Tra i curdi iraniani: una minoranza colpita nell’identità

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Fardin, 25 anni, ha lasciato la più grande città del Kurdistan iraniano, Kermanshah, per raggiungere Kirkuk in Iraq. Lavorerà nella compagnia pubblica per l’energia elettrica dove è impiegato suo cugino. «È un’ottima possibilità, in Iran è tutto fermo mentre nel Kurdistan iracheno di Massoud Barzani c’è un gran fermeto», ci spiega Fardin. Grazie all’impegno di suo padre nella guerra Iran-Iraq (1981-1988), il giovane ha svolto solo un anno di servizio militare anziché due. «Ho goduto di un’esenzione prevista per i figli dei veterani di guerra, ma in ogni caso non avrei voluto proseguire nell’esercito regolare iraniano, le paghe sono misere: un soldato guadagna 3 mila toman al mese (7,5 euro) e un militare professionista a inizio carriera poco più di 300 mila toman (75 euro)», aggiunge il giovane.

Eppure a Kermanshah la presenza dei militari è massiccia: segno che la militarizzazione voluta dall’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad è ancora una realtà. Soldati camminano dovunque per le strade, frotte di coscritti si attardano nei minuscoli locali del bazar e nei ristoranti. Nonostante questo, in piazza Azadi, tra le foto dei martiri della guerra Iran-Iraq, decine di gruppi di uomini contrabbandano tablet e cellulari, poco più avanti fioriscono i cambi illegali di dollari e rubli.

«Il servizio di informazione sa tutto, è il migliore al mondo», si sente ripetere ovunque questa frase in Iran. È forse il modo più semplice per mantenere il controllo dello stato sulla società, evitando manifestazioni pubbliche di dissenso, relegate alla vita privata. Anche a noi capita di imbatterci in uomini con una barba ben curata che si incamminano in una vettura bianca per i viali dell’Università di Kermanshah. E dopo poche domande ci invitano, non molto gentilmente, a lasciare l’ateneo. Sono affiliati ai gruppi paramilitari basiji, o meglio definiti «trouble maker» perché capaci in nome dell’Islam di creare disagi a una semplice coppia di ragazzi che cammina per strada.

Nel Kurdistan iraniano sono poche le tracce delle fievoli aperture di Teheran e tutto sembra accuratamente sotto controllo. Qui inizia il nostro difficile percorso nella minoranza (mellat) che ha creato più problemi all’ayatollah Khomeini: gli abitanti di queste montagne sono sunniti, curdi e molti sono stati comunisti.

Il passato curdo di Kermanshah

«Talvolta il termine minoranze è usato nei confronti di curdi, lori, turchi, baluchi, ecc. Queste non sono minoranze perché ciò definirebbe una distinzione tra fratelli. Questi problemi sono stati creati da chi non vuole che i musulmani siano uniti», così esordiva Ruhollah Khomeini pochi giorni dopo il suo rientro a Teheran nel 1979 manifestando il timore che rivendicazioni di minoranze linguistiche, etniche e religiose avrebbero potuto destabilizzare la nascente Repubblica islamica. I curdi iraniani rappresentano il 10% della popolazione. I curdi sono stati tra i protagonisti della Rivoluzione del 1979. Khomeini ha presto messo fuori legge il Partito democratico del Kurdistan iraniano (Kdp-I, sostenuto dall’Internazionale socialista, mentre i due leader del movimento Qasemlu e Sharafkandi sono stati uccisi). Migliaia di curdi vennero uccisi dopo processi sommari e con l’accusa di essere dei dissidenti.

E così, dopo 35 anni, a Kermanshah resta poco dell’antica identità curda. I suoi abitanti sono imbevuti ormai di nazionalismo persiano. Questo è facilitato anche dai magnifici siti di epoca sasanide di Bisetoun e Taghboustan che circondano la città. Non solo, in centro, tra vicoli strettissimi e case di fango, spiccano le abitazioni di epoca Qajar, Takieh Biglar Baigi e Moaven, insieme all’immenso e antico bazar. Del passato curdo resta la lingua, che si continua a parlare nonostante in scuole e edifici pubblici si possa usare solo il farsi. E la musica: sono curde le danze dei matrimoni e le canzoni che si ascoltano per strada. Dai cantanti Nasser Razazi (che ora vive in Svezia) a Hassan Zikak, da Adnan Pavei a Leyla Farighi il ritmo che unisce canti popolari di tradizione orale e musica pop contemporanea spopola in queste terre.

Insieme ad alcuni vestiti tradizionali. Agha (antico nome per definire i latifondisti) è ora l’epiteto che si usa per chiamare chiunque indossi larghi pantaloni detti chokorané, che cambiano poi nella cintura (shaal) e nel copricapo (jamana) in base alle diverse tribù. Dai jaf agli shakak, dai sorani ai faily ogni parte del Kurdistan iraniano ha una sua lingua e sue usanze distinte che specularmente si ritrovano nelle città curde di Arbil, Haulagba, Suleimanya e Kanakin in Iraq. Anche i religiosi (mullah) curdi hanno un loro abbigliamento ben distinto, molto più laico dei loro omologhi persiani. Mentre le donne sono avvolte in veli a fiori colorati. La figura femminile è centrale per la tradizione curda tanto che in città si ammirano statue di antiche eroine che hanno salvato le città curde dagli invasori o erano proprietarie di estese piantagioni.

A Sanandaj, tra Barzani e Ocalan

Se a Kermanshah chi sostiente l’indipendentismo curdo è considerato spesso un terrorista, a Sanandaj il clima è ben diverso. Nel 2003, negli anni di presidenza riformista di Mohammed Khatami, è stata aperta qui la Casa dei curdi, dove si ammirano gli antichi costumi e i ritrovati della medicina tradizionale di questo popolo in un antico palazzo Qajar. «Riceviamo sovvenzioni governative e centianaia di visitatori al mese», ci spiega il direttore del Centro. Si ammirano qui i busti dei notabili curdi da Reza Talebani al poeta Karkuk fino al calligrafo Kalhoar. È il tentativo di normalizzare la presenza curda nella società persiana, dopo la repressione dei movimenti indipendentisti.

Non solo, sono molti i giornali locali in curdo pubblicati a Sanadaj da Sirwan a Abidar, da Kushk al magazine letterario Serva. «Da pochi anni insegnamo lingua e letteratura curda all’Università del Kurdistan», ci spiega Nasser Rashwan. Il docente di economia non nasconde le sue simpatie per Abdullah Ocalan (leader del Partito dei lavoratori curdi Pkk) e Massoud Barzani (presidente del Kurdistan iracheno). Nonostante i curdi iraniani siano considerati lontani dai movimenti curdi turco, siriano e iracheno, i leader curdi godono di grande popolarità per le strade di Sanandaj. Ma i loro nomi vengono sussurrati sotto voce.

Keivan, giovane sostenitore del Kdp-I non guarda all’Iraq. «I tecnocrati al potere in Iran sono una casta corrotta e lo stesso posso dire di Barzani. Per questo l’unico leader curdo di riferimento è per me Ocalan», aggiunge il ragazzo. Qui sono numerosissimi i sostenitori del movimento curdo turco. Nabid ci racconta che fino a pochi anni fa combatteva nelle montagne di Abidan con il Partito per il Kurdistan libero (Pjak). «Ho poi abbandonato l’attivismo politico per cercare un lavoro», ammette amareggiato. Secondo il giovane l’opposizione curda al regime iraniano è duplice, anti-religiosa, per questo la maggior parte di questi movimenti ha aspirazioni socialiste, ma negli ultimi anni anche anti-sciita, cioè in contrasto con l’ideologia khomeinista imposta dopo la rivoluzione.

Dopo lo scoppio della guerra in Iraq (2003), numerosi sono stati gli attacchi dei pasdaran ad organizzazioni paramilitari curde. Pezhak, un gruppo separatista curdo, si è costantemente scontrato con le forze di polizia iraniane nella provincia di Urumieh. Simili scontri sono frequenti tra soldati iraniani e ribelli curdi del gruppo Kongra-Gel. Con l’indipendenza assicurata al Kurdistan iracheno si sono intensificate le relazioni con i curdi iraniani, mentre resta per tutti incerta la sorte dei curdi siriani che dopo lo scoppio della crisi a Damasco godono di ampia autonomia. Se la lettera di Ocalan del marzo scorso ha aperto il dialogo dei curdi turchi con il governo di Ankara, a Sanandaj sembra ancora tutto da fare per il riconoscimento dei diritti di una minoranza che sta dimenticando le sue radici.

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Nella foto: due uomini curdi nell’Iran occidentale (foto di Hamed Masoumi, cc)

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