Giugno 1989, con Hobsbawm nel suo club londinese

Questa intervista di 23 anni fa, con lo scomparso Eric Hobsbawm, fu pubblicata sull’Unità nel giugno dell’89. Il direttore di Reset era allora vicedirettore dell’Unità e andò a trovare lo storico inglese nel suo club, l’Atheneum, dove avvenne la conversazione, a colazione al tavolo d’angolo, dietro la vetrata che si affaccia sul Pall Mall e gli alberi del Waterloo Garden. Il muro di Berlino era ancora in piedi, ma il massacro di Tien An Men e le elezioni in Polonia facevano presagire gli eventi dell’autunno. Il Partito comunista italiano, che Hobsbawm conosceva bene grazie a molti rapporti personali, sarebbe rimasto tale solo per pochi mesi.

 

Londra. “Una nuova partenza” è il titolo dell’ultima parte
del libro che Eric Hobsbawm ha pubblicato proprio in questi
giorni in Gran Bretagna e che raccoglie le sue riflessioni
politiche sui dilemmi e le prospettive della sinistra in
Europa. Si tratta di “Politica per una sinistra
razionale”, ed. Verso, che troverà probabilmente presto un
editore italiano ed è il segno della vitalità inesauribile di
un grande intellettuale del movimento operaio, di uno storico
del marxismo e del socialismo che ha alimentato generazioni
un po’ in tutto il mondo. Come non ricordare “I ribelli,
forme primitive di rivolta sociale”, tutto il ciclo sulle
rivoluzioni borghesi e il trionfo della borghesia, “I
rivoluzionari”, la “Storia del marxismo” Einaudi, e ancora
“Lavoro, cultura e mentalità nella società industriale” e
“L’invenzione della tradizione”?
La forza della sua riflessione, che si misura con i
laburisti, la Spd, il Pci e, ovunque, con la parte più viva e
importante della sinistra impegnata a cercare percorsi nuovi,
sta nella sua cultura e nella ricchezza del suo rapporto con
il passato. Un rapporto, carico di rispetto, per tutta la
tradizione dei movimenti e delle lotte per l’emancipazione
sociale, che non l’ha però vincolato nella libertà della sua
ricerca, e che non gli ha impedito, per esempio, nel ’56 di
schierarsi contro la repressione in Ungheria; così come non
gliel’ha impedito l’appartenenza al piccolo Partito comunista
britannico. Certo per qualche tempo dopo il ’56 ci furono
delle difficoltà, ma si tratta di un partito “non così
dogmatico come altri” – come ha spiegato in una bella e
sofferta intervista che gli ha fatto Peter Glotz per la “Neue
Gesellschaft” di Francoforte – “altrimenti mi avrebbero
cacciato fuori”. Una cosa che in tutti i casi continua a
non piacergli sono gli ex comunisti che diventano
anticomunisti. Comunque, aggiunge, le sue attività politiche
“oggi non dipendono dall’essere o no membro del partito
comunista”. Lo incontriamo nel glorioso Atheneum club, lo
stesso di Darwin, Spencer e Dickens, di cui campeggiano i
ritratti, tra poltrone di cuoio secolare, per cercare con lui
i fili di un ragionamento sulle nuove politiche e la nuova
cultura di cui la sinistra ha bisogno oggi. “125 anni dopo
Lassalle e 100 dopo la fondazione della Seconda
Internazionale i partiti socialisti e laburisti sono
perplessi su dove stanno andando. Dovunque i socialisti si
incontrino si interrogano l’un l’altro cupamente circa il
futuro dei loro movimenti” – ha scritto sulla “New Left
Review” – “ma anche tutti gli altri partiti sono nella stessa
posizione”, “tutti meno i fanatici hanno perso la strada”.
“Quanto sono deboli le vecchie analisi e quanto difficile
sostituirle!”. Il voto europeo adesso ha ridato fiducia, a
partire dalla Gran Bretagna, nella possibilità di
interrompere il ciclo neoconservatore thatcheriano, ma quella
riflessione sulle difficoltà della sinistra è non meno
necessaria dopo i cambiamenti degli ultimi decenni e di
fronte alla crisi e alle svolte drammatiche del socialismo
dell’Est.

