Siria: la società civile in tempo di guerra

Di Siria si parla solo in chiave geopolitica, associando la sua storia quotidiana alle azioni militari spregiudicate delle grandi potenze o ai periodici eccidi perpetrati dal regime Assad contro i propri cittadini, impunemente compiuti in province remote del Paese come anche nei sobborghi della capitale.

Tuttavia, i grandi assenti sembrano essere proprio gli oltre 15 milioni di cittadini siriani, una popolazione già ridottasi a causa della morte di oltre 400 mila persone e dall’esodo di circa 5 milioni di profughi, e che resiste e cerca di organizzare tenacemente la propria vita a dispetto della guerra, tanto nelle zone controllate dal regime, che in quelle detenute dai ribelli.

Ciò che si sottolinea troppo poco spesso è che lo Stato siriano fosse in crisi anche prima del 2011 e che proprio questa disaffezione progressiva di molti cittadini nei confronti del governo di Bashar al-Assad abbia provocato le rivolte iniziali che poi innescarono la breve primavera araba siriana, subito repressa nel sangue.

Lo Stato siriano era in crisi perché il sistema di governo si fondava non solo sulla repressione sistematica degli oppositori (grazie all’impiego di tra i 50 mila e i 70 mila uomini delle forze di sicurezza e servizi segreti, appartenenti alle 15 temibili agenzie di mukhabarat) e la continua imposizione dello stato d’emergenza, ma anche su un sistema selettivo di welfare e accesso alle istituzioni gestito su base settaria che non assicurava alcuna universalità e neutralità nell’allocazione delle risorse, favorendo nettamente le minoranze alawita (12%), cristiana (8%), drusa (3%) e sciita (1%) alla netta maggioranza sunnita (65%), e condannando alla povertà assoluta o a quella relativa rispettivamente l’11 e il 30% della popolazione (David Lesch, Syria: The Fall of the House of Assad, 2013: p.67).

L’emergenza sociale era particolarmente accentuata nelle aree rurali già colpite da continue siccità tra il 2006 e il 2010 e dalle concomitanti riforme strutturali liberali intraprese dal regime, volte a smantellare il settore agricolo attraverso la chiusura di cooperative e il ritiro di sussidi. Si è trattato di un vero e proprio abbandono delle campagne da parte del regime a favore delle zone urbane, causa anche di forti sperequazioni sociali ed etniche, dal momento che la maggior parte delle aree rurali erano abitate da sunniti e che il nord-est del Paese, ed in particolare la provincia di Raqqa legata all’agricoltura, erano stati messi in ginocchio dalle riforme e private di alternative di sussistenza, registrando tassi di povertà pari al 58% della popolazione (il che forse spiegherà molto sul radicamento dell’ISIS in quella città nel 2014.)

Sbarrando l’accesso al welfare ed al contempo imponendo un severo bando all’attività politica attraverso la penetrazione capillare di un partito sostanzialmente unico – il Ba’ath, a fianco del quale nessuna vera forza alternativa poteva emergere, nonostante la lieve apertura del 2012 – la società siriana era tenuta in una sorta di eterno immobilismo, le cui uniche increspature erano riforme cosmetiche – come la Dichiarazione di Damasco del 2005 – di tanto in tanto annunciate da un governo sempre più verticistico e familistico. Nessuna apertura si era infatti concretizzata nel passaggio del potere da Assad padre (Hafez) al figlio (Bashar), che pure aveva suscitato molte speranze nella società siriana e soprattutto tra i suoi intellettuali, corsi a firmare nel 2000 una “Dichiarazione dei mille” che chiedeva l’avvio del multipartitismo, la fine dello stato d’emergenza e la libertà di stampa e associazione. Tutte richieste rimaste inascoltate dal giovane Presidente, che aveva invece deciso di mostrare un volto più mite ma in sostanziale continuità con la linea politica repressiva precedente.

La Siria era, però, un paese giovane – oltre il 55% dei cittadini nel 2010 risultavano sotto i 24 anni – che avrebbe avuto bisogno di maggiore crescita economica per creare sufficienti posti di lavoro, ma anche di maggiore giustizia sociale e aperture politiche per garantire un’adeguata rappresentanza ad una popolazione giovane sempre più attiva, globalizzata ed anche istruita (il 25% dei giovani frequentava le università pubbliche del Paese). In sintesi, la Siria cresceva a singhiozzo, con aperture troppo parziali e limitate e con blocchi troppo evidenti perché il Paese non assomigliasse, nonostante le dichiarazioni ufficiali del suo Presidente alla vigilia delle rivolte, ad una “pentola a pressione”.

In un contesto politico votato all’immobilismo, sempre più giovani arabi impossibilitati ad assumere un ruolo politico od ottenere uno sbocco lavorativo nelle istituzioni, si erano già rivolti in numeri crescenti prima del 2011 all’associazionismo o alle nuove ONG per svolgere una preziosa funzione sociale loro negata nella sfera politica. Il governo siriano, però, permetteva soltanto a due tipologie di associazioni di esistere: le associazioni caritatevoli, spesso islamiche, attentamente monitorate dal Ministero degli affari sociali e del lavoro, e le cosiddette nuove ONG legate alla famiglia Assad ed in particolare alla first lady, come il Syria Trust for Development, la Junior Chamber International (JCI), il Syrian Enterprise and Business Center (SEBC) e altre definite GONGOs, ovvero organizzazioni governative non governative: un modo spiritoso per indicare l’assoluta aporia di realtà che si sarebbero volute indipendenti ma che erano di fatto al soldo del governo.

Tuttavia, molti di questi gruppi collocati a metà tra il politico e il sociale, per quanto orientati a lottare per campagne specifiche e per risolvere problemi concreti, erano anche animati da aspettative di giustizia più ampie dalle ricadute di lungo periodo: non sorprende, dunque, che, circa due mesi dopo che la Tunisia e l’Egitto insorsero contro i propri despoti fornendo l’esempio, la Siria si associò immediatamente all’ondata di proteste, e molti dei giovani che si erano formati una coscienza politica e sociale nella fase precedenti nelle varie GONGOs, andassero a confluire nei nuovi Tansikiyat, o comitati di coordinamento locale, inizialmente pensati soltanto come organismi provvisori per coordinare le proteste e poi, gradualmente, assegnatari di funzioni sempre più importanti di vera e propria governance, a mano a mano che il governo ufficiale perdeva progressivamente territori di fronte all’avanzata dei gruppi ribelli, abbandonandoli all’autogestione. I Comitati di Coordinamento si trasformarono così in Consigli, che cercavano di sostituire il governo nei suoi compiti amministrativi di base, dall’anagrafe alla fornitura di servizi pubblici basilari, come la manutenzione delle strade e la raccolta dell’immondizia.

Con il moltiplicarsi delle esigenze pratiche di autogoverno, la vivacità del tessuto sociale siriano, già ampia prima del 2011, si è intensificata, assistendo ad un’impennata nella creazione di ONG (+91% dal 2011), nonché ad una loro progressiva diversificazione tematica. Ai gruppi votati all’assistenza umanitaria ed alla fornitura di servizi base paralleli o complementari a quelli di uno Stato ormai in evidente tracollo, si sono affiancati quelli votati all’advocacy politica, che non avrebbero mai ottenuto l’approvazione ufficiale ad operare, ma anche quelli più strettamente legati al conflitto, come quelli impegnati nella documentazione dettagliata di tutte le violazioni dei diritti umani (come il Violation Documentation Center, VDC di Douma o il gruppo Raqqa is being slaughtered silently), indifferentemente compiute dall’una e dall’altra parte belligerante e, per questa ragione, ostacolati da entrambe.

Oggi grazie all’attività di alcune di queste ONG è possibile conoscere nel dettaglio quante di queste realtà associative siano effettivamente impegnate sul campo e per quali scopi: il rapporto dettagliato compilato dal gruppo “Citizens for Syria” (consultabile al www.citizensforsyria.org/mapping-syria-cs/- e diffuso in Italia grazie all’ONG Un Ponte per) ci offre infatti una radiografia della società civile siriana, rivelando dati preziosi sul numero ma anche sul tasso di attività delle realtà coinvolte.

Ne emergono informazioni importanti, come il fatto che circa 748 ONG più o meno istituzionalizzate inventariate dal rapporto lavorino a tempo pieno nel paese e che la maggioranza di loro, come era prevedibile, sia concentrata nelle zone occupate dai ribelli (44%) e nella provincia di al-Hassakeh, ovvero nella zona curda, dal 2012 autonomamente gestita dalla minoranza curdo-siriana grazie ad un accordo siglato con il regime Assad. Solo una percentuale esigua risulta invece ancora attiva sotto il regime. Con questa è anche difficile avere rapporti con altre ONG: sia per oggettive difficoltà di comunicazione, che per dubbi circa i limiti di mandato e le pressioni sotto le quali è costretta ad operare. La maggior parte delle ONG siriane possiede ancora sedi o succursali nel paese, nonostante una percentuale sempre più cospicua si registri in Libano e più di recente in Turchia, dove i contatti con la società civile locale erano però stati sporadici fino allo scoppio della guerra. Si assiste anche a una “democratizzazione progressiva” nella diffusione delle associazioni e delle ONG sul territorio nazionale, prima esclusivamente concentrate nelle zone progredite o lealiste della Siria, ovvero nelle grandi città e nella fascia costiera a maggioranza alawita (fino al 2011, l’85% di esse erano basate a Damasco, Aleppo, Tartous, Latakia e Hama).

Oltre un terzo delle ONG siriane sono impegnate nel soccorso umanitario (35%), ottemperando alle necessità più urgenti ed immediate di una popolazione manchevole di tutto, tuttavia una percentuale quasi pari (31%) è invece impegnata nel settore dei media, considerato l’altro fronte caldo nella guerra, dato che la comunicazione viene continuamente manipolata tanto dal regime che dall’ISIS e dalle grandi potenze per fini che spesso sono estranei alla Siria e, soprattutto, agli obiettivi di fondo dei suoi cittadini, principalmente la fine del conflitto e l’avvio di negoziati di pace. Percentuali minori di ONG sono anche attive in campi solo apparentemente secondari come l’advocacy per i diritti civili e di cittadinanza, la salute (6%), la cultura (5,7%) ma anche la ricerca (6%), a testimonianza dell’impegno dei siriani stessi nel promuovere soluzioni politiche per uscire dal conflitto, evitando di essere considerati solo destinatari passivi di scelte operate altrove e rispondenti a logiche ad essi estranee. Tutte soffrono di una sistematica carenza di fondi, ma, soprattutto, dell’impossibilità di prevedere l’afflusso degli stessi, ovvero della loro occasionalità, che determina una forte precarietà organizzativa, tra cui l’esigenza per molte di loro di programmare le attività su base mensile anziché annuale.

Infine, la società siriana si è resa conto, almeno recentemente, della sua estrema fluidità e della debole strutturazione di questa galassia di gruppi impegnata nell’immane compito di contrastare tanto il regime che la violenza jihadista e le strumentalizzazioni straniere, e della necessità di dover costituire nuclei più forti di cooperazione tra le anime multiformi della società civile per poter minimamente contare nella Siria post-conflitto, come anche nel processo che porterà fine alla guerra. Sono nate così alleanze o coalizioni della società civile che raggruppano alcuni gruppi spontanei e ONG attivi nel Paese: la Coalizione civile siriana (TAMAS), l’Alleanza siriana per la speranza per la modernità e la libertà (SHAML), l’Unione delle organizzazioni mediche (UOSSOM), l’Unione delle organizzazioni della società civile (USCSO), il Forum siriano, il Network di soccorso siriano (SRN), (tutte analizzabili nel rapporto redatto dall’ONG Citizens for Syria). Certamente ancora troppe sigle, anche ad un primo sguardo, per poter dire che l’operazione di sintesi e fusione si sia conclusa con successo, ma comunque un primo tentativo nel senso giusto.

Il rapporto non risparmia nemmeno le perplessità e i dubbi che permangono nell’operare della società civile, che, per quanto impegnata a contrastare e limitare gli effetti pervasivi della guerra, non opera in un contesto isolato, ma anzi fortemente turbato dal conflitto, ed è quindi soggetta agli stessi limiti di azione e di visione di molte delle forze politiche schierate sul campo: in primis, alla tendenza a “etnicizzare” o “cantonalizzare” la Siria, favorita dalla costituzione di ONG etnicamente o geograficamente omogenee al proprio interno, che intrattengono scarse relazioni con gruppi presenti in altre zone del paese e che difficilmente reclutano membri al di fuori della propria setta o gruppo locale di origine. Se è vero che tutte le associazioni e ONG operano in un regime di emergenza e non possono farsi portatrici, allo stato attuale, di visioni di ampio respiro che non avrebbero i mezzi per realizzare, è anche certo che, adottando modalità di funzionamento più semplici e snelle come queste, contribuiscano negativamente allo smembramento del tessuto sociale nazionale siriano ed una nociva semplificazione della realtà.

In sintesi, possiamo dedurre da questo, e da altri rapporti, che la società civile siriana, paradossalmente, non è mai stata viva come oggi quando la guerra ha permesso a molti gruppi di strutturarsi in realtà autonome grazie al venire meno del controllo statale e dei suoi apparati repressivi. Tuttavia, molte sfide attendono la società civile, tra queste la capacità di assumere una struttura sempre più coesa e rappresentativa a livello nazionale, di superare e fondere le barriere etnico-religiose e di genere, promuovendo nuove forme di cittadinanza maggiormente inclusive. La difficoltà maggiore appare quella di lanciare ponti verso i concittadini rimasti sotto il regime di Assad, che non devono essere indiscriminatamente percepiti come lealisti del regime ed esclusi tout court dalla riorganizzazione della società civile siriana che sta avvenendo nei territori detenuti dai ribelli e all’estero. Alle ONG siriane occorre, inoltre, cercare di intrattenere rapporti più stretti con le società ospitanti – siano esse il Libano, la Giordania, la Turchia o l’Europa – conservando al contempo piena autonomia dall’agenda politica di donors e governi stranieri che hanno tutto l’interesse a convertire la loro benevola accoglienza in forme di leverage politico, sapendo che alcune di queste ONG giocano oggi un ruolo fondamentale nel rappresentare, e domani nel ricostruire, la futura Siria.

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