In morte del patriottismo democratico americano? Una lezione da Tocqueville

Pubblichiamo il testo completo dell’intervento che Mark Lilla terrà martedì 24 novembre alla conferenza “The Divided Society after November 3rd” organizzata da Reset DOC in collaborazione con il Centro Studi Americani e la Italian Academy at Columbia University.

 

Il tema al centro dell’incontro di oggi sono le nostre società divise. Penso che ammetterete che la maggior parte delle conversazioni attorno a questo tema seguono ormai un copione familiare. Comprensibilmente, ci concentriamo sulle forze che pensiamo ci stiano separando: l’inciviltà, l’intolleranza, il dogmatismo, la reazione, il radicalismo, l’identità, i social media e simili. Presumo che oggi toccheremo molti di questi tasti.

Prima di farlo, vorrei però attirare la nostra attenzione altrove. Qualsiasi diagnosi medica di una malattia deve concentrarsi su due fattori: uno è quale batterio o virus abbia attaccato il corpo; l’altro è la capacità preesistente di quel corpo a resistere, ovvero il sistema immunitario. Se un corpo si ammala, ciò potrebbe essere dovuto a un nuovo virus; ma potrebbe anche essere dovuto ad un collasso del sistema immunitario che rende il corpo incapace di resistere ai batteri sempre in agguato.

Se ci pensate, la maggior parte degli scritti e delle discussioni riguardanti le nostre società divise si concentrano su quelli che presumiamo essere nuovi microbi nell’aria: il nuovo populismo; il nuovo antisemitismo; il nuovo razzismo; i media nuovamente faziosi; la nuova politica identitaria; il neoliberismo. Prestiamo molta meno attenzione a ciò che è, per così dire, il nostro sistema immunitario politico.

È comprensibile. In politica come in medicina, il sistema immunitario è un’idea vaga: un costrutto, in effetti. Non lo si può esaminare al microscopio come si fa con i batteri. Eppure è necessario fare uno sforzo per misurare la resistenza di un corpo, che sia il corpo di un individuo o un corpo politico.

Quindi la domanda che vorrei porre per lanciare la discussione è la seguente. Quali sono i fattori di fondo che tengono insieme una società democratica composta di individui? E come sono mutati questi fattori nelle nostre democrazie nell’ultimo decennio o due?

La prima è un’antica questione non di principi politici ma di psicologia politica. La psicologia politica è un’arte morente, sia come oggetto d’indagine accademica che come base per il commento politico. Ciò di cui abbiamo bisogno in primis oggi è capire meglio i legami psicologici che un tempo ci univamo più strettamente. Solo in seguito possiamo chiederci in che misura questi legami si siano allentati autonomamente, e di conseguenza ci abbiano reso più vulnerabili a forze come il populismo, la xenofobia o i social media.

Per esplorare queste questioni mi poggerò fortemente al più grande psicologo della democrazia moderna, Tocqueville, e in particolare a due passaggi di Democrazia in America su cui mi sono molto interrogato di recente (reminder: eccetto quando scrive di razza, quando Tocqueville parla di “americani” si riferisce a quelli che indica anche come “anglo-americani”).

Tocqueville scrisse Democrazia in America negli anni ’30 dell’Ottocento per un pubblico francese che era scettico – è il minimo che si possa dire – sulle prospettive della democrazia moderna. Data l’esperienza francese nel mezzo secolo prima della sua visita negli Stati Uniti, quello scetticismo era comprensibile. Una delle accuse contro di essa era che aveva un impatto atomizzante: se tutti fossero stati dotati di diritti individuali, senza alcuna autorità mistica sopra di loro – era il ragionamento – allora non si sarebbe avuto altro che divisione, conflitto, egoismo e indifferenza per il bene pubblico.

