La realtà dei migranti di Ouled Ziane
dove “Europa” diventa un mantra

Questa non è vita, vivere per strada non è vivere. Non è giusto, Il Marocco prende dei soldi dall’Europa grazie a noi, ci deve aiutare” dice Mohamed. Incalza Abdurrahman: “Non abbiamo fatto tutto questo viaggio per restare qui in Marocco. Vogliamo andare in Europa”. Racconta invece Falò: “Io ho dei sogni, ho lasciato la mia famiglia in Burkina Faso e ho promesso loro che ce l’avrei fatta, che sarei arrivato in Europa e che avrei mandato loro dei soldi”. “Devono aprirci le frontiere, non siamo venuti in Marocco per restarci. Vogliamo andare in Europa”, queste le parole di Koné. L’Europa ritorna come un mantra, un’ossessione che riscalda le notti fredde dei migranti subsahariani.

In una delle arterie più trafficate di Casablanca e nell’adiacente e centralissima autostazione di Ouled Ziane, sui binari in costruzione della terza linea della tramvia, centinaia di cittadini subsahariani accampano di giorno e di notte, consumando le loro vita nell’attesa e nell’ozio e vivendo di elemosina ed espedienti. Sono i cosiddetti migranti di transito il cui obiettivo – a differenza di altri cittadini subsahariani che hanno scelto di stabilirsi in Marocco – è di raggiungere l’altra sponda del Mediterraneo. Una traversata che può durare anni o infrangersi completamente sulla barriera di filo spinato che separa il Marocco dalle due enclave spagnole Ceuta e Melilla.

Ho dovuto avvicinarmi con cautela per raccogliere le loro testimonianze e scattare delle fotografie. La loro presenza massiccia in quest’area ha creato un’emergenza di ordine pubblico, e la tensione con la popolazione locale che chiede il loro allontanamento nelle ultime settimane è salita alle stelle. E oltre alla difficoltà di collocare altrove un così gran numero di senzatetto, la polizia si è scontrata con le resistenze agli sgomberi. Questi fatti hanno reso i subsahariani diffidenti nei confronti di chiunque si interessi a loro, temendo una mediatizzazione eccessiva o un uso strumentale e propagandistico della loro situazione.

Il mio primo contatto serio è stato con Koné, un giovane burkinabé che a piedi è partito dal suo villaggio nel sud-est del Paese d’origine, per approdare sei mesi dopo a Casablanca. Koné ha attraversato il Mali e l’Algeria con un gruppo di amici e fratelli, migliaia di chilometri a piedi tra deserti immensi, zone di conflitto, terre di nessuno, feudi dei signori della guerra. Il viaggio di Koné non è organizzato in base agli orari dei mezzi di trasporto e non ha una data di arrivo è un viaggio di fortuna e di sola andata. Sono la fortuna e altre circostanze arbitrarie di cui i migranti non hanno nessun controllo a decidere quanto durerà la traversata. Le retate della polizia, la fatica, la disponibilità di denaro, i controlli alla frontiera: sono tante le varianti che vincolano la durata del percorso.

Dal nostro primo incontro lo informo che vorrei scrivere del loro dramma, mi dilungo sul perché trovo inaccettabili le condizioni in cui vivono e insisto sul fatto che anch’io ho vissuto l’esperienza della migrazione. Mi ascolta con interesse ma non accetta la mia richiesta di fotografare, cosa che considero fondamentale per poter raccontare al meglio le loro difficoltà, tuttavia mi propone di parlare anche con il suo gruppo. Conosco bene questa zona, la attraverso spesso in macchina, ma quando mi trovo a condividere il marciapiede con loro la prospettiva cambia radicalmente e anche i rapporti di forza.

Lascio a Koné il compito di presentarmi ai suoi amici nella loro lingua, le mooré, di dirgli perché mi trovo lì. Sono tutti del Burkina Faso, Koné si rivolge con rispetto soprattutto a uno di loro, che ascolta senza commentare. Conclusa la sua spiegazione mi invita a dire io stesso al capogruppo perché mi interesso a loro. Quando parlo di fotografarli la risposta è un no categorico. Chiedo del loro viaggio, del rapporto con i marocchini e con le autorità, ma le risposte sono laconiche, allora chiedo loro come potrei aiutarli. Abdurrahman, il capogruppo con un cenno della mano, come a dire guardati attorno, mi risponde che nella situazione in cui vivono hanno bisogno di tutto.

Ricontatto Abdurrahman e Koné qualche giorno dopo, ci diamo appuntamento nello stesso luogo e mi presento con una borsa di vestiti, scarpe e qualche coperta rimediati nel mio armadio. Questa volta si mostrano più gioviali e m’invitano a distribuire il contenuto della borsa. Sento un certo imbarazzo perché avrei preferito consegnare la borsa a Koné e che fosse lui a dare le cose ai suoi amici, ma intuitivamente capisco il tentativo di aiutarmi a guadagnare la fiducia del gruppo.

Dopo diversi incontri Koné e i suoi amici, circa una ventina di giovani, cominciano a fidarsi e mi mostrano alcune foto delle loro famiglie. Con il loro aiuto trovo sulla mappa del mio cellulare la localizzazione esatta del villaggio da dove provengono e parliamo del Burkina Faso. Abdurrahman   pochi giorni prima del nostro incontro era partito verso Nador per tentare, senza riuscirci, di oltrepassare la barriera. Alla mia domanda sul perché non sia rimasto a Nador o a Tangeri per essere vicino a Ceuta e Melilla, mi risponde che la polizia li respinge dalle città di confine e che sono costretti a vivere così nei boschi in condizioni ancora più difficili che a Casablanca. Con l’intensificarsi dei controlli da parte delle forze dell’ordine marocchine e spagnole attorno alle due enclave, la possibilità di oltrepassare la barriera si è ridotta drasticamente. Il 24 giugno dell’anno scorso 27 migranti sono morti nel tentativo di scalare il filo spinato. E i campi di fortuna nei boschi attorno a Nador, Belyounech e Tangeri vengono continuamente sgomberati provocando scontri e violenze con le autorità.

Durante la traversata i migranti sono costretti a tenere un profilo basso per passare il più possibile inosservati. Per giungere in Marocco hanno due possibilità: attraversare la Mauritania o l’Algeria. Rimango sorpreso e incuriosito quando apprendo che Koné e il suo gruppo sono passati dall’Algeria. Sulla carta, le frontiere terrestri che separano il Marocco e l’Algeria sono tra le più militarizzate e controllate al mondo. Lungo questi confini gli algerini hanno scavato chilometri di trincee, mentre i marocchini hanno installato sofisticati sistemi di controllo con telecamere e sentinelle. I migranti però riescono comunque a passare attraverso i sentieri delle zone boschive che separano i due Paesi, dove i controlli sono più rari.

La polizia algerina, mi spiegano, è feroce: oltre alle perquisizioni e alla confisca di cellulari, soldi e dei pochi effetti personali, rischiano l’arresto e l’espulsione permanente. Secondo Medici Senza frontiere, l’Algeria negli ultimi quattro anni ha espulso verso il Niger più di 90mila cittadini subsahariani. L’organizzazione aveva denunciato in un recente comunicato “le espulsioni sommarie e caotiche”: “I migranti sono caricati nei camion e sulle autobus e abbandonati in mezzo al deserto a qualche chilometro dai confini”.

In questo lembo di territorio a Casablanca, sui binari del tram non ci sono solo i burkinabé, ci sono maliani, guineani, senegalesi, ivoriani, ghanesi e non solo, e nell’apparente confusione del loro accampamento, fatto di privazioni e promiscuità, regnano una gerarchia e un’organizzazione sorprendenti. Sono strutturati per piccoli gruppi di 15 o 20 persone con criteri di aggregazione che corrispondono a logiche di provenienza non solo nazionale, ma anche locale, linguistica e religiosa. Capisco ad esempio che Abdurrahman, Koné e i loro amici sono originari della stessa zona del Burkina Faso e che il “capogruppo” ha guadagnato il suo status non solo perché più “anziano” – ha 26 anni –, ma anche perché è il primo a essere arrivato a Casablanca quattro anni fa.

Con il susseguirsi delle mie visite all’accampamento riesco a familiarizzare anche con un gruppo di maliani. Vengono dal distretto di Yofolili, ai confini con la Guinea, hanno attraversato a piedi il Mali e la Mauritania. Discutiamo del loro paese, di Tombouctou e del conflitto nel Sahel, mi dicono che la guerra continua a fare vittime e non nascondono il loro sostegno alla politica del presidente Assimi Goïta che secondo loro sta facendo un ottimo lavoro a favore del popolo maliano, uno dei ragazzi non esita a mostrami la maglietta che porta con la foto del colonello, facendo il saluto militare in segno di rispetto.  Per loro Goïta è una risposta all’imperialismo francese che dicono aver spogliato per lunghi anni le ricchezze del Paese. Perciò sono soddisfatti per il ritiro dei francesi e per le nuove alleanze che il colonello sta facendo con i russi e i cinesi. Abbiamo questa discussione mentre sorseggiamo tè preparato su un piccolo braciere che Ahmed ci serve a turno, nello stesso bicchiere. La miseria, la mancanza di lavoro, le guerre, le calamità naturali, il terrorismo, lo sfruttamento economico, l’instabilità politica, i conflitti etnici sono le maggiori ragioni che spingono questi giovani a lasciare le loro famiglie e i loro paesi, e a vivere per strada, rischiando la vita in ogni istante.

Prendendo il tempo di conoscerli ci si rende conto che la loro miseria è solo economica. I migranti che vivono a Ouled Ziane non sono ingenui, hanno una coscienza politica e sociale, conoscono i loro diritti, si ingegnano per barcamenarsi e la maggior parte di loro ha un mestiere o ha compiuto degli studi. Koné ad esempio quasi si commuove quando in una discussione cito il nome di Thomas Sankara e, anche se il leader africano è morto prima della sua nascita, sembra conoscere molto del rivoluzionario. Parlando inoltre delle persone che lo ispirano mi cita l’oppositore e giornalista burkinabé Norbert Zongo, assassinato nel 1998.

Ieri Koné mi ha chiamato, sono solo pochi giorni che non ci vediamo, ma continua a chiedermi di aiutarlo nella ricerca di un lavoro. La volontà di trovare un’occupazione mi è stata espressa anche da altri perché l’Europa resta un obiettivo lontano e non sopportano più la condizione di marginalità e di indigenza in cui vivono. I più ingegnosi hanno fatto di necessità virtù allestendo nel campo delle bancarelle per vendere sigarette, biscotti e altre cianfrusaglie, altri tengono sul marciapiede dei punti di ristoro e altri ancora fanno i barbieri o i sarti: una micro-economia d’emergenza fatta da e per i migranti.

Le foto, inclusa quella di copertina, sono di Rabii El Gamrani, tutti i diritti sono riservati. 

 

 

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