LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Favole e miti dei “Passeggeri notturni”

Quando sali, non ti viene voglia di scendere. Non prima della fine della corsa. È un treno di racconti l’ultimo libro di Gianrico Carofiglio, Passeggeri notturni (Einaudi Stile Libero Big ed., pagg. 94, euro 12,50). Trenta «pezzi facili» lavorati di cesello per limare e rifinire la forma breve, la più difficile. Trenta storie di tre pagine ciascuna, talora col sapore dell’apologo, attinte dall’immaginario dello scrittore barese che coltiva più di un genere, dal giallo mediterraneo dei casi dell’avvocato Guerrieri fino a certe sfumature neo-romantiche, senza disdegnare il memoir e le incursioni nella scrittura civile illuminata dalla magnifica ossessione del linguaggio (Con parole precise per i tipi di Laterza nel 2015).

A conquistare il lettore è in primis la passione – meglio, la compassione – di Carofiglio verso i suoi personaggi, ovvero la capacità di scandagliarne le ragioni e di trovare persino in chi ha torto un barlume di ragione. Un retaggio, forse, della trentennale attività di magistrato inquirente dell’autore, da poco conclusa. Ma è soprattutto la semplicità dello stile, nitido senza ricercatezza, a fare di questi racconti una piacevole galleria di avventure e disavventure, lungo binari realistici che tuttavia offrono la possibilità di sviare felicemente dal consueto, dal tran tran (o tren tren) della vita quotidiana. Così, i «passeggeri notturni» diventano i lettori tutti, sedotti e non abbandonati da un compagno di viaggio, l’autore medesimo, il quale spesso si esprime in prima persona all’insegna di un autobiografismo autentico o plausibile.

Ecco per esempio l’incipit del racconto intitolato Un addio: «Per molti anni ho preso il treno di notte fra Bari e Bologna un paio di volte al mese. Quasi sempre le cuccette erano tutte occupate e quasi sempre i compagni di viaggio non erano né gradevoli né silenziosi. Nel migliore di casi russavano. Nel migliore». Eppure sul convoglio che costeggia l’Adriatico nel freddo umido di febbraio, quella notte accade un che di tristissimo e prodigioso quando nello scompartimento incredibilmente vuoto, che già lasciava pregustare un sonno non disturbato, entra una donna. Sembrerebbe la premessa/promessa di un dialogo sentimentale tra sconosciuti, di un’affinità elettiva che si compone nel vagone del Caso, e per certi versi lo è. Quali versi? «Vivere è stare svegli / e concedersi agli altri, / dare di sé sempre il meglio, / e non essere scaltri./ Vivere è amare la vita/ con i suoi funerali e i suoi balli, / trovare favole e miti / nelle vicende più squallide…». Li recita sommessamente la donna nella sua cuccetta due piani sotto quella del protagonista, dopo aver rammemorato fra sé e sé un amore perduto e averne pianto la fine; un abbandono o un lutto, chissà.

«Mi domandai se scendere, dirle qualcosa, offrirle il mio aiuto. Ma lo sapevo bene che non potevo fare nulla per la sua disperazione: ero solo un passeggero nella notte, una sagoma nell’ombra». A Bologna il Nostro smonta dal treno e poiché Google è di là da venire non riesce a individuare l’autore di quella lirica, né sanno aiutarlo gli amici interpellati. Soltanto molti anni dopo la «ritroverà» in un libriccino sfogliato durante una cena in casa d’altri ed è un’epifania finalmente compiuta dopo una lunga sospensione «ferroviaria» che è poetica, anzi meta-poetica (e, volendo, mitopoietica). Nel territorio ineffabile dell’invenzione la donna è la scheggia di un mito, proiettata su quel treno chissà da quale lontananza e intercettata dallo scrittore che la rende corporea e palpitante. Ah, i versi sono dello slavista Angelo Maria Ripellino, l’autore di Praga magica.

Di tali «squarci nel tempo» ve ne sono altri in Passeggeri notturni. Come quando l’autore, o il suo alter ego, dapprima prova a immaginare e quindi sente gli odori dell’infanzia: «La focaccia del panificio San Rocco. Le merendine con la glassa di zucchero appena sfornate alla Fiera del Levante». Fino allo choc olfattivo del «profumo del freddo e della giacca di pelle di mamma appena tornata a casa da scuola» (il racconto è Aria del tempo). E nell’ultima novella del libro appare un padre scomparso, ringiovanito, coetaneo del figlio che lo sta sognando nelle Stanze intermedie fra la vita e la morte, mai del tutto serrate a chi resta. E’ il fascino struggente dei passaggi, è lo stupore della notte a occhi aperti, è la scrittura che non scende neppure quando un treno si ferma.

Articolo pubblicato sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” (23 aprile 2016)

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