Tocqueville cercò di persuadere i suoi lettori che le cose stavano andando diversamente negli Stati Uniti, e di spiegare perché distingueva tra quello che potremmo chiamare antico amore per la patria (o patriottismo) e versione moderna. Ecco ciò che dice della versione antica:

Esiste un amor di patria che ha principalmente la sua fonte in quel sentimento impulsivo, disinteressato e indefinibile, che lega il cuore dell’uomo ai luoghi in cui egli è nato. Questo amore istintivo si confonde col gusto delle antiche usanze, col rispetto degli antenati e la memoria del passato; coloro che lo provano, amano il loro paese come si ama la casa paterna… [Questo amore] diventa esso stesso una specie di religione: non ragiona, crede, sente, agisce [279-280]

Il filosofo francese Alexis de Tocqueville (1805-1859)

Si noti che Tocqueville usa il linguaggio dell’amore per descrivere il patriottismo. Non è un amore per il governo o per lo Stato distinto dalle persone che vi abitano. È piuttosto una sorta di solidarietà umana, ciò che Aristotele chiamava “amicizia politica”. La versione antica di questo amore è profonda e duratura fintanto che è “irriflessiva”, cioè istintiva. Ma si rivela fragile in periodi di profondi mutamenti storici:

Ma giunge talvolta nella vita dei popoli un momento in cui le antiche consuetudini cambiano, i costumi sono distrutti, le credenze indebolite, il prestigio dei ricordi svanisce… Gli uomini, allora, scorgono la patria sotto una luce debole e in­certa; essi non la pongono più né nel suolo, che è divenuto ai loro occhi una terra inanimata, né nelle usanze dei loro antenati, che hanno imparato a considerare come un giogo, né nella religione, di cui dubitano; né nelle leggi che essi non fanno, né nel legislatore che temono e disprezzano […] e si rin­chiudono in un egoismo ristretto e senza luce […] Essi non hanno né il patriottismo istintivo della monarchia, né il pa­triottismo ragionato della repubblica. [280-281]

Questo suona familiare. E infatti la società francese negli anni Trenta dell’Ottocento era tanto divisa quanto le nostre oggi. Nel mezzo secolo precedente, la monarchia era stata rovesciata e la Prima Repubblica era divampata in un regno di terrore. Quindi emerse il dispotismo napoleonico, e crollò a sua volta. Tocqueville stava scrivendo subito dopo la rivoluzione di luglio del 1830 che aveva portato sul trono un monarca costituzionale non amato e in Parlamento una classe borghese cinica e individualista. Il vecchio patriottismo era definitivamente morto.

Ma poteva essere rianimato, come sostenevano alcuni conservatori francesi? No, dice Tocqueville, è impossibile.

Ma i popoli non tornano ai sentimenti della loro giovinezza, così come gli uomini non tornano ai gusti innocenti della loro prima età; possono rimpiangerli, ma non farli rinascere. Bisogna dunque andare avanti e affrettarsi ad unire, agli occhi del popolo, l’interesse individuale all’interesse del paese, poiché l’amore disinteressato della patria fugge senza possibilità di ritorno [281]

In altre parole, le società democratiche moderne non possono essere tenute insieme dai vecchi e tradizionali legami e sentimenti. Ma possono esserlo se l’interesse personale e il bene pubblico vengono associati nella mente delle persone. Questa, afferma Tocqueville, può essere la base psicologica di “un altro patriottismo più razionale”. Ecco come lo descrive:

Vi è poi un diverso amore di patria più razionale, meno gene­roso, forse meno ardente, ma più fecondo e più durevole; questo nasce dall’educazione; si sviluppa con l’aiuto delle leggi, cresce con l’esercizio dei diritti e finisce, in qualche modo, per confondersi con l’interesse personale. Un uomo comprende l’influenza che il benes­sere del paese ha sul suo proprio[.] [280]

Questo fa sembrare il “patriottismo razionale” come un’idea fredda nata da un calcolo consapevole. Ma l’amore per il proprio Paese e per i concittadini – come ogni amore – è un sentimento, è un affetto che ispira sacrificio e senso del dovere. Può un mero calcolo politico dare origine a un sentimento politico? Ovviamente no. Quindi su cosa si basa il senso di solidarietà degli americani? Secondo Tocqueville, su alcuni dogmi irriflessivi condivisi.

