Siria, il dibattito in Libano lontano dalla comunità internazionale

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Da Beirut – L’ultimo rapporto di Human Rights Watch sulla guerra in Siria è stato pubblicato in questi giorni, e parla del massacro di Al- Bayda compiuto dalle forze governative il 2 e 3 maggio scorsi. In 68 pagine si parla di almeno 248 esecuzioni sommarie, ricostruite grazie alle testimonianze dei sopravvissuti e degli attivisti locali. Quattro mesi fa le milizie filo-Assad e alcuni gruppi dell’opposizione si sono scontrati in questo piccolo comune di 7mila anime, Al-Bayda, a pochi km da Baniyas, enclave sunnita nel governatorato di Tartous. Secondo alcune testimonianze raccolte da HRW, dopo che le forze dell’opposizione si sarebbero ritirate, i filo governativi avrebbero cominciato dei veri e propri rastrellamenti casa per casa, giustiziando gli uomini ma in almeno 38 casi anche donne e bambini.

Se il governo siriano ha ammesso queste operazioni militari, secondo quanto riferito dall’organizzazione per i diritti umani, ha anche specificato di come si sia trattato di un intervento necessario a fermare dei “terroristi”, e che eventuali errori saranno investigati e riconosciuti da un apposito comitato.

Il numero reale dei morti potrebbe essere più alto, come potrebbe non essere mai determinato con sicurezza, mentre i fatti di quattro mesi fa oggi sembrano di un’altra epoca, con Russia e Usa impegnate sul fonte della “trattativa armi chimiche”: singolarità di un conflitto finora scongiurato agli occhi della comunità internazionale, ma che nella realtà non si è mai smesso di combattere dal 2011.

“Mentre l’attenzione del mondo è concentrata sulla necessità di garantire che il governo siriano non possa più usare armi chimiche contro la sua popolazione – ha commentato Joe Stork, referente Human Rights Watch per il Medio Oriente – non dobbiamo dimenticare che le forze governative siriane hanno massacrato i civili anche con mezzi convenzionali. I sopravvissuti ci hanno raccontato storie devastanti di come i loro parenti disarmati siano stati falciati davanti ai loro occhi”.

Mentre Kerry e Lavrov definiscono i dettagli dell’accordo, anche il vicino Libano continua a vivere l’attesa perenne di sapere cosa succederà, con apparente calma, e un dibattito in corso, in cui le posizioni sulla questione siriana dividono i due blocchi principali di alleanze politiche al governo.

Lunedì scorso proprio l’ambasciatore russo a Beirut, incontrando il primo ministro Najib Mikati, ha espresso grande soddisfazione per la presa di distanza del paese dal conflitto, e ha ribadito l’impegno di Mosca a mantenere tale la situazione, per evitare la creazione di nuovi focolai di instabilità. Ma parlare di presa di distanza e di focolai tenuti a bada nel paese dei cedri, rispetto a quanto accade a Damasco, sembra veramente un eufemismo.

Dietro una situazione di calma apparente, i conflitti di larga scala qui si riflettono fra i check point che sorgono in un attimo fra un quartiere e l’altro. Il venerdì può potenzialmente diventare un momento di scontro a fuoco, soprattutto al nord, a Tripoli ad esempio, dove il controllo del territorio è ben delimitato fra l’unica area alawita e i quartieri sciiti, e dove può capitare che per un discorso pronunciato da un leader politico, internazionale o locale, si arrivi a imbracciare i fucili per poi tornare al proprio lavoro quotidiano. Perché non si parla di milizie, ma di gente comune che gestisce alimentari, piccole botteghe, che all’occorrenza combatte. Se si ritiene che serva a mantenere il controllo di un territorio, o a ribadire una posizione politica. Proprio a Tripoli è ancora fresca la memoria del 23 agosto, quando due attentati nelle moschee Al Salam e Al Taqa hanno fatto 47 morti, anche se la macchina della ricostruzione ha quasi già cancellato le tracce delle esplosioni.

Anche a Beirut, lontano dal downtown e dalle vie dello shopping, basta andare verso il sud per capire come la situazione sia delicata. Negli ultimi giorni si è parlato a lungo dei posti di blocco più o meno spontanei sorti nel corso dell’estate dopo l’ultima autobomba del 15 agosto scorso. Mohammad Raad, ministro dell’Interno ed esponente di Hezbollah ha criticato la presenza di misure di sicurezza alternative che ha imputato all’Alleanza del 14 marzo, guidata dall’ex primo ministro Saad Hariri, e ha ribadito la necessità di affidarsi all’apparato “regolare” dello Stato per la sicurezza.

Il continuo afflusso di profughi complica ulteriormente gli equilibri. Almeno un milione e mezzo di persone, dati non ufficiali, è arrivato dalla Siria e sta modificando una serie di dinamiche interne, soprattutto in quelle enclavi già di per se complesse come i campi profughi storici, quelli palestinesi. Solo a Shatila, noto per il massacro di 31 anni fa, un intero quartiere è diventato quasi completamente siriano ed ora sfugge alle dinamiche più ampie della gestione politico-sociale “tradizionale”, con gerarchie di comando ben definite.

Restando ai soli dati ufficiali dell’Unhrc, a Beirut sono state registrate167mila persone, (numeri aggiornati al 9 settembre), 221mila a nord, nell’area di Tripoli, 254mila nella Bekaa, ad est, e 88mila nel sud. Si tratta in prevalenza di persone di età compresa fra i 18 e i 59 anni, fra il 20 e il 23% del totale, e di bambini fino agli 11 anni. Almeno altre 104mila persone sarebbero poi in attesa di registrazione lungo il confine. E si tratta di una stima al ribasso (vedi i dati Unhcr).

Mentre su scala internazionale si sta giocando una partita a scacchi squisitamente politica, dal Libano proprio stamattina è arrivata la voce dell’ex primo ministro Saad Hariri che ha deciso di parlare di Siria attraverso un editoriale pubblicato oggi sul quotidiano Al Mustaqbal: “la sofferenza del popolo siriano sta continuando, mentre la comunità internazionale discute – si legge – Negli ultimi due anni sono morte più di 100mila persone, ma non c’è interesse per le città distrutte e per il futuro del paese. Sono tutti concentrati solo sull’uso delle armi chimiche”.

Non è la prima reazione politica che in discussione la tenuta della alleanze nel paese, come dimostra quella del presidente Michel Suleiman che proprio ieri ha difeso la “Dichiarazione di Baabda” dopo che Hezbollah e il Blocco dell’8 marzo avevano criticato il patto di neutralità del Libano dalle ripercussioni della guerra. Il documento è il punto di scontro con la Coalizione del 14 marzo, che sta spingendo per adottare il patto come dichiarazione di intenti per un nuovo governo, e che trova ovviamente non pochi paletti dall’altro fronte. Proprio Mohammed Radd aveva dichiarato a proposito che la “dichiarazione è nata morta”. Quanto servirà una posizione ufficiale e sottoscritta, ma non condivisa, ad aiutare il dialogo nazionale e a schermare il Libano da sé stesso, forse più che dalla Siria?

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Immagine: Militari nella città di Tripoli, nel nord del Libano

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