Shtayyeh (Anp): «Mai rinunceremo al nostro Stato. Ma è ora di nuovi leader»

Bennett, Biden, il futuro dell'Anp. Parla a Reset il primo ministro palestinese

«Quando una delle parti in causa dichiara fuorilegge sei Ong palestinesi impegnate nella difesa dei diritti umani della popolazione sotto occupazione, quando il Primo Ministro d’Israele afferma in ogni occasione che per lui non esiste una pace che contempli la creazione di uno Stato palestinese indipendente, di fronte a questa realtà incontestabile, denunciata dalle agenzie delle Nazioni Unite e dalle più importanti Ong internazionali e israeliane, gli Stati Uniti non possono limitarsi a evocare una funzione di “mediatori. Perché tra l’oppressore e l’oppresso, l’occupante e l’occupato, non c’è niente da mediare, ma occorre agire perché sia ripristinato il diritto e la legalità internazionali in Palestina. Ed è ciò che ci sentiamo di chiedere al Presidente Biden».

Ad affermarlo, in questa intervista esclusiva concessa a Reset prima della sua partenza per un tour diplomatico in Europa, è Mohammed Shtayyeh, Primo Ministro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).

Signor Primo Ministro, sono passati più di cento giorni dalla nascita del governo Bennett-Lapid, il primo dopo oltre un decennio di dominio politico di Benjamin Netanyahu. Il tempo trascorso è sufficiente per un primo bilancio. Promosso o bocciato?

Bocciato, sicuramente. E non per un pregiudizio ideologico o per partito preso. A differenza degli israeliani, noi palestinesi non indichiamo i buoni e i cattivi in campo israeliano, non cerchiamo interlocutori compiacenti, che non esistono. Abbiamo negoziato con primi ministri di sinistra, di centro, di destra. Una storia lunga, che ha avuto delle pagine importanti, di speranza, ma purtroppo la realtà oggi non induce all’ottimismo. Noi valutiamo la controparte per ciò che fa. E quello che sta facendo l’attuale governo israeliano lo pone in totale continuità con quelli che l’hanno preceduto. Il nuovo primo ministro Naftali Bennett ha moltiplicato gli annunci a sostegno degli insediamenti israeliani. Come non bastasse, ha riaffermato che la creazione di uno Stato palestinese indipendente non è all’ordine del giorno e, fosse per lui, non lo sarà mai…

Ma nel “Governo del cambiamento”, vi sono figure meno legate al movimento dei coloni. Penso, ad esempio, al ministro della Difesa, Benny Gantz…

Lei sta parlando del ministro che ha deciso di mettere fuorilegge sei Ong palestinesi che nulla hanno mai avuto a che fare con il terrorismo o la resistenza armata. Stiamo parlando di associazioni che difendono i bambini palestinesi imprigionati, con la detenzione amministrativa, nelle carceri israeliane. Stiamo parlando di associazioni in difesa dei diritti degli agricoltori palestinesi ai quali sono state espropriate le terre. Cosa c’è di “moderato” in tutto ciò?

Se non c’è, a suo avviso, discontinuità sostanziale tra l’attuale governo e quelli a guida Netanyahu, lei intravede qualche discontinuità tra l’Amministrazione Biden e quella del suo predecessore alla Casa Bianca, Donald Trump? Ricordo che i massimi dirigenti palestinesi hanno tratto un sospiro di sollievo all’annuncio della sconfitta di Trump. Vi eravate sbagliati?

Assolutamente no. Nei quattro anni di Amministrazione, non c’è stato un atto, una dichiarazione, del presidente Trump e dei suoi più stretti collaboratori per il Medio Oriente che non fosse a sostegno delle politiche unilateraliste del suo amico Netanyahu. La summa di questo atteggiamento è il cosiddetto “Piano del secolo” (il piano di annessione della Valle del Giordano progettato dal governo-Netanyahu nel 2020, ndr), che per fortuna è stato archiviato definitivamente. Quanto all’attuale Amministrazione, abbiamo notato un cambiamento di toni e questa è una premessa positiva. Il Presidente Biden e il Segretario di Stato Blinken hanno annunciato una serie di atti che dovrebbero ricostruire un clima di fiducia tra Anp e Stati Uniti, fiducia venuta completamente meno con la presidenza Trump.

Quali sono gli impegni a cui si riferisce?

Riaprire il consolato americano a Gerusalemme Est, così come l’ufficio dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ndr) a Washington, e ripristinare gli aiuti, anche all’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa) e agli ospedali di Gerusalemme Est. Vogliamo relazioni bilaterali con gli Stati Uniti che non dipendano dalle relazioni con Israele. La leadership palestinese è in attesa di un ordine esecutivo statunitense che consideri l’Olp come un partner essenziale nel processo di pace, il che significa la cancellazione di tutte le leggi ostili, compresa quella che considera l’Olp un’organizzazione terroristica”.