Gli abitanti degli Stati Uniti parlano molto del loro amore per la patria; confesso che non mi fido affatto di questo patriottismo ragio­nato, che si fonda sull’interesse… Ciò che mantiene un gran numero di cittadini sotto lo stesso go­verno è assai meno la volontà ragionata di rimanere uniti, che non l’accordo istintivo e in qualche modo involontario che risulta dalla similitudine dei sentimenti e dalla somiglianza delle opinioni. [438]

“Similitudine dei sentimenti e dalla somiglianza delle opinioni.” Tocqueville prosegue poi enumerando alcune delle supposizioni inconsce che gli americani fanno sul mondo. Nel regno morale, credono nell’autorità della ragione, ma anche nell’utilità dell’interesse personale. Per quanto riguarda la storia, credono nella perfettibilità umana, nell’inevitabilità del cambiamento e nella possibilità del progresso. Per quanto riguarda la politica, credono nell’assolutezza della libertà umana, dell’uguaglianza umana (almeno per i bianchi) e del diritto all’autogoverno. E in generale credono che l’istruzione sia una cosa positiva e l’ignoranza una cosa negativa. Se gli americani agiscano sempre in accordo con questi presupposti è una questione; ma che questi dogmi strutturino il modo in cui gli americani guardano all’esperienza e provano sentimenti al riguardo, è un’altra.

Dunque Tocqueville è convinto che il patriottismo antico e irriflessivo legato alla terra e alle persone stia morendo e non possa essere rianimato. Pensa però che un nuovo amore democratico per il Paese possa svilupparsi attorno a dogmi – pregiudizi, a dirla tutta – che fanno sì che le persone guardino il mondo allo stesso modo e che si aspettino le stesse cose da esso. Da bravo psicologo, sa che tutti amiamo i nostri piccoli dogmi tanto quanto amiamo noi stessi. Ciò che colpisce in America, pensava, è che gli americani associano il loro Paese e il loro concittadini a quegli stessi dogmi, e così arrivano ad amare il loro Paese e i loro concittadini come uno specchio di sé stessi. Questa è la più profonda intuizione psicologica di Tocqueville: il patriottismo moderno non è altro che un’estensione dell’amore di sé. Si sviluppa attraverso quello che gli psicoanalisti chiamano transfert. Ecco come lo descrive:

Gli uomini che vi­vono nelle democrazie amano il loro paese nello stesso modo in cui amano sé stessi, e trasferiscono le abitudini della loro vanità privata nella vanità nazionale. [719]

È questo quindi, pensa Tocqueville, uno dei fattori che tiene insieme i singoli americani. Certo, tre decenni dopo la sua visita scoppiò la guerra civile, dunque chiaramente l’identificazione democratica non fu sufficiente a tenere unita l’Unione. Ma come sanno i lettori di Democrazia in America, già negli anni Trenta dell’Ottocento Tocqueville anticipò la possibilità di una secessione o di una guerra. Mentre esaltava il consenso viscerale e l’orgoglio che univa gli americani bianchi, vedeva anche una minaccia all’unità nella pratica quotidiana della schiavitù. Era evidentemente moralmente sconvolto da quella pratica e dall’effetto che essa aveva sugli schiavi. Ma era anche molto attento alle differenze psicologiche che essa aveva creato tra élite del Nord e del Sud.

Dopo aver visitato entrambi, Tocqueville pensò di aver capito che mentre le idee modellano le nostre opinioni, la realtà sociale plasma le nostre abitudini e ciò che chiamava i nostri caratteri; e che da qui nasceva il possibile divario tra le nostre idee e i nostri caratteri.

Da noi si crede generalmente che la schiavitù dia a una parte dell’Unione interessi contrari a quelli dell’altra. Non ho affatto notato che sia così. La schiavitù non ha creato nel Sud interessi contrari a quelli del Nord; ma ha modificato il carattere degli abitanti del Sud e ha dato loro differenti abitudini… Così i pericoli, da cui l’Unione americana è minacciata, non na­scono né dalla diversità delle opinioni, né da quella degli interessi. Bisogna cercarli nella varietà dei caratteri e nelle passioni degli Ame­ricani. [440]

Poiché i nordici sono costretti ad essere autosufficienti, sostiene Tocqueville, il modo in cui vivono e le abitudini che hanno sviluppato sono compatibili, e sembrano anzi l’espressione stessa, dei dogmi condivisi dagli americani. Nel Sud, invece, i proprietari di schiavi vivevano una contraddizione. Non solo tra un principio (uguaglianza) e un altro (schiavismo), ma tra le convinzioni che condividevano con i nordici da un lato e gli usi e costumi derivanti dalla vita quotidiana dall’altro.

