopia?

Premesso che la parte preponderante di quei flussi si svolge oggi all’interno del continente africano, con problemi d’integrazione e razzismo a volte non dissimili dai nostri, non c’è dubbio che l’implosione della Libia in particolare ha creato per noi un problema molto acuto rispetto ad una pressione che in realtà c’è sempre stata. Credo la prima risposta stia nel pensare la questione migratoria come un fattore comune, per il quale ognuno è un po’ responsabile. Gli stessi Paesi africani in altre parole devono essere in grado di gestire il loro territorio. Non parlo di repressione, ma di rendersi conto che non si possono chiudere gli occhi rispetto ai traffici di uomini magari illudendosi di beneficiare delle rimesse di chi emigra: bisogna lavorare insieme per combattere i trafficanti. Ora, sin qui abbiamo lavorato insieme – investendo 3,5 miliardi – sulla reintegrazione di quanti tornano a casa, sulla creazione di impiego, sul rafforzamento delle capacità di controllo del territorio. Ma sull’altro binario, quello di favorire l’immigrazione legale, abbiamo fatto troppo poco: da un lato per via del contesto politico difficile in Europa, dall’altro perché le competenze Ue quando si entra su questo terreno sono ben poche dunque non abbiamo potuto fare proposte molto ardite. Sono convinto che negli anni a venire si debba fare molto di più in questo campo perché il modo per scoraggiare la migrazione illegale è una vera ancorché difficile migrazione legale. E aggiungo che le istituzioni europee saranno più forti nel farlo se le stesse imprese, che hanno necessità di manodopera e competono sul mercato globale per menti e professionalità, assumeranno un ruolo più proattivo proponendo esse stesse una politica migratoria a livello europeo. Su queste basi, contesto politico permettendo, c’è spazio per fare un grande salto.

L’interesse europeo per una partnership di tale tipo con l’Africa è evidente. Siamo sicuri però che dall’altra parte vi sia lo stesso impegno, o rischiamo di “perdere” lo sviluppo del grande continente a beneficio di altri competitor globali come la Cina?

Da parte africana c’è grandissimo interesse, anzi sono quei Paesi stessi spesso a dirci: svegliatevi, non siete più il nostro partner “naturale”, noi ragioniamo già in ottica globale. L’Africa in questi anni ha preso coscienza di sé, e del fatto che in un mondo multipolare si moltiplicano le opportunità nelle relazioni con “altre” potenze. Se è verto che restiamo di gran lunga il primo partner commerciale, il primo detentore di stock d’investimenti nonché il più grande donatore di aiuti allo sviluppo, dobbiamo smetterla dunque di pensare in maniera egocentrica, come se l’Africa per definizione guardasse a noi. Quella relazione privilegiata è destinata a durare solo se saremo capaci di rinnovarla. Quello che deve avanzare con gli investimenti è l’impatto che siamo in grado di avere in termini di creazione di lavoro, di opportunità per i giovani, di trasferimento di conoscenza, di formazione, di miglioramento del contesto di business. Ma il vero salto sta nell’integrazione dello spazio africano in quello che una volta avremmo chiamato decentramento produttivo. Si tratta di concepire gli investimenti in un’area economica a tutti gli effetti euro-africana. Per fare questo, bisogna che l’Africa sia molto meno vista come il continente della povertà, della siccità, delle guerre, dei disastri, o delle commodities. È una realtà che esiste ma c’è come detto tanto altro, dal momento che parliamo di un’area che cresce del 4,5%, dove c’è fame di tecnologia, di creazione di piccole e medie imprese. E in questo gli africani sono molto sensibili, perché certo altri partner sono molto più rapidi di noi ma lavorano in condizioni di mancanza di trasparenza finanziaria quasi assoluta, oltre che di crescita locale molto limitata: parte di quei Paesi soprattutto se hanno lavorato molto con la Cina cominciano a porsi delle serie domande sulla sostenibilità del debito. In quest’ottica, per tornare al punto di partenza della discussione, il valore aggiunto dei Paesi nord-africani è fondamentale. Nelle nostre relazioni noi li abbiamo sempre considerati mediterranei ma molto poco africani, mentre invece il loro livello di sviluppo e di capacità può essere un fattore fondamentale in questo partenariato euro-africano da mettere in piedi. Il Marocco è in questo l’esempio migliore: un vero Paese mediterraneo-africano, che lavora con noi forse nel modo più avanzato in tutto il Maghreb anche in tema di sicurezza e gestione dei flussi migratori, ma al contempo profondamente ancorato in Africa attraverso politiche ben mirate.

Dunque la frontiera dei prossimi anni può essere quella di un superamento della politica di vicinato per includere i Paesi del Magreb in una vera e propria alleanza euro-africana?

Credo di sì. La politica di vicinato resta una delle più importanti, però oggi in termini geopolitici il nostro vicino è l’Africa tutta intera; poi al suo interno si differenzia, con i Paesi del Nord Africa protagonisti di uno schema di collaborazione più ravvicinata.

Siamo alla vigilia di un nuovo ciclo di governo dell’Ue, ma anche di un nuovo quadro finanziario pluriennale. Nei prossimi 5-7 anni, dobbiamo aspettarci un’Unione più aperta al mondo o più intenta a “proteggere” i suoi cittadini dal mondo?

È una previsione difficile poiché dipende da tanti fattori. Di certo sul piano operativo nel Quadro Finanziario per il prossimo settennato abbiamo cercato di semplificare al massimo gli strumenti per l’azione esterna per aumentarne la coerenza ed efficacia. Secondo, credo la risposta a questa domanda non potrà che essere ancorata al concetto di sostenibilità. Il contesto di obiettivi internazionali entro il quale lavoriamo è quello dei Sustainable Development Goals, ossia l’Agenda 2030 per la sostenibilità a livello globale decisa nel 2015 che ispira tutte le nostre politiche di sviluppo: mobilità, migrazione, lotta alla povertà, coesione sociale – tutte le politiche e le azioni vanno formulate in modo integrato guardando a quegli obiettivi. E la presidente presto in carica Von der Leyen lo ha detto molto chiaramente: se facciamo degli SDG l’orizzonte dell’azione dell’Ue, diamo un messaggio fortissimo non solo all’interno, ma anche a tutti i nostri partner.

Tanto all’interno quanto all’esterno, molte forze agiscono però oggi per la disintegrazione dell’Unione Europea. Se guarda all’Europa del 2040, è preoccupato che tutto ciò che è stato così sin qui faticosamente costruito possa sfaldarsi?

Che ci siano forze negative all’opera è perfettamente normale e legittimo. Io credo però che sul piano concerto della sostenibilità delle proposte alternative esse non siano credibili. Si parla di un presunto G2, sottolineando una nuova configurazione di grandi potenze: se la risposta a tutto questo è ritornare agli staterelli europei, qualcuno dovrà spiegare dov’è la logica. La vicenda di Brexit, incagliata in un cortocircuito ad oltre due anni dal voto per uscire dall’Ue, dimostra plasticamente quest’assenza di visione alternativa. Credo dunque queste forze esprimano un disagio e una critica verso le istituzioni europee di cui tenere conto, ma che esse non abbiano grande futuro. A meno che gli europei non decidano di distruggersi da loro un’altra volta come già in passato. D’altra parte le ultime elezioni europee ci hanno consegnato un messaggio interessante: più votanti, più giovani, e un’apertura di credito, non gratis ma condizionata, all’Europa. Per rispondere a queste istanze abbiamo solo una strada: quella di essere non solo integrati, ma di dimostrare che questo produce più occupazione, più coesione sociale e più efficacia.

Il 1° ottobre lei termina una carriera di primissimo piano ai vertici dell’Ue. Chi è stato, per concludere, l’uomo (o donna) politico con la più ambiziosa visione europea che lei abbia incontrato nel suo percorso?

Avendo lavorato al loro fianco, Mario Monti e Romano Prodi hanno mostrato dal mio punto di vista la visione più strutturata e strutturante di quello che è e può essere il concetto e la realtà dell’Europa, e di come indovinare i percorsi per portarla a diventare ciò che ancora non è.

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