L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Volga Volga

Si racconta che Napoleone, per mettere un freno alla regina di Prussia che, dopo la battaglia di Jena, lo aveva accolto con un discorso eccessivamente retorico e tragico – persino per uno che non doveva avere un grande senso della misura – la invitò a sedersi: Non c’è nulla di meglio per interrompere una scena tragica; poiché, quando ci si siede, si passa alla commedia. Così almeno racconta Henri Bergson nel suo famosissimo Il riso. Saggio sul significato del comico, per dare forza alla sua tesi secondo cui Non appena interviene la preoccupazione per il corpo c’è da temere un’infiltrazione comica. Per questo gli eroi della tragedia non bevono, non mangiano, non si riscaldano.
Tra le grandi tragedie del secolo scorso si deve probabilmente annoverare anche il fatto che troppi furono i protagonisti della storia europea a rappresentare se stessi e le proprie idee, stando in piedi, rigidi, impettiti, seri, quasi non si sedessero mai, non prendessero il raffreddore, non si mangiassero le parole. Sembra quasi simbolico il fatto che due delle potenze che vinsero la seconda guerra mondiale avessero alla loro guida un primo ministro che talvolta riceveva i suoi ospiti stando a letto e fumando il sigaro, e un presidente costretto sulla sedia a rotelle. Non pure idee, quasi sempre tragiche, ma uomini che non avevano paura di essere consapevolmente corpi, materia.
Ma c’era ancora un protagonista del secolo scorso che sopravviveva, sempre in piedi, addirittura in divisa militare, sempre retorico, splendidamente retorico: il Coro dell’Armata Rossa o Complesso Aleksandrov, se si vuole usare il nome assunto dopo il crollo dell’Unione Sovietica, che ricorda il fondatore, autore dell’inno nazionale sovietico e – per fortuna – ancora inno nazionale russo.
I fantastici bassi del Coro erano retorici, irrimediabilmente retorici, ma in un modo così consapevole e composto che li rendeva accettabili, e quindi epici, e – perché no – commoventi. L’Internazionale cantata da loro tornava a essere espressione di quel sogno di milioni di uomini che non può essere cancellato, nella sua forza storica, neppure dai tanti errori commessi in suo nome. I canti della Resistenza, come Bella ciao e Fischia il vento facevano venire i brividi e ricordavano pagine di storia che in piedi erano state scritte e in piedi andavano cantate, e il colore indubitabilmente russo delle voci faceva tornare alla memoria, o alla immaginazione, una parola – Stalingrado – che segna la fine del più terribile incubo vissuto dall’Europa.
Un ricordo personale: mia madre si esaltava per una canzone degli alpini – Va l’alpin – e mi costringeva a cantarla per poter fare la seconda voce. Mi sentivo un po’ sciocco ad assecondarla, anche per lo sguardo di fondamentale compatimento di mio padre, ma tutto cambiò quando scoprii che si trattava di un adattamento di Volga Volga cantata anche dal Coro dell’Armata Rossa.
Il giorno di Natale arriva la notizia che l’aereo Tu-154 dell’esercito russo con a bordo 60 membri del coro più membri tecnici, della tv nazionale russa e dell’equipaggio precipita nel Mar Nero pochi minuti dopo il decollo dall’aeroporto di Sochi non lasciando alcun sopravvissuto tra i 92 a bordo e viene quasi da alzarsi in piedi per ricordare quel frammento di retorica accettabile sopravvissuto al crollo dei sogni. Forse il 25 dicembre si è davvero e per sempre chiuso il XX secolo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *