LA BELLA CONFUSIONE

Oscar Iarussi

Giornalista e scrittore, in libreria con "Amarcord Fellini. L'alfabeto di Federico" (Il Mulino ed., 2020)

Luci in sala, il cinema oltre la nostalgia

«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia». Chi non si commuove, da trent’anni in qua, per lo struggente addio del replicante Rutger Hauer in Blade Runner di Ridley Scott? In sedicesimo, noi abbiamo visto chiudere uno dopo l’altro quasi tutti i cinema dei padri che fumavano Nazionali, Macedonia o pacchetti del Cammello espirando verso mondi lontani; e i «pidocchietti» dei ragazzi di una qualche via Pal al limite di un pratone pasoliniano, sul margine del Dopostoria; e le sale dei baci rubati all’adolescenza e delle prime pomiciate che qualcuno per darsi un tono chiamava petting (toh, un anglicismo scomparso). Li abbiamo visti diventare silos, garage, supermercati, bingo e poi sparire nel nulla: indizi archeologici della modernità evanescenti nella indistinzione urbanistica cui ci siamo presto abituati. Da tempo sono rovine simboliche e spesso materiali, fra le altre che Walter Benjamin in Angelus Novus assunse a stigma del ‘900, il secolo greve più che breve, nonostante fosse nato, secondo Arnold Hauser, «sotto il segno del film».

Fu il ‘900 battezzato dalla vertigine baudelairiana del pubblico che uscendo dalla sale si confondeva nella folla, contagiandola di visioni. È il ‘900 che ogni tanto ritorna – lemure, fantasma buñueliano, zombie richiamato in vita da un boko dei riti della cinefilia – sotto forma di una locandina strappata alla maniera di Mimmo Rotella, affiorante alla ribalta di uno sventramento edile, di una ristrutturazione, di una demolizione (è successo a Bari, quando sono venute alla luce dopo decenni tracce del cinema Impero di corso Sonnino). Com’è potuto accadere? Quando è avvenuto che l’arcipelago luminoso delle sale, con le lame delle proiezioni a fendere l’antro buio, divenissero pura «nostalgia»? Quand’è che l’«esperienza della modernità» di cui parla un prezioso saggio per il Mulino di Marshall Berman s’è inceppata, rivolta all’indietro mentre si proclamava postuma? In un giro di valzer tutto divenne «post», e ben prima di Facebook. Uscendo per andare al cinema, non li trovammo più. Si stenta a ricordarne persino i nomi, mentre bisogna ricorrere al museo per rivedere i biglietti cinematografici d’antan, blocchetti di rettangolini colorati in carta finissima, moneta sonante del contratto onirico, di quel setting che prometteva esplorazioni sui set e sogni a occhi aperti in cambio di poche lire. Non c’è bisogno di dilungarsi, per capire e ricordare, basterà vedere/rivedere L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich o Nuovo Cinema Paradiso di Peppuccio Tornatore.

All’Ariston di Bari Santo Spirito davano un Barbablù in versione nazista (l’avrà vista in seguito anche il Quentin Tarantino destinato a dirigere Inglourious Basterds?) firmata da Edward Dmytryck e, per l’Italia, da tal Luciano Sacripanti. Sarà stato il 1972, il film era vietato ai 14 (non li avevo) e la mamma di un amico coetaneo, che sarebbe diventato un produttore cinematografico, esitò prima di affidarci la figlia minore: «State attenti a quel che vede lei». Di recente ho «scoperto» che il film era sceneggiato da Ennio De Concini e da Maria Pia Fusco, collega giornalista, ma allora ben pochi ponevano attenzione ai titoli di testa o di coda, perché nei cinema si entrava a spettacolo iniziato e vi si restava oltre la fine, per recuperare il non visto o rivedere il film intero. Con Richard Burton protagonista, il cast del Barbablù era un catalogo del peccato: Raquel Welch, Marilù Tolo, Karin Schubert, Virna Lisi, Nathalie Delon, Agostina Belli. Roba da non distogliere lo sguardo neppure per sbirciare il cielo, giacché l’Ariston aveva un meraviglioso tetto scorrevole: cigolando al tramonto, si apriva sul/al buio infinito (dovevano esserci ancora le stelle, nel 1972).

L’anno dopo vidi Jesus Christ Superstar all’Orfeo. Poi, di turbamento in turbamento, Il portiere di notte al Kursaal Santalucia, Rollerball all’Oriente, I guerrieri della notte al Jolly (cinemino post-lavoristico e movimentista, sublime), Il garofano rosso di Faccini e il monumentale La recita di Angelopoulos all’ABC, Le finte bionde dei Vanzina all’Ambasciatori al fianco di una bionda vera (forse). Al Cinestudio di via Fiorino, sempre a Bari, Pino Fizzarotti alternava in cartellone giornate punitive (Il manoscritto trovato a Saragozza di Wojciech Has) con una jam session di Steve Lacy o Nel corso del tempo di Wim Wenders su cui apparve un saggetto memorabile di Sergio Bologna nei «Quaderni Piacentini». Al Supercinema di via Ravanas, poco lontano, il palco ospitò uno dei primi concerti pugliesi di Francesco De Gregori, organizzato dai Circoli Lenin.

Per non parlare delle arene. Un mondo.

All’ABC sul lungomare di Bari, nella cornice più metafisica della città, la fiamma del peccato talora ardeva sullo schermo, ma certo si consumava nelle casette basse del misero meretricio lì a fianco della saletta. Non c’erano i palazzoni condominiali sorti in seguito, solo qualche ristorante dalle evocazioni domestiche o esotiche (Provolina, il Kilimangiaro), il faro a sovrastare la terra desolata, e vento, e flutti. Dentro, una volta il proiezionista scese a chiedere se davvero, da unico spettatore dell’ultimo spettacolo di San Silvestro, avessi voglia di vedere quel benedetto film. Sì, ne avevo voglia, avevo già letto Schermo delle mie brame di Enzo Ungari edito da Vallecchi con le sue «confessioni di un giovane mangiatore di film di provincia» e per nulla al mondo avrei disertato una pellicola prima della conclusione. Per anni in seguito e fino a oggi, dapprima come studente di cinema al Centro Sperimentale, quindi come critico e selezionatore della Mostra di Venezia, ho visto migliaia di film in sale deserte, a qualunque ora del giorno. Dopo Calvino, Fellini, Sciascia, Puig, Daney, Bertolucci, Brunetta, Fofi, è stato Gianni Amelio a raccontare in anni recenti il legame ineffabile tra la giovinezza e lo stupore, cioè Il vizio del cinema (Einaudi). […]

L’esperienza del film in sala rinnova una sorta di patto faustiano contro la tirannide del tempo. È la forza dell’arte visionaria: restituirci al senso di mistero della prima volta. Una vertigine in cui il testo e il contesto interagiscono e congiurano a vantaggio della memoria: sono le nostre personali storie del cinema, non meno legittime di quelle ufficiali, e ben più straordinarie. Nonostante sia giusto guardarsi dalle emozioni indotte tramite i mass media, dal vintage imperante, ovvero dall’Invenzione della nostalgia di cui scrive Emiliano Morreale (Donzelli). La nascita di una passione, nei cineclub che anche in Puglia vanno risorgendo (per esempio «Le refuge»), continua a nutrirsi di un certo tipo di fruizione cinematografica contraria all’asepsi dilagante. Un tempo si poteva entrare in sala e uscirne in qualsiasi momento, l’abbiamo detto, e vedere un film più volte di seguito con un unico biglietto, e sedersi ovunque ci fosse un posto libero, cambiando in caso di un torreggiante spettatore sopravvenuto nella fila davanti. Oggi invece le prenotazioni, le file, l’obbligo di correre subito al cinema perché non vi sarà una seconda o un terza visione di quel titolo, hanno modificato i termini del «vizio», stemperandone la dimensione comunitaria e urbanistica, nonché il presidio di socializzazione. E le sale multiple, ancorché talora meritorie per l’eclettismo della programmazione, sono spesso «fuori città», assumono la valenza dei «non luoghi» studiati da Marc Augé, ovvero sono siti poco o punto identitari, relazionali e storici. Sicché, quando negli ultimi lustri ho avuto l’opportunità di propiziare i primi passi di una sala appena concepita da un parroco coraggioso (Il Piccolo di don Giuseppe Cutrone a Santo Spirito) o di contribuire a farla rinascere alle visioni dopo lunga chiusura (il Petruzzelli ancora cantiere nel 2006 con la rassegna «Mezzogiorno di cinema» e l’ABC nel 2010), mi sembrò che dei cerchi si aprissero: la nostalgia lasciava il passo a sprazzi di domani.

* L’articolo, di cui qui si propone un ampio stralcio, figura nel volume Territori del Cinema: Stanze, Luoghi, Paesaggi. Un Sistema per la Puglia. Letture e Interpretazioni appena uscito per i tipi di Gangemi (Roma 2014), a cura di Valentina Ieva e Francesco Maggiore, col coordinamento scientifico di Francesco Moschini e le illustrazioni di Vincenzo D’Alba.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *