Noi, l’Islam e questo mondo in ebollizione

La scomparsa prematura di Khaled Fouad Allam addolora la redazione di Reset e dell’associazione Reset-Dialogues on Civilizations, che fin dai primi anni di attività ha condiviso con l’intellettuale italo-algerino numerose occasioni di dialogo e di conoscenza sui temi dell’Islam e del pluralismo culturale. Vogliamo ricordarlo con questa intervista, condotta da Nina zu Fürstenberg e pubblicata nel 2004 nel libro Lumi dell’Islam. Nove intellettuali musulmani parlano di libertà (I libri di Reset, Marsilio).

Nato a Tlemcen in Algeria nel 1955, dopo aver abitato in Marocco, Algeria e Francia, Khaled Fouad Allam si è trasferito in Italia, dove ha poi vissuto dal 1982. Cittadino italiano dal 1990, è stato docente di Sociologia del mondo musulmano e di Storia alle Università di Trieste e di Urbino. Eletto alla Camera nel 2006 per l’Ulivo, nel 2007 aveva ricevuto il premio del Senato per il libro La solitudine dell’Occidente. Negli ultimi anni il lavoro del sociologo algerino era dedicato soprattutto all’impegno universitario, e le sue numerose pubblicazioni sulla storia e sulla cultura dell’Islam sono state tradotte in diverse lingue, raggiungendo un indiscusso prestigio accademico. Ciononostante, Fouad Allam non ha mai smesso di coltivare l’impegno a favore della divulgazione intorno ai temi dell’integrazione, dell’Islam in Europa e del dialogo interculturale. Lo faceva scrivendo sulle pagine della Stampa e di Repubblica, e lo aveva fatto scrivendo libri rivolti al grande pubblico, tra cui vogliamo ricordare L’Islam spiegato ai leghisti uscito nel 2011.
Per Khaled Fouad Allam il cammino del mondo islamico verso la secolarizzazione è un processo lungo e travagliato almeno quanto lo è stato quello dell’Occidente. Si sta abbandonando l’antica cultura islamica ma il nuovo non è ancora definito; nel mondo moderno, anche nelle società musulmane si è attestata un’ottica individualistica che si accompagna però a perdita d’identità, sradicamento e incertezza. Nascono reazioni di compensazione che esprimono in alcuni un desiderio di re-islamizzazione, e molti musulmani si trovano a cavallo tra il mondo moderno e il mondo tradizionale. Una forma di secolarizzazione inclusiva potrebbe nascere però proprio dalla zona grigia tra il potere politico e quello religioso, invece che dalla netta separazione fra le due sfere, come è avvenuto in Occidente.

Tolleranza e individualismo sono tra i valori fondamentali del liberalismo, come sono recepiti nel mondo islamico?

La questione della tolleranza è un tema antico e molto dibattuto. L’Islam classico, quello medievale, era molto più tollerante di quello attuale; perché oggi una parte dell’Islam si definisce come un’ideologia politica. L’individualismo come categoria antropologica è invece assente nell’Islam e occorrerà ancora del tempo affinché si realizzi pienamente il passaggio da una cultura basata sull’identità collettiva e comunitaria a una cultura basata sull’identità individuale. L’Islam non permette l’interiorizzazione dei diritti individuali. La shari’a non è congruente con l’interiorizzazione dei diritti individuali.

La legge religiosa, la «shari’a», è conciliabile con la modernità?

La shari’a non è diritto positivo, ma un insieme di norme elaborate e fissate tra il vii e il xii secolo, che quindi non sono mai state discusse da un parlamento. Le popolazioni immigrate nel mondo occidentale si trovano dunque ad affrontare la contraddizione fra la shari’a, che riguarda essenzialmente il diritto della persona, e il diritto positivo dei paesi d’accoglienza.

Liberalismo e Islam. Come vede il rapporto fra autonomia religiosa e autonomia politica?