Norberto Bobbio dopo gli eventi cinesi ha svolto un
ragionamento che consiste essenzialmente di questi punti: è
giunto a compimento definitivamente un ciclo che ha
dimostrato la superiorità della via delle libertà
fondamentali e della democrazia nei confronti di quella di un
potere monocratico e autoritario; chi gioisce della
sconfitta storica del comunismo non si illuda perchè
le domande di giustizia da cui è scaturito quel movimento
dovranno comunque ricevere risposte. Bobbio ha poi aggiunto
che appare essenziale una capacità della sinistra di
organizzare i poteri su scala sovranazionale e che in questa
direzione va ricercato il suo rinnovamento. Lei come pensa
alla sinistra di questa “nuova partenza”.

Sono d’accordo con i punti principali di Bobbio; è certo che
ci vuole lo sviluppo di una nuova sinistra in Europa perchè
bisogna costruire un’azione nella dimensione continentale.
Fino ad ora i movimenti politici della sinistra hanno pensato
per lo più in termini nazionali, locali. Adesso non basta
più. Certo gli italiani hanno pensato già molto di più in
termini europei, ma in questo sono stati piuttosto
eccezionali. Dal punto di vista ideologico io credo che tutti
in Europa siamo d’accordo sul primo punto di Bobbio; insomma
non c’è discussione sulle libertà civili, la democrazia
parlamentare, le elezioni. Questa è la base di tutta
l’attività politica della sinistra e anche di gran parte
della destra democratica. Il problema non è quello di
cambiare idea su questo punto. Il grande problema è quello
che riguarda il tipo di combinazione tra meccanismi politici
democratici e liberalismo economico. Noi in Inghilterra ci
troviamo davvero in un caso estremo, un caso limite del
neoliberalismo, dell’idealizzazione del mercato, ma anche
altrove si sono affermate tendenze nella stessa direzione. Il
punto che mi pare assolutamente indispensabile criticare è
quello che il modello del mercato si identifichi con il
meccanismo di costruzione della società, di un ordine sociale
accettabile. Ci vuole qualcos’altro. Ci sono due modelli
principali, entrambi inaccettabili per il thatcherismo: uno è
il cosiddetto mercato sociale dei democristiani tedeschi,
l’altro è il modello socialdemocratico, del Welfare State,
del tipo svedese, austriaco ecc.. Penso che la sinistra
europea debba sviluppare la ricerca in questa direzione,
quella della tradizione socialdemocratica, quella dei
grandi movimenti e partiti di origine operaia e che rimangono
operai in un certo senso e andando oltre le vecchie
politiche di tipo keynesiano che non funzionano più e nelle
quali la sinistra è rimasta imprigionata negli anni
Settanta.

Lei ha scritto che è stato tagliato il cordone ombelicale
tra rivoluzione, socialismo autoritario e grandi partiti
della tradizione socialista. Possiamo dire a questo punto che
questo passaggio, anche se compiuto da tempo, non è stato
semplice nè indolore.

Bisogna naturalmente distinguere tra Europa occidentale e
paesi socialisti. È certo che dopo la Rivoluzione d’ottobre
il socialismo in qualsiasi paese dove un partito comunista è
andato al potere (e in quasi tutti i casi era il principale
partito di origine operaia) ha costituito sistemi politici
per noi inaccettabili e, adesso è chiaro, anche
economicamente molto deboli, molto limitati. Ma fuori degli
stati comunisti, gli stessi movimenti comunisti hanno avuto
un’altra funzione. L’Ottobre era per loro un fatto
essenzialmente simbolico, simbolico delle loro speranze che
non avevano gran che a che fare con la realtà di questi altri
paesi sconosciuti. È certo che per i militanti, soprattutto
i vecchi militanti, legati per quasi tutta una vita a quella
tradizione, rompere, distaccarsi è stata una cosa traumatica.
Ma era necessario farlo. Non c’era modo di non farlo, come
è indispensabile per gli appassionati vecchi maoisti
staccarsi da ciò che è accaduto in Cina. Non c’è modo di non
farlo. Ma ora per la gran parte dei nostri movimenti questa è
una cosa già fatta da tempo. I veri problemi della
costruzione di una sinistra ora sono altri.

Il rapporto con la rivoluzione non è più un elemento di
divisione della sinistra sul piano internazionale. E’
possibile adesso una ricerca aperta. Lei ha espresso un
concetto tipico di un atteggiamento liberal: le strade
future della sinistra sono incerte, solo i fanatici sanno
esattamente dove andare.

Questo è sicuro, ma non si tratta di liberalismo, è
realismo. In questo momento nessuno ha la soluzione in tasca.
Come ho scritto da qualche parte anche i capitalisti sono
incerti, la Chiesa è incerta, anche se non lo ammette. Non
sanno quale sarà fra cinquant’anni la situazione del mondo
cattolico, della religione. Il mondo è cambiato nella seconda
metà del secolo in modo cosìstraordinario e con una rapidità
e profondità tali che sarebbe assurdo pretendere di capire
tutto ciò che è accaduto e quello che ora potrà accadere.
L’unica cosa che si può fare è tentare di identificare certe
tendenze. Per esempio è chiaro che per una nuova sinistra, ma
anche per la più vecchia delle sinistre in Europa, uno dei
grandi problemi sarà quello ecologico, nel senso che ora
siamo in condizioni di rendere inabitabile gran parte del
mondo: questo è sicuramente un fatto nuovo. Nessuno prima del
’45 ha mai parlato in questi termini. Inoltre è altrettanto
chiaro che siamo di fronte a una economia e a una società
globali per ragioni tecnologiche. Prendiamo per esempio il
caso di Hong Kong, per cui può effettivamente discutersi se
tutta quella popolazione, in caso di una crisi con la Cina,
possa emigrare in altri paesi, e magari in Inghilterra. Noi
del primo mondo non siamo coscienti della enorme pressione
della popolazione mondiale per emigrare. Già ora la
maggioranza della popolazione di Los Angeles e di New York è
di origine terzomondista. E questo è un problema da
risolvere, anche per la sinistra europea. E’ un propblema
tanto sociale quanto politico perchè la base di questi
movimenti neorazzisti, che abbiamo visto affermarsi nelle
elezioni europee, è proprio una resistenza contro le
pressioni migratorie. Chi può dire: noi abbiamo già la
soluzione?

La xenofobia, come uno dei fenomeni emergenti più
preoccupanti, esige risposte da parte della sinistra sulla
base di strategie di collegamento con popoli diversi,
strategie nuove per l’affermazione di diritti. Vediamo, nella
sua conoscenza della storia della sinistra, come sono andate
le cose nel passato.

La xenofobia è sempre stata un problema importante, ma ciò
che mi ha sempre colpito nella storia del movimento operaio È
che non ci sono state grandissime difficoltà, anche se una
gran parte di questa nuova classe operaia non era omogenea,
erano accumulazioni di gruppi di origine enticamente diversa.
Pensiamo ai siciliani emigrati in Piemonte, diversi quasi
come stranieri. Ma l’esempio principale è quello degli Stati
Uniti, dove da una parte i sindacati e dall’altra il partito
democratico, che è l’equivalente, diciamo, del partito di
massa di sinistra europeo, si sono costruiti proprio sulla
base dell’unificazione di gruppi di origine sociale, razziale,
religiosa, linguistica molto eterogenea. Sono, insomma,
problemi gravissimi, ma non insolubili. Non è detto che
nella situazione attuale la stessa soluzione di settant’anni
fa funzioni, ma teoricamente non è impossibile. Direi che i
grandi partiti della sinistra nella storia d’Europa sono
stati sempre delle coalizioni di gruppi che hanno bisogno di
giustizia: operai di origine molto distinta, minoranze
nazionali, come per esempio in Inghilterra gli scozzesi, i
gallesi, gli ebrei. Non è una cosa nuova costruire grandi
movimenti, correnti di opinione su una base sociale e culturale
eterogenea.

In questi esempi del passato c’era però l’elemento
unificante della coscienza di classe, che aveva basi
ideologiche e basi strutturali molto forti. Lei ha messo in
evidenza nei suoi scritti recenti che questo fattore
integrativo, la coscienza di classe, si è indebolito ancora
di più di quanto non si sia ridotta numericamente la classe
operaia.

Certo, quindi è necessario trovare una base, che non può
essere unicamente la coscienza di classe per l’unificazione
di questi schieramenti per il progresso. Se penso
all’Inghilterra, ciò che rende più facile l’unificazione è la
lotta comune contro la reazione, contro la destra
thatcheriana, ma questo è forse un caso eccezionale.

Rispetto all’esperienza passata c’è un’altra novità: queste
minoranze di emigrati chiedono però anche tutela delle loro
differenze oltre che integrazione nei diritti. Quella che
serve alla sinistra è una miscela di politiche molto
complicata.

Sì, molto complicata. E bisognerà considerare anche le
conseguenze di forti movimenti migratori non solo
dall’esterno della Cee, ma anche al suo interno – pensiamo
all’ingresso della Turchia nella Cee e ai problemi già
abbastanza seri in Germania. Ma insomma, è vero che
un’alternativa alla vecchia coscienza di classe non c’è, c’è
la sua disaggregazione. Direi allora che non bisogna più
pensare in termini di una unica coscienza di classe omogenea,
che bisogna dare una nuova dimensione all’analisi sociale
della società moderna. Pensiamo al fatto che in Inghilterra
una parte importante dei ceti borghesi, professionali sono
oppositori appassionati del thatcherismo, mentre, dall’altra
parte, un settore importante della classe operaia si è
lasciato trascinare dall’appello xenofobico del thatcherismo.
Grandi divisioni ideologiche e politiche passano all’interno
delle classi. In questo caso bisogna concludere che non c’è
più coscienza di classe. Ci sono invece coscienze collettive
che si formano su linee politiche e di cultura, sulla base
del livello di istruzione, del tipo di occupazione.

Quindi non c’è più un soggetto sociale di riferimento per la
sinistra, il punto di unificazione è politico?

Non è mai stata una unificazione soltanto su base classista.
I vecchi movimenti comunisti e socialisti (i comunisti in
verità molto più operaisti) sono sempre stati in certo modo
coalizioni di diversi gruppi. Nel passato ciò che era
indiscusso era la egemonia della classe operaia
industrializzata. Ebbene questo non è più vero, non ha più
quel carattere di unica componente egemonica della
mobilitazione progressista; la classe operaia rimane però una
componente essenziale, anche perchè ci sono operai, la classe
operaia è più piccola ma non è sparita. Si può dire che i
partiti agrari quasi non esistono più perchè i contadini
quasi non ci sono più, sono rimasti soltanto gruppi di
pressione. Qui la componente sul totale dell’occupazione è
del livello dell’1 o 2 per cento, ma non è il caso della
classe operaia, dove se parliamo nei paesi sviluppati di
circa un 20 per cento degli occupati abbiamo davanti pur
sempre un ceto che ha un peso importante, anche trascurando
le memorie storiche e senza ideologizzarlo.

Quali sono allora le idee fondamentali per un rinnovamento
della politica dei grandi partiti della sinistra?

Abbandonato l’ideale di un’economia soprattutto statale, il
grande problema è quello della proporzione tra i diversi
elementi, tra azione pubblica e mercato. Certo non è cosa che
ispiri grandi ideali paragonabili a quelli del passato, ma
credo che ci siano problemi di oggi destinati persino ad
accrescere la convinzione nel ruolo dell’azione pubblica,
pianificata e anche su base internazionale. Prima di tutto la
questione ecologica sulla quale il capitalismo e il mercato
di per sè non sono in grado di agire. Ma c’è anche il fatto
che nelle grandi società sviluppate il declino e il
disaggregarsi delle strutture sociali porta alla negazione
stessa della società come luogo delle relazioni tra esseri
umani. Conosco New York e Los Angeles, ma ci sono anche aree
di Londra dove davvero ci sono gruppi buttati fuori dalla
società umana, che non hanno legami, non hanno una struttura
famigliare, immigrati, neri, ma non solo; è la cosiddetta
sottoclasse. Mi pare insopportabile una società che accetti
questo e non cerchi di ricostruire l’idea di una certa
responsabilità nei confronti di tutti i suoi membri. Invece
sono considerati esseri fuori legge. Qui vedo la necessità di
rinnovare non solo l’idea di libertà, ma soprattutto quelle
di eguaglianza e fraternità. Un terza idea fondamentale deve
collegarsi all’azione per superare una divisione crescente in
tutti i nostri popoli, tra coloro che dispongono di tutti i
benefici e privilegi della cultura e quelli che ne sono
privi. Che il diritto alla cultura sia negato, che per molti
la cultura e l’informazione si riducano alla pubblicità è
l’aspetto inumano di una società che sacrifica gran parte dei
nostri fratelli, dei nostri figli. Tutto questo non ha più
niente a che vedere con la vecchia convinzione che con il
capitalismo porta le masse all’impoverimento. No, il
capitalismo è in grado di produrre la crescita economica, ma
non di assicurare né la salvezza dell’ambiente, né la
giustizia e l’umanità delle relazioni sociali.

Ci sono differenze nella sinistra europea in relazione a
questi aspetti e anche in rapporto alle strutture dei partiti – di massa,
di opinione, più o meno legati alla classe operaia – che non facilitano l’intesa.

Io credo che sarà più facile che in passato una certa intesa
perchè quasi tutti questi partiti, che siano di origine
socialista o comunista, sono stati portati dallo sviluppo di
questi ultimi tre o quattro decenni nella stessa direzione:
l’uso delle comunicazioni di massa, un certo indebolimento
del vecchio partito-movimento di massa, una certa
attenuazione dell’asse centrale della classe operaia delle
grandi industrie. In un contesto storico ci sono tendenze
molto nette in gran parte d’Europa che fanno sì che oggi sia
più facile per il Partito laburista parlare con la Spd o con
il Pci che non vent’anni fa. E’ vero che ci sono anche alcuni
partiti che mi sembra abbiano fatto troppe concessioni al
neoliberalismo e, in certi paesi – il caso Gonzales e forse
Craxi – hanno quasi idealizzato il thatcherismo economico. Ma
spero che adesso sia abbastanza chiaro che anche quel
thatcherismo non ha dato risultati seri e forse vedremo la
fine di questo “affare di cuore” tra socialisti e nemici dei
socialisti.

Lei ha studiato la tradizione, i modi in cui si inventa e
si solidifica. Ora il passaggio dei partiti della sinistra a
forme nuove, a politiche nuove, comporta sofferenze nel
ridefinire i rapporti con il proprio passato. Come le
giudica?

La vera tradizione è una cosa più flessibile; sono soltanto
le false tradizioni che sono invariabili, non si possono
toccare. La tradizione è qualcosa di forte e importante, la
gente ci tiene molto. Non è bene abbandonarla senza una buona
ragione. Pensiamo per un momento a qualcosa di puramente
simbolico, senza alcun aspetto pratico: che l’Italia o
l’Inghilterra decidessero di cambiare la bandiera nazionale.
Ci sarebbero resistenze enormi e, senza ragioni ancora più
enormi, non sarebbe perciò ragionevole farlo. Un lungo corso
storico ci insegna che, se la cosa non ha una certa
importanza politica, è meglio tollerare e integrare anche
pregiudizi e credenze popolari piuttosto che opporsi. Per
esempio il Pci e altri partiti hanno abbandonato
anticlericalismo e antireligiosità dei nostri antenati (che
pure li avevano stimolati in modo positivo) tollerando la
religione al loro interno. Ma i nostri movimenti l’hanno
anche cambiata la loro tradizione. Quando c’è una ragione
bisogna lasciare, essere flessibili. Per una cosa essa è
comunque davvero importante per la sinistra, per ricordarsi
che non siamo gli ultimi venuti, che siamo i più vecchi
movimenti esistenti in Europa per migliorare la situazione
della gente comune, del popolo. E in questo c’è orgoglio e
forza. La storia non è cosa da trascurare, anche la nostra
propria storia. Senza mitizzarla.

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