L’Americano del Sud, fin dalla nascita, si trova investito di una sorta di dittatura domestica; le prime nozioni che egli riceve della vita gli fanno conoscere che egli è nato per comandare, e la prima abitudine che egli contrae è quella di dominare senza fatica. L’educazione tende quindi potentemente a fare dell’Americano del Sud un uomo altero, pronto, irascibile, violento, ardente nei suoi de­sideri, impaziente degli ostacoli… [440]

In un certo senso, quindi, l’americano del sud parla come un democratico, ma percepisce la realtà e ha i sentimenti degli aristocratici francesi decadenti che Tocqueville era arrivato a disprezzare.

[L]’Americano del Sud non è preoccupato dalle cure materiali della vita; un altro si incarica di pensarvi per lui. La sua immaginazione, libera su questo punto, si dirige verso altre cose più grandi e meno esattamente definite. L’Americano del Sud ama la grandezza, il lusso, la gloria, il rumore, i piaceri, l’ozio soprattutto; nulla lo costringe a fare sforzi per vivere… [441]

Quindi ciò che separa realmente i cittadini del Nord da quelli del Sud è quello che Tocqueville chiama in francese “stili di vita” (les modes de vie):

Riunite due uomini in società, e date loro gli stessi interessi e, in parte, le stesse opinioni: se il loro carattere, la loro cultura e la loro civiltà differiscono, vi sono molte probabilità che essi non si accordino. La stessa osservazione è applicabile ad una società di nazioni. La schiavitù non intacca, dunque, direttamente la confederazione americana per gli interessi, ma indirettamente per i costumi. [441-442]

E così sembra che ci siamo imbattuti in una seconda fonte di unità nelle società democratiche. La prima era la comunità di sentimenti fondata su convinzioni condivise e indiscusse su questioni politiche ed altre al di là della politica. La seconda, come vedremo, sono gli stili di vita condivisi che sembrano compatibili con quelle convinzioni.

Per parlare in gergo medico, possiamo immaginare dunque due modi in cui il sistema immunitario di una società democratica può essere indebolito, rendendolo più suscettibile alle minacce esterne – come, oggi, il populismo, il nazionalismo, la xenofobia, l’autoritarismo carismatico e simili. Un modo sarebbe l’indebolimento della comunità di sentimenti e credenze. L’altro sarebbe l’allargamento del divario tra i modi di vita dei gruppi.

Se seguiamo Tocqueville, cosa che penso che dovremmo fare – anzi, penso proprio che sia giunto il momento di provare ad imitarlo – è tempo di porci la domanda che egli stesso si era posto: forse che una vecchia forma di patriottismo è scomparsa, per non tornare mai più? Questa era la sua visione dell’antico patriottismo. Dovrebbe pensarla così anche riguardo al moderno patriottismo democratico? Striamo assistendo alla sua agonia finale? E se è così, potremmo immaginare un fondamento diversa per quello che potremmo chiamare patriottismo postmoderno?

Alla fine del mio ultimo libro The Once and Future Liberal argomentavo a favore di una robusta educazione civica alla cittadinanza al fine di ri-coltivare un senso di destino americano comune e di dovere degli uni verso gli altri. Rileggendo quella conclusione, oggi mi colpisce più come una preghiera che come un’analisi. Dopo quattro anni di trumpismo negli Stati Uniti, e ancor più di ascesa di demagoghi autoritari e populisti nelle democrazie di tutto il mondo, inizio a pensare che stiamo assistendo ad un cambiamento storico più profondo all’opera: la morte del moderno patriottismo democratico. Non per ragioni superficiali di faziosità politica, ma per altre più profonde che riguardano il modo in cui pensiamo e viviamo oggi, e non solo negli Stati Uniti. Mi concentrerò sui prerequisiti del patriottismo democratico identificati da Tocqueville: uno stile di vita condiviso che produce caratteri e abitudini simili; e dogmi condivisi riguardanti la politica, la morale, la ragione e la storia.

Ciò richiederebbe un’elaborazione approfondita. Ma solo per avviare la conversazione, voglio menzionare brevemente due sviluppi sociali che conosciamo fin troppo bene, invitandovi però a considerarli dalla prospettiva psicologica di Tocqueville.

Chiamiamo il primo il divario degli stili di vita. Siamo tutti consapevoli che le distribuzioni del reddito in tutte le nostre democrazie sono diventate sempre più e selvaggiamente distorte. Siamo anche consapevoli che il privilegio meritocratico basato sull’istruzione ha aumentato e colorato la nuova divisione di classe economica. E ci sono ragioni per pensare che, data la natura dell’economia globale contemporanea e l’importanza dell’istruzione per esserne parte, questo divario possa diventare una caratteristica permanente delle nostre società.

Una conseguenza di questo divario è un crescente dislivello negli stili di vita che inizia a rivaleggiare con quello del XIX secolo tra aristocratici terrieri del Sud proprietari di schiavi e piccoli imprenditori del Nord (er semplificare le cose continuerò a limitare la mia analisi all’America bianca, anche se mi interesserebbe sapere se Jelani Cobb pensa che simili distinzioni di stili di vita si stiano sviluppando anche nella comunità afroamericana).

Il nuovo divario negli stili di vita non è esattamente quello che ci potremmo aspettare. La nostra supposizione antiquata è che gli americani della cosiddetta working class vivano vite tradizionali che ruotano attorno al lavoro, alla famiglia e alla chiesa, mentre l’élite meritocratica è meno convenzionale. In realtà, sono i meritocratici come noi che hanno maggiori probabilità di sposarsi e di rimanere sposati, di avere figli, di mantenere un lavoro fisso, di andare in chiesa e di votare. In quanto liberali possono non pensare a sé stessi o definirsi tradizionalisti, ma lo sono. Sono gli americani bianchi svantaggiati che si sposano di meno, che divorziano di più, che hanno meno figli (e più aborti), e che hanno meno probabilità di essere assunti o di andare in chiesa o votare.

In effetti, si potrebbe sostenere con un’esagerazione appena percepibile che l’élite meritocratica di oggi condivide molte delle caratteristiche degli aristocratici del Sud dell’anteguerra (Guerra Civile, ndr). Rievochiamo ancora cosa di loro diceva Tocqueville:

[L]’Americano del Sud non è preoccupato dalle cure materiali della vita; un altro si incarica di pensarvi per lui. La sua immaginazione, libera su questo punto, si dirige verso altre cose più grandi e meno esattamente definite.

Non sembra che parli di noi? Le persone della nostra classe hanno molti inservienti, anche se non vivono con noi. Queste persone, di cui molti immigrati, si prendono cura dei nostri figli, falciano i nostri prati, fanno la spesa per noi, riparano le nostre macchine (un chiaro segno della classe a cui appartenete, in effetti, è se quando qualcosa si rompe provate a ripararlo o ne comprate semplicemente uno nuovo – chiamatelo il divario Leroy Merlin). Qui a New York abbiamo persino persone che cucinano i nostri pasti e ci li consegnano direttamente a casa. (come disse una volta un mio amico, tutto il cibo di New York è cibo messicano). Come meritocratici, siamo sempre più protetti da gran parte della routine della vita quotidiana che i nostri genitori e nonni davano per scontata. Allo stesso tempo, gli americani svantaggiati non sentono più altro che quella routine, imposta dalla nuova economia e direttamente da noi stessi.

Al di là delle questioni di giustizia, è importante riconoscere che questo cambiamento nei nostri stili di vita cambia anche la nostra visione generale della vita e le nostre aspettative per il futuro. Come potrebbe non esserlo? Le nostre vite quotidiane – per non parlare dei nostri gusti in fatto di cibo, divertimenti, viaggi e simili – sono sempre più diverse e estranee a quelle dei meno privilegiati. Non era così nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, quando gli americani bianchi mangiavano grosso modo lo stesso cibo, guardavano gli stessi film, e andavano a messa più o meno alla stessa frequenza. E ben pochi di essi andavano all’università.

Non credo sia un’esagerazione dire, nei termini di Tocqueville, che oggi stiamo sviluppando due caratteri nazionali molto diversi. E non solo negli Stati Uniti, ma anche in altre democrazie che sono state scombussolate dall’economia globale. I meritocratici e i meno privilegiati possono professare lo stesso attaccamento a generici valori democratici – la libertà, l’uguaglianza, lo stato di diritto – ma iniziano a vedersi l’un l’altro come specie diverse (persino i nostri corpi appaiono diversi, francamente). E così è ancora più difficile per noi entrare nella testa dell’altro. Non perché abbiamo valori o interessi diversi, ma perché i nostri caratteri sono stati formati in modi molto diversi.

Questa è una delle ragioni per cui, credo, è così difficile per noi della classe meritocratica comprendere l’attaccamento profondo e viscerale che i meno privilegiati nelle nostre democrazie hanno nei confronti di demagoghi populisti come Donald Trump, Matteo Salvini o Jair Bolsonaro. Chiunque abbia coniato la battuta che Trump è l’idea di una persona povera di ciò che è una una persona ricca ha colto il cuore della questione. Il suo stile di vita sarebbe il loro se solo avessero i soldi per viverlo, credo. Prendere in giro Trump – la sua intelligenza limitata, il suo linguaggio arrogante e povero di vocabolario, il suo amore per la televisione e il fast-food – significa prendere in giro loro. Ecco quanto è profonda l’identificazione inconscia. E quanto è diventata debole l’identificazione inconscia degli americani bianchi l’uno con l’altro attraverso le linee di classe.

Ora guardiamo a un secondo sviluppo che Tocqueville avrebbe potuto riconoscere come un indebolimento del moderno patriottismo democratico. Egli sosteneva che i sentimenti di solidarietà degli americani dipendevano da quello che chiamava la loro “volontà ragionata di rimanere uniti che risulta dalla similitudine dei sentimenti e dalla somiglianza delle opinioni”. E una delle opinioni che riteneva cruciali era una fede irragionevole nell’autorità morale della ragione.

Non è un mistero il motivo per cui questa ipotesi potrebbe essere cruciale per legare insieme i cittadini di una democrazia. Se mettiamo in primo piano l’importanza della ragione nella discussione morale e politica, è molto più facile immaginare di lavorare per un accordo – o in mancanza di accordo, immaginare che le persone rispettino le opinioni degli altri nonostante le differenze. Un avversario che fornisce ragioni per la sua posizione è assai diverso da uno che semplicemente l’afferma e rifiuta di discuterne.

Condividiamo ancora questa convinzione inconscia nel ragionamento morale? Sempre meno, penso. Gli americani di ogni fedeltà politica ora sembrano più attaccati ad una sorta di emotivismo morale che fa dei sentimenti di ciascuno l’arbitro di ogni questione morale e politica, soprattutto se queste li riguardano personalmente. Qualsiasi discussione ragionata su tali questioni pertanto sembra a molti americani, e ai giovani in particolare, una minaccia all’autonomia personale. Rimasi molto sorpreso qualche anno fa quando, discutendo a lezione il Saggio sulla libertà di John Stuart Mill, scoprii che i miei studenti sostenevano generalmente la libertà di opinione, a una condizione: che non ferisse i sentimenti di nessuno.

Ovviamente l’emotivismo morale non ci impedisce, ai giovani in particolare, di esprimere giudizi morali categorici sugli altri, anche severi. Quello che manca è la sensazione che quei giudizi – compreso quello su noi stessi – siano aperti ad essere discussi e rivisti. La nostra assunzione psicologica di fondo è invece sempre più che le opinioni morali e politiche sono semplicemente un’emanazione del sé individuale (o della propria identità). E se a questo aggiungiamo anche la supposizione morale che tutto ciò che emana dalle profondità del sé autonomo è legittimo a priori, la base del discorso politico scompare. Tutto ciò che resta è una guerra moralistica ed emotiva di tutti contro tutti.

Ora, non ho detto niente di originale sugli stili di vita americani o sul discorso morale contemporaneo. Sono cose di cui parliamo tutto il tempo. Il mio intento è stato semplicemente quello di spingerci a pensarle come due elementi psicologici, tra molti altri, che potrebbero indebolire il nostro sistema immunitario democratico. Perché ci sono ottime ragioni per pensare che la dis-identificazione e l’emotivismo morale saranno con noi ancora per un bel po’ di tempo. L’economia globale ed Internet resteranno a lungo. Quanto all’emotivismo morale, suppongo che la domanda sia se esso scomparirà con l’avanzare dell’età dei giovani. Non ci conterei.

Prima della Guerra Civilie, Tocqueville dichiarò che “i pericoli, da cui l’Unione americana è minacciata, non na­scono né dalla diversità delle opinioni, né da quella degli interessi”. Derivano, pensò, da forze sociali e psicologiche più profonde. Penso sia altrettanto vero oggi. Ma a differenza di lui, trovo difