«Altro che svolta, con Biden e Bennett il dossier palestinese resta insabbiato»

Parla l'ex portavoce dell'Anp Hanan Ashrawi

Ora che ha deciso di fare un “passo indietro”, la sua voce, già autorevole, è ancora più libera e chiara. Hanan Ashrawi è la memoria storica della dirigenza palestinese, il volto internazionale. Portavoce della delegazione palestinese ai colloqui di Oslo-Washington, più volte ministra dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), la prima donna a ricoprire l’incarico di portavoce della Lega Araba, paladina dei diritti umani nei Territori. In due parole: Hanan Ashrawi. In questa intervista esclusiva concessa a Reset, che l’ha raggiunta telefonicamente nei suoi uffici di Ramallah, Ashrawi riaccende i riflettori sul dramma palestinese e lancia un possente j’accuse alla comunità internazionale: «In Israele non c’è più Netanyahu alla guida del governo ma l’attuale primo ministro prosegue sulla stessa strada del suo predecessore: consolidare il regime di apartheid in Palestina». Quanto al nuovo corso americano, Ashrawi rileva: «Non ci voleva molto per fare meglio di Trump. Ma siamo ancora molto lontani dal poter parlare di una svolta nella politica americana».

In Israele si discute sui 100 giorni del governo Bennett-Lapid. Le opinioni divergono e spesso confliggono: c’è chi mette l’accento su una discontinuità con i governi a guida Netanyahu; altri, invece, sostengono che sulle grandi questioni, come la pace con i palestinesi, c’è stato un abbassamento dei toni ma la sostanza non è cambiata. Visti da Ramallah, come sono stati i primi 100 giorni di quello che al suo nascere era stato definito “il governo del cambiamento”?

Se questo cambiamento c’è stato, di certo non ha riguardato l’approccio al conflitto israelo-palestinese. I toni sono più soft rispetto ai proclami di Netanyahu, ma al di là della strategia comunicativa, l’attuale primo ministro, Naftali Bennett, ha confermato quello che è sempre stato…

Vale a dire?

Un ultranazionalista di destra, deciso sostenitore della politica di colonizzazione ebraica dei Territori palestinesi occupati, legato a filo doppio col movimento dei coloni. Se qualcuno sperava che con lui alla guida d’Israele si potesse ridare spazio ad una soluzione a due Stati, o era in malafede o un illuso. Bennett è parte di quella destra che non accetterà mai la nascita di uno Stato palestinese, neanche in una dimensione “mini”. Al massimo potrà negoziare qualche concessione amministrativa, forse, ma uno Stato mai…

C’è sempre la prospettiva di uno Stato binazionale…

Una prospettiva morta sul nascere. Perché uno Stato del genere comporterebbe la parità di diritti tra ebrei e arabi, cosa che una destra come quella che Bennett rappresenta vede come fumo negli occhi. É vero che la memoria è labile, ma vorrei ricordare che il partito di Bennett è stato in prima linea per fare approvare dal parlamento israeliano la legge su Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”, che ha istituzionalizzato una etnocrazia, nella quale chi non è ebreo è un cittadino di serie B. E una destra del genere potrebbe concepire l’idea che un giorno un arabo potesse diventare primo ministro d’Israele? Non scherziamo, per favore. Sa cosa è cambiato in questi 100 giorni?

Lo dica lei..

E’ aumentato il numero dei palestinesi uccisi dai soldati israeliani. Quaranta in due mesi. In diversi casi si è trattato di vere e proprie esecuzioni. E tutto questo avviene con la totale copertura del governo israeliano. Certo, il ministro della Difesa (Benny Gantz, ndr) ha aperto un canale di comunicazione con la dirigenza palestinese, ma in concreto le cose se sono cambiate lo sono state in un senso peggiorativo. E questo anche sul piano della visione internazionale…

Vale a dire?

Vede, è come se dopo l’uscita di scena di Trump e quella parziale di Netanyahu, la comunità internazionale abbia tirato i remi in barca, pensando che con Biden e Bennett le cose non poteva che raddrizzarsi…

Invece?

Invece non è così. Certo, Biden e il segretario di Stato Blinken non sono Trump e Pompeo, ma da qui a parlare di una netta discontinuità tra l’attuale amministrazione Usa e quella precedente, ce ne corre e tanto. E di questo è consapevole quella parte dei Democratici americani che più si sono battuti per la causa palestinese. Qualche giorno fa ho avuto modo di parlarne con il senatore Sanders, e anche lui conveniva che il presidente Biden dovesse lanciare un segnale più chiaro della sua volontà a rimettere in moto un negoziato di pace che contemplasse la nascita di uno Stato palestinese. Per adesso, questo segnale non c’è stato.

E l’Europa?

Semplicemente silente. Un silenzio pesante, doloroso. A me non piace usare la parola “tradimento”, preferisco parlare di un’amicizia che non ha dato i frutti sperati. Non c’è leader europeo, francese, tedesco, italiano, spagnolo…, che non ripeta di essere a favore di una soluzione a due Stati. Questa peraltro resta la linea ufficiale dell’Unione europea. Solo che questi intenti restano chiusi nel libro delle parole rimaste tali.

Cosa resta ai palestinesi?

Resta molto. Resta l’attaccamento alla propria storia, alla nostra identità nazionale. Siamo un popolo senza Stato, è vero, ma siamo un popolo. Un popolo che rivendica il diritto all’autodeterminazione, che ama la sua terra, e che sa aspettare. Vede, Israele può costruire tutti i muri che vuole, ma c’è qualcosa che non può essere “murato”: è la natalità…

La “bomba demografica”…

É così. Studi demografici israeliani dimostrano che nel giro di qualche decennio la popolazione araba in Palestina supererà quella ebraica. Gli arabi israeliani e i palestinesi saranno di più. E questo è un dato politico, non solo demografico, con cui Israele sarà costretto a fare i conti.

Intanto in campo palestinese cresce la diffidenza, soprattutto dei giovani, nei confronti di una dirigenza politica percepita come una gerontocrazia che non vuole farsi da parte. Lei come la vede?

La vedo che ho deciso di fare un passo indietro, annunciando di non volermi candidare alle elezioni. Più chiaro di così! Quando si danno i voti, in politica, ai palestinesi, anche i più severi censori non dovrebbero dimenticare mai che non si sta parlando della Svizzera, ma di una democrazia che dovrebbe svilupparsi sotto occupazione, dentro un regime di apartheid imposto da Israele. Non sarebbe facile per nessuno, mi creda. Ma questa constatazione di fatto non deve servire da alibi per giustificare un mancato ricambio generazionale alla guida delle istituzioni palestinesi. La resistenza al cambiamento è ancora molto grande e radicata, e non può essere accollata al solo Mahmoud Abbas (Abu Mazen, l’ultraottuagenario presidente dell’Anp, ndr). Da noi anziani ci si attenda un atto di generosità e di lungimiranza.

 

Foto: Abbas Momani  / AFP

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