Signor Primo ministro, una domanda pur molto delicata s’impone alla luce di indiscrezioni e rumors che circolano a Ramallah come a Tel Aviv. L’Autorità palestinese concederà a Joe Biden e a Naftali Bennett ciò che ha sempre rifiutato a Donald Trump e a Benjamin Netanyahu: di abbandonare cioè il progetto di Stato nazionale in cambio di promesse di uno sviluppo economico? 

Mai, mai. Mi lasci aggiungere che considero queste voci, messe in giro ad arte, come un oltraggio alla storia, al coraggio, alla determinazione del popolo palestinese dal 1948 ad oggi. Nessuno nasconde le condizioni di sofferenza che investono la vita di milioni di palestinesi, in Cisgiordania e ancor più nella Striscia di Gaza. Ma queste sofferenze nascono dal regime di occupazione imposto da Israele e, purtroppo, avallato dalla comunità internazionale. Sfido chiunque a realizzare una crescita economica sotto una occupazione che lesina anche le risorse idriche vitali per sviluppare la nostra agricoltura. Che espropria le terre palestinesi più fertili. Che impedisce la realizzazione di quei poli industriali previsti dagli Accordi di Oslo-Washington. La nostra libertà non è in vendita. Il nostro dolore non è monetizzabile. I nostri diritti non sono merce da mettere all’asta. Quando pensiamo ad uno Stato palestinese a fianco dello Stato d’Israele, pensiamo anche ad una cooperazione economica tra le due entità, a progetti comuni. Ad una vicinanza attiva. Ma questo non ha niente a che vedere con un mercimonio della nostra causa nazionale. Noi non ci sentiamo un popolo di assistiti. Vogliamo costruire la nostra economia, vivere del nostro lavoro e del nostro studio. Nelle nostre Università si formano eccellenze in ogni campo, ma per potersi realizzare i nostri giovani devono emigrare. Abbiamo progetti, idee, competenze. Chiediamo solo di essere messi alla prova.

E all’Europa cosa si sente di chiedere?

Di essere coerente e conseguente rispetto alle posizioni assunte e racchiuse in decine di documenti, di dichiarazioni ufficiali. L’Europa si è dichiarata a favore di una pace fondata sulla soluzione a due Stati, ha ripetutamente condannato la colonizzazione dei Territori palestinesi occupati. Ma cosa si è fatto per realizzare queste dichiarazioni d’intenti? Cosa si è fatto per bloccare la colonizzazione israeliana che svuota di ogni concretezza la soluzione a due Stati?

Lei parla di sanzioni?

Su questo mi limito a far notare come Israele sia uno dei Paesi che ha violato il più alto numero di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Altri Paesi che hanno agito nello stesso modo hanno subìto non solo sanzioni ma anche guerre. All’Europa chiediamo un gesto di grande valenza simbolica e di forte impatto politico…

Vale a dire?

Il riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese indipendente sui territori indicati dalle Risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite. Qualcuno ricorda gli Accordi di Oslo-Washington? Ricorda la Road Map del Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Onu, Ue, Russia, ndr)? Quello che chiediamo è che la Palestina non sia dichiarata free zone quanto al rispetto della legalità internazionale.

Signor Primo Ministro, da anni le istituzioni palestinesi sono scadute. Il Consiglio legislativo, la Presidenza. Le prime e ultime elezioni tenutesi nei Territori sono di oltre quindici anni fa e, sia detto per inciso, furono vinte da Hamas. Poi il nulla. Elezioni programmate e poi puntualmente rinviate. Così cresce il distacco tra la popolazione e la leadership politica. Non è una prova di debolezza da parte vostra e, per dirla un po’ brutalmente, di attaccamento alla poltrona?

Lei tocca un tasto dolente. Che merita una risposta poco diplomatica. Potrei dirle che organizzare elezioni democratiche e partecipate quando è impedita la libertà di movimento e di riunione, quando molti dei possibili candidati sono prigionieri nelle carceri israeliane, non è impresa agevole. E non lo sarebbe per nessuno. Ma questa è una parte della verità. L’altra riguarda i nostri ritardi, le difficoltà a far crescere una nuova generazione di dirigenti che prenda il posto dei “vecchi”. E sì, anche resistenze che si fatica a vincere. Ma il cambiamento è necessario per il futuro della Palestina.

Negli scorsi giorni a Roma si sono dati appuntamento i Grandi della Terra. Tanti e importanti i temi trattati, che riguardano il diritto alla salute, ad un pianeta vivibile, ad un fisco più equo, per miliardi di persone. La Palestina sembra lontana, molto lontana. Vi sentite dei dimenticati?

No. Perché con molti dei Paesi riuniti a Roma abbiamo stabilito relazioni importanti, dirette, su più piani. La maggioranza degli Stati membri dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto lo Stato di Palestina. L’Autorità Palestinese fa parte delle più importanti Agenzie delle Nazioni Unite. Non ci sentiamo dei dimenticati. Ma siamo consapevoli che il futuro della Palestina sta innanzitutto nelle nostre mani. In una resistenza che non viene meno.

 

Ha collaborato da Ramallah Osama Hamdan.

Foto: Nasser Nasser / AFP.

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