Il termine liberale o liberalismo non esiste nella lingua araba, ma il concetto potrebbe affermarsi lentamente anche nel mondo musulmano. Riguardo all’autonomia fra religione e politica, già negli anni venti la celebre Università egiziana al-Azhar, considerata la massima autorità istituzionale per l’Islam sunnita, pubblicò un saggio dedicato a L’Islam e i fondamenti del potere politico, in cui si dimostrava come la dottrina del califfato non si possa ritenere legittimata dalle scritture sacre dell’Islam, ma come invece un’elaborazione storica puramente umana. Ciò permette, almeno sul piano teorico, di spezzare il rapporto fra religione e politica. Se alla nascita dell’Islam il quadro concettuale era certamente orientato a strutturare la società attraverso la religione, nella storia del mondo islamico vi sono stati però dei periodi di relativa autonomia del potere politico e religioso. Nei momenti di crisi come quello attuale, assistiamo a una forte tendenza in senso opposto: per le frange dell’islamismo radicale il trinomio «religione, mondo e Stato» rappresenta un’unità inseparabile. Ma molti musulmani non la pensano allo stesso modo, e il dibattito oggi è molto violento. Se negli anni ottanta del xx secolo si pensò alla creazione dello Stato islamico, lo Stato della shari’a, oggi questo non è più possibile, anche se in alcuni paesi sussiste un forte conservatorismo.

La Turchia però ha effettivamente creato una separazione fra potere politico e potere religioso?

Sì, dopo la caduta del califfato nel 1924, la Turchia si è trasformata in un paese moderno e laico, ma non è mai diventato un paese secolarizzato. Secolarizzazione non è la stessa cosa di laicità, perché essa comporta che le comunità umane si definiscano su certi criteri antropologici e condizioni sociali. Queste condizioni non le troviamo ancora in Turchia.

Sono conciliabili Islam e democrazia?

Certo, la democrazia è possibile, anche se oggi nel mondo musulmano abbiamo per lo più sistemi autoritari. Nemmeno in Occidente la democrazia è arrivata da un giorno all’altro, il processo è durato qualche secolo, ma su questi temi il mondo occidentale ha la memoria corta. Oggi nel mondo musulmano si è instaurato un rapporto ambiguo fra potere religioso e potere politico, che deriva dall’istituzionalizzazione del religioso. Ma proprio da questa ambiguità potrebbe nascere un potere veramente secolare, e non da un’improbabile rottura netta fra potere politico e religioso, come quella che ha caratterizzato la secolarizzazione occidentale.

Il mondo islamico ha avuto un forte impatto con la modernità, sia nei paesi originari, sia nei paesi d’immigrazione. Come si manifestano questi cambiamenti?

Il mondo islamico si è sradicato a contatto con la modernità. L’Islam di mio nonno non è più lo stesso Islam di oggi. Le culture locali e tradizionali sono cambiate, e il mondo musulmano è stato obbligato a rispondere riformulando antiche categorie e modelli. Il vecchio mondo sta morendo, o è già morto, mentre quello nuovo, con nuove regole, non è ancora nato. Il musulmano, da Gedda fino a Marsiglia, cerca di vivere in due mondi contemporaneamente, in un mondo esterno moderno e in un mondo interno tradizionale: e questo porta a una forma di schizofrenia. Prima o poi questi due mondi si scontreranno, e se gli intellettuali non preparano questo cambiamento si assisterà a un disastro.

Disastri come vediamo dal terrorismo?

È questo che intendo. La gente manifesta due tipi di reazione: o tende al neoconservatorismo, al fondamentalismo, fino al radicalismo islamico; oppure confida nella nascita di un Islam più individualistico che viva la fede in modo privato. Ma dove non c’è più fondamento, i codici di comportamento poggiano sul nulla: l’immaginario reagisce al vuoto e l’identità si manifesta in segni esteriori quali il velo o la barba, nella diaspora come nei paesi d’origine.

Pensa che il contatto degli immigrati con il modello liberale occidentale, in particolare quello europeo, che non è multiculturale, possa accelerare un cambiamento nella cultura?

È sbagliato pensare l’Islam da una parte e l’Occidente dall’altra. Il processo di occidentalizzazione ha segnato tutta la storia del Novecento musulmano. Le società musulmane oggi sono società in crisi e molto eclettiche. C’è chi pensa che la secolarizzazione sia un fenomeno legato alle forme in cui esso si è definito in Occidente, ma altri, e io tra essi, ritengono che anche nell’Islam la secolarizzazione sia possibile. Basta leggere la letteratura araba contemporanea per rendersene conto. Certamente nell’Islam della diaspora – vale a dire l’Islam degli immigrati – questo sviluppo è accelerato. In alcuni casi però accade il contrario, avviene una specie di reazione di rigetto, come si è visto dopo l’attentato dell’11 settembre. Talvolta le comunità degli immigrati tendono a piegarsi su se stesse rifiutando la secolarizzazione; e la refrattarietà del mondo esterno, nei paesi d’accoglienza, frenando l’integrazione, aggrava ulteriormente questo fenomeno. Ne nasce un Islam distorto che storicamente non è mai esistito.

Condivide la preoccupazione di Huntington sullo scontro fra le due civiltà?

Un conflitto tra le civiltà implica l’esistenza di un centro per ognuna di esse. Ma per il mondo islamico non esiste più un centro, dopo la caduta dell’impero ottomano nel 1924. Esistono molte forme di Islam diverse tra loro e molte etnie nel mondo islamico; negli ultimi anni il peso politico delle etnie ha assunto sempre più importanza e così pure il loro ruolo nel generare violenza. Non si tratta quindi di un conflitto tra le civiltà. È possibile un aggravarsi dei conflitti fra le etnie, ma sono possibili anche futuri conflitti dei musulmani tra loro. Il problema maggiore nei rapporti fra Islam e mondo occidentale è invece il rapporto fra storia e memoria.

Mi spieghi cosa vuol dire il rapporto fra memoria e storia.

Voglio fare un esempio. Ibn Handis è stato il poeta medioevale più importante della Sicilia. Ma nessuno dei miei studenti conosce più lui o la sua più celebre poesia, Polvere di diamanti. Ciò che è grave non è la loro lacuna intellettuale, ma l’oblio, la perdita di una memoria condivisa. È accaduto un divorzio fra storia e memoria. Il risultato è che vediamo il mondo musulmano come un mondo etnico, distante, diverso dal nostro; in questo c’è qualche elemento di analogia con quanto è avvenuto per il mondo ebraico.

L’Islam oggi è parte integrante del mondo europeo.

Effettivamente quasi 20 milioni di musulmani provenienti da tutto il mondo vivono oggi in Europa, e molti di loro sono ormai cittadini tedeschi, svizzeri, italiani, francesi ecc. Ma non si condivide con loro uno spazio di riconoscimento: perché si è spezzato il rapporto tra storia e memoria. Il musulmano che esce dal suo paese vive l’appartenenza religiosa come un fatto problematico: mentre nel paese di nascita egli si riconosce come appartenente a uno Stato musulmano, quando invece si trova negli Stati Uniti o in Europa, deve trovare in sé la forza interiore per sentirsi musulmano anche in terra straniera. Questo comporta un grande cambiamento, perché si assiste al passaggio da un Islam di tipo comunitario – nei paesi di origine – a un Islam privatizzato, individuale: l’Islam dell’immigrazione. Attraverso l’immigrazione il musulmano si pone il problema dell’identità che ormai non è più la stessa, è un’identità diluita.

E noi oggi in Europa cosa possiamo migliorare?

La stessa parola immigrazione non aiuta psicologicamente: perché evoca l’idea dell’estraneo, del diverso, dello sconosciuto.

Lei è d’accordo con il tentativo del governo francese di costituire un organo rappresentativo dei musulmani in Francia?

Il modello francese evidenzia un forte volontarismo dello Stato. Nell’Islam non è mai esistita una chiesa, e inventarla non è compito di uno Stato. Certo, un organo rappresentativo è pur sempre uno strumento di dialogo tra lo stato francese e gli immigrati, e potrebbe aiutare a rafforzare il processo di integrazione. Ma il CFCM è una formazione debole, difficile da gestire soprattutto a lungo termine.

Vai a www.resetdoc.org

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *