LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

In ricordo di Robert Bellah

Probabilmente non ci sono parole migliori di quelle usate da Jeffrey C. Alexander (http://ccs.research.yale.edu/fellows/senior/#bellah) per ricordare Robert Bellah, scomparso ieri in modo inaspettato all’età di ottantasei anni. La sociologia perde una delle sue grandi menti, oltre che una persona dallo straordinario tratto umano. Alexander ha scritto che in un certo senso ogni sociologo contemporaneo è un po’ figlio o nipote di Bellah. È terribilmente vero. Per chi lo ha conosciuto, ci ha studiato, ma anche per chi non ha avuto questa fortuna, Bellah rappresenta la grande storia della sociologia. Allievo di Talcott Parsons, ha attraversato la storia degli Stati Uniti negli anni del maccartismo con la schiena dritta, e ha dato alla sociologia un dono prezioso: il senso della continuità, della tradizione, mostrando e dimostrando a chi vorrebbe questa disciplina sempre più lontana dalle sue fonti, dai suoi classici, dal suo cuore e dalla sua vocazione, come rinnovamento e capacità di lettura del presente non possano non avvenire se non in dialogo serrato, stretto, quotidiano, con i padri fondatori. Leggere e studiare Bellah significa sentirsi dentro un album di famiglia, in dialogo con Émile Durkheim e con Max Weber, e con loro cercare di cogliere i tratti salienti della modernità.

Queste righe non vogliono in realtà ripercorrere o sintetizzare gli enormi contributi dati da Bellah al pensiero sociologico: dalla nozione di religione civile, peraltro spesso fraintesa, al realismo simbolico, fino al monumentale ultimo lavoro, l’opus magnum sul ruolo della religione nell’evoluzione umana, e a quello sulla nozione di epoca assiale – in dialogo con figure come Shmuel Eisenstadt, Jürgen Habermas, Hans Joas. Anche in Italia ci sono egregi interpreti del pensiero di Bellah, ed è bello pensare che proprio da poco è uscito sulla rivista Sociologica un simposio dedicato a Religion in Human Evolution, curato da Matteo Bortolini, di Bellah il più giovane allievo e interprete. In questo contesto non voglio ripercorrere il pensiero e l’opera di Bellah; vorrei solo che se a un giovane che si accosta ora alla sociologia capitasse di leggere queste righe, andasse a cercare una copia di un suo lavoro, uno qualsiasi, e sprofondasse nella lettura. Capirebbe meglio che da mille seminari cosa significa fare sociologia, cosa significa coniugare teoria e ricerca empirica; cosa significa tenere faticosamente in equilibrio impegno etico e pubblico da un lato, e rigore scientifico dall’altro; cosa significa saper guardare alla storia e al passato per provare a leggere il presente e tentare di orientarci nelle possibili linee di sviluppo del futuro. Robert Bellah è a tutti gli effetti una figura esemplare, come tale capace di stimolare e spingere all’emulazione; e lo è esattamente in virtù del suo essere stato sempre nel solco dei grandi classici, nel non aver svenduto – pur in contesto come quello statunitense, in cui la sociologia ha subito torsioni ‘professionalizzanti’, poi diventate di moda anche in Europa – l’originario respiro ermeneutico, la capacità critica, lo spessore teorico della riflessione sociologica. Se Talcott Parsons veniva chiamato ‘Mister sociologia’, noi oggi possiamo dire senza dubbio altrettanto del suo allievo; Robert Bellah è stato l’incarnazione della sociologia al suo meglio. È una perdita enorme, di cui sentiremo tutte le conseguenze e la portata. È certo però che, come per tutti i grandi classici, Bellah si è già andato ad aggiungere alla galleria dell’album di famiglia, e continuerà a parlarci, in dialogo continuo e costante con gli altri giganti del pensiero sociologico.

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