LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e saggista.

La luce aliena di Pasolini

Ha fatto titolo durante l’estate la “rivalutazione” da parte dell’“Osservatore Romano” del Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Girato nel Barese e nei Sassi di Matera dove una esposizione fotografica ne celebra il cinquantenario a palazzo Lanfranchi fino al 9 novembre, il film esordì il 4 settembre 1964 alla Mostra di Venezia. Oltre al Premio speciale della Giuria (il Leone d’oro andò a Deserto rosso di Antonioni), il Vangelo si aggiudicò il riconoscimento assegnato dall’Ocic, l’Office Catholique International du Cinéma. La Chiesa colse immediatamente la spiritualità del film e non solo in virtù della dedica “alla cara, lieta, familiare figura di Giovanni XXIII”. Il 5 ottobre ’64 la pellicola venne applaudita dai cardinali del Concilio Vaticano II, giunti in taxi al cinema Ariston dall’auditorium di via della Conciliazione dove era prevista la proiezione, durante la notte inopinatamente “chiuso per lavori”. Un episodio svelato nel ’75 dal produttore Alfredo Bini e rievocato di recente a Venezia da Enrique Irazoqui, l’allora diciannovenne sindacalista spagnolo (la madre era una ebrea italiana di Salò) scelto dal regista per interpretare Cristo: “Dopo quel trionfo, dissi a Pier Paolo che forse avevamo sbagliato tutto…”. A Parigi, poi, la presentazione del film a Notre Dame si risolse in un altro successo. E la critica di sinistra? Rispettosa, però tiepida.

Isolato, non incompreso. Pier Paolo Pasolini si faceva capire benissimo e perciò divideva, suscitava scandalo, scompigliava certezze ideologiche e appartenenze politiche ancora cementificate nel muro di Berlino, lungi dal venire giù. Dopo la morte violenta a 53 anni per mano del “ragazzo di vita” Pino Pelosi nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975, Pasolini ha subìto dapprima una rimozione feroce e in seguito una paradossale edulcorazione. La figura del poeta è stata trasformata in un’icona pop, un “santino” buono per ogni “evento”. Oggi Pasolini risulta gradito persino alla destra che lo odiò, perché tardivamente legge nella sua “nostalgia” una dimensione conservatrice e comunitaria, anti-liberal. Non che a sinistra il Nostro fosse a suo agio, fin da quando la Federazione comunista di Pordenone lo espulse nel 1949 per “indegnità morale” attribuita alla sua omosessualità e “alle deleterie influenze dei vari Gide e Sartre”. Pier Paolo aveva perso il fratello minore Guido, partigiano trucidato dai “rossi” nell’eccidio di Porzûs del 1945, e fu laconico nella risposta ai burocrati del Pci: “Malgrado voi, resto e resterò comunista”.

Tuttavia, a petto della lenta “assimilazione” nella cultura italiana, egli fu e permane un corpo estraneo, sidereo, una luce aliena o una “forza del passato”. Pasolini irriducibile al suo tempo e al nostro di cui presagì l’omologazione, la melliflua dittatura dei mass media e l’oblio del “paese di temporali e di primule” da lui amatissimo. Questo Pasolini “straniero” adesso riluce nel film di Abel Ferrara, protagonista Willem Dafoe, sugli schermi dal 25 settembre dopo l’anteprima veneziana. Nella versione italiana Dafoe è doppiato dall’ottimo Fabrizio Gifuni (interprete pasoliniano in teatro), ma è un peccato perdere l’inglese del protagonista nel Pasolini originale, visto appunto alla Mostra. La lingua straniera vale infatti a mo’ di suggello della distanza di Pier Paolo dall’Italia che ne ascoltò la voce critica e ne ebbe paura. Fra i suoi epigrammi, troviamo “Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia” e una profezia autobiografica: “La passione non ottiene mai il perdono”.

Articolo pubblicato sulla rivista “Film Tv”, n. 37/2014

 

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