COSE DELL'ALTRO MONDO

Riccardo Cristiano

Giornalista e scrittore

Verso l’anniversario della Dichiarazione di Abu Dhabi. 1)

Non è giunta l’ora di chiederci come si viva dentro i confini? E quante sono le vite comunitarie, chiuse, che riposano sicure su tradizioni e quindi sull’illusione che noi siamo noi perché tra di noi siamo uguali? Questo ci unisce dentro i confini, non altro. Non il tempo, o i processi della storia, neppure la sera, la luna, gli orizzonti, gli amici. No, c’è l’incontro delle paure dentro i nostri confini chiusi. Proviamo allora a vedere come è il mondo visto da dentro i confini. Certamente per prima cosa dovremo capire a cosa servano, e come funzionino. Tutti i confini servono a qualcosa e la prima è definire l’altro, cioè chi sta fuori. Lo si fa con tre metodi: il primo è l’essenzialismo. L’altro se è tale deve avere una specifica essenza, che ci spiegheremo disincarnandola da una tradizione che mai saprà essere ai nostri occhi storia vissuta. L’ altro poi  andrà visto in modo determinista: si tratta dell’ attore di un dramma che non ha scritto e che quindi non controlla. In fine servirà una lettura elitista: gli altri, a differenza di ogni noi, si riducono a slogan di pochi e atti di pochissimi. Pensare all’Islam e ai terroristi è un buon esempio per capire cosa intendo. 

 

Tribù ideologiche

Cominciamo varcando i confini dei gruppi che conosciamo meglio, quelli ideologici, a partire da quello del “noi comunisti”. Ovviamente qui dentro c’è un problema prioritario, definire il nemico. Sono loro, gli imperialisti, aggressivi. Qui dentro si esiste perché si è contro di loro, ragion per cui si è buoni, contro i cattivi. I nostri amici ovviamente sono i loro nemici. Qui si crea l’uomo nuovo, senza consumi, senza neanche ritrovi. Nuovo di zecca quest’uomo non ha bisogni, non conosce lo spirito, non ha tradizioni. E siccome chi non è comunista è anticomunista va tenuto fuori di qui. Il confine qui serve a questo.   

Avanti, si deve procedere, sono tanti i noi ideologici da visitare. Quello cattolico post-credente  ha una certa importanza, e detesta gli orizzonti. Anche qui per entrare occorre definire il nemico. Facile; sono sempre gli altri. Violenti, egoisti, senza tradizioni, questi altri non sanno rispettare e soprattutto non sanno amare. Pazienza, glielo insegneranno da qui dentro, con la pazienza degli angeli e la severità dei giudici. Ci vorrà tempo, ma ci si riuscirà. Chiusi in questi monasteri di post-benedettini i cattolici post-credenti non accettano visite da postulatori di guai e commistioni. Qui si sta chiusi tra beati, gratificati dai  sacramenti e dalla certezza di essere giusti. Gli altri? Peggio per loro. La storia non esiste neanche qui, anzi, soprattutto qui non c’è traccia di storia, di uomo, di tempo. Solo certezza delle tradizioni. 

Possiamo procedere, c’è un altro spazio da non trascurare. E’ quello che io ritengo post-ideologico, che tutti forse sbagliando chiamano fascista. E’ un modo di dire veramente da scemi: qui è considerato importante difendersi, tanto strano? Qui dentro non sarà difficile sentire affermare che loro arrivano da fuori, armati di mazze,  chi sta qui dentro non vuole soccombere. Questo confine è ermetico, si collega bene a quello dei post-credenti, se si ricordano di Patria e Famiglia. Qui si vuole che i figli abbiano il sangue sacro del suolo, forse è sbagliato? E’ una questione di usi, costumi. Tutti hanno i loro costumi, qui si chiede soltanto di poter rispettare i propri. Chi  parla diversamente come può stare nei nostri confini? Si credono razzisti sebbene lo neghino dicendo che sono fregnacce, per loro qui si vuole soltanto abitare uno spazio chiuso, tradizionale, uno spazio dove ci si conosce e ci si riconosce.  Riconoscersi è importante, aiuta a sentirsi uguali, quindi accettabili. L’uomo è fatto così, è membro di una tribù. E nelle tribù se è vero che c’è il consiglio degli anziani, c’è certamente un capo, e poi gli adepti. Perciò qui si parla tutti la stessa lingua, si praticano i riti degli avi, e ci si veste come vestivano loro, soprattutto nel giorno di festa. Se uno viene dal di là dei  confini  è forestiero, un pericolo. 

Dunque dentro i confini siamo uguali perché quelli diversi sono fuori. Questo meccanismo di appartenenza non riguarda ovviamente soltanto le tribù ideologiche. 

Neo-comunisti, post-credenti, neo-fascisti, si sentono al sicuro nei loro spazi chiusi perché i confini li definiscono, e così facendo li rassicurano. D’altronde il termine confini esiste per questo, per delimitare. Chi sta dentro è uguale, chi sta fuori è diverso. Questione di posizione rispetto ai confini. Facciamo un esempio, è sempre meglio capire.

 

Confini imperiali 

Gli imperi nascono con un confine fisso e l’altro mobile. Il confine fisso è il mare. Roma e Cina sono gli imperi iniziali. Delimitano gli spazi dai bordi, cioè dal mare. Poi è cominciata l’espansione. L’espansione imperiale annette, assorbe, ingloba. Conquista lo spazio dimenticando il tempo, i processi. La storia è fuori dai confini con i suoi passi lenti, i suoi mutamenti, i suoi progressi, i suoi regressi. Gli imperi edificano valli per difendersi dalla storia, dal tempo e forse dal presente. Lo spazio imperiale è uno spazio immobile, offre sì il grande vantaggio che si può andare ovunque da ovunque, ma vive in attesa di sconvolgimenti che vengono sempre da fuori. Sovente si tratta dei temibili imperi di mezzo. Qui parliamo di quegli imperi mobili che non hanno un confine sicuro, si muovono oltre frontiere prestabilite: se sono sui margini invece gli imperi cercano di riservarsi anche gli oceani, per i loro commerci; i loro territori d’oltremare sono spazi annessi.

Questi imperi hanno lasciato il posto agli stati sovrani, che esistono solo se sono hanno dei cittadini. Sono loro che danno un senso ai confini; non le etnie, non le nazioni. Neanche le Chiese o le fedi danno un senso ai confini. Chiese ed etnie costituiscono gruppi chiusi, che vivono di tradizioni, di ricordi, di cerimonie antiche, che astratte dal tempo tolgono a tutti il senso del vivere insieme. Diventano insomma scatole vuote. Vuote di storia, vuote di relazioni, vuote di legami. 

L’uomo tribale si accampa in nazioni che si guardano in cagnesco. Ognuno innalza i suoi miti, e i suoi riti, come una bandiera, un solco, uno steccato che lo spera dal vicino in modo irreparabile. La fede così diviene un vestito, un abito tradizionale da indossare in occasione delle celebrazioni, e per contarsi. Ci si contava negli accampamenti tribali, Rimbaud sostiene che i franchi si spalmassero di burro i capelli. Le nazioni così vivevano in uno stato permanente di conflitto, di guerra di religione. Se guardiamo dentro questi confini è difficile scorgere anime fiere. Difendono idee antiche, primordiali, rimosse dal senso del tempo. Come gli altri, i loro vicini. Solo nella cittadinanza comune gli stati sovrani trovano un senso, un luogo comune, una piazza. 

L’equivoco delle nazioni

La piazza, il simbolo della vecchia polis, o dell’urbe, ha segnato la storia del Mediterraneo dai tempi dei greci. E’ in piazza che si è fatta la cittadinanza. Guardiamo a Oriente, a queste terre martoriate da stati etnici. Dov’è che si è formata l’idea di cittadinanza? Questa idea si è formata nelle piazze delle città di mare. Beirut, Tiro Sindone, Tripoli, Acri, Istanbul, Alessandria, Smirne, sono state i volani di un tempo civile, fondato sulla finestra. Le arterie che hanno preso a solcare Beirut e le altre città costiere hanno mandato in soffitta la vecchia edilizia di case chiuse su se stesse, con le finestre soltanto rivolte verso il patio interno. Un mondo chiuso, introspettivo, ha trovato nella finestra la forza e il modo di aprirsi. Tutto questo è accaduto certamente nel nome degli scambi e del mercato, unendo classi medie e ceti popolari, baroni e vecchi bey, lavori portuali e ferrovieri, linotipisti e strilloni. La cittadinanza ha dato voce a una nuova fratellanza mediterranea, araba, turca, circassa, assira, armena, ebraica, caldea, musulmana, sunnita, sciita. I cittadini si sono incontrati nelle piazze, nei porti, e nei loro luoghi di culto. Le vecchie tradizioni hanno intessuto relazioni speciali, i canti del Natale si sono incontrati con i muezzim del Ramadan, con i corni dello shabbath, con le petizioni al sultano per costruire nuove torri dell’orologio. Il tempo, dall’alto dell’orologio, si impossessava del ritmo di tutte le vite, di tutte le comunità, restituendo ad esse un senso; ed è cominciata la storia. 

Vicino ai porti, vicino ai fiumi, vicino alle linee ferroviarie che collegavano i centri abitati, la cittadinanza è diventata l’elemento, il tratto comune di popoli nuovi, fondati su una legge positiva, non religiosa: legge condivisa. Nella costituzione le comunità hanno trovato un collante più forti dei vecchi riti, delle vecchie appartenenze. Così le vecchie nazioni hanno dimenticato le loro linee di demarcazione, i loro ancoraggi al territorio ancestrale, e sono diventate popoli. 

Il Mediterraneo del vapore diviso dagli stati etnici

I popoli del Mediterraneo si sono scoperti vicini al tempo del vapore, delle prime missioni nel Levante. Ma il colonialismo ha spezzato la cittadinanza, le appartenenze sono tornate a trionfare, i confini si sono infilati come coltelli nella carne viva del territorio, presidiato di nuovo da antiche tribù in assetto da guerra. Il colonialismo ha fatto affidamento sulla dannazione degli stati etnici. La Turchia di Ataturk, stato coloniale per i turchi, non esiste perché il suo territorio ha plurime appartenenze: i curdi, gli aleviti, oltre ai turchi, tanto per ricordare i casi più noti. Il Libano cristiano, inventato dai francesi, non esiste, avendo al suo interno tantissime appartenenze. Il Kurdistan non esiste, sebbene mai creato ha comunque al suo interno diverse e importanti appartenenze, a cominciare dalla memoria armena. Per non dire della Siria degli Assad, inventata su misura per gli alauiti, che l’hanno servita nell’esercito coloniale francese. Le imprese coloniali hanno inventato monarchi, qualche presidente da operetta, che si sono accavallati nello spazio  di un Levante squassato. 

Le fedi si organizzavano per servire il nuovo padrone al meglio delle loro possibilità. I ranghi delle gerarchie si riempivano di vescovi e mufti, rabbini e pastori: la fratellanza era un ricordo sventrato dai calcoli dei nuovi signori, poteva arrivare anche Giraud a dire a Saladino, sepolto a Damasco, “siamo tornati”. I confini degli stati coloniali non sono mai stati confini condivisi da popoli che li avevano scelti, si sono dimostrati steccati creati per imporre ai gruppi di vivere separatamente, diversamente. Le diversità esistono, figurarsi, ma sono diversità tra persone, tra i cristiani che da persone appartengono alla loro Ecclesia e musulmani che da persone appartengono alla loro umma. Non sono gruppi che si fronteggiano come branchi di animali. Sono persone che hanno visto interrotto il corso del loro vivere insieme. Chi lo dice meglio di tutto e di tutti è proprio la storia dei cristiani di questo Levante.

Cristiani del Levante 

La loro storia meriterebbe ben altra narrazione, ma le prime comunità cristiane nel Levante arabo erano monofisite o nestoriana, cioè comunità di cristiani che non credevano nella duplice natura di Cristo. Questa visione classicamente semita, che vede in Cristo un uomo il cui corpo diviene un tabernacolo nel quale si manifesta il divino, riconcilia il cristianesimo con un pensiero non greco, non occidentale, ma semita. Anche per questo questi cristiani si trovavano a loro agio in un contesto semita, erano protetti dalle comunità musulmane tra le quali prosperavano in pace. Non altrettanto può dirsi dei loro rapporti con i cristiani bizantini. Quando i grandi concilii di Nicea e Calcedonia li dichiararono eretici questi cristiani monofisiti, nestoriani, sono stati perseguitati dagli ortodossi. Fino alla fine di Bisanzio la storia è stata questa e il XIII secolo, il secolo della diffusione del fondamentalismo islamico dopo l’invasione mongola, se non è giunto come una sorpresa è giunto come un’estensione di un passato perverso. Ma la storia di questo cristianesimo rifugiatosi da secoli nelle montagne per sottrarsi alle persecuzioni bizantine, è una storia che non nasce nella chiusura, nell’arroccamento, nell’identitarismo. Tutt’altro. Questo cristianesimo si plasma, si forgia nello spirito della lettera a Diogneto, del III secolo dopo Cristo, è questa la sua carta d’identità:  “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. […] ” E’ l’atto di nascita del cosmopolitismo cristiano, della Chiesa in uscita. Per questo l’Ecclesia non è un corpo chiuso, comunitario, tribale. L’Ecclesia è costituita da individui, da persona create a immagine di Dio, che esalta come singoli, non come massa uniforme. Niente piatti, niente alimenti speciali, niente quartieri, niente divise. Il messaggio cristiano è un messaggio di fratellanza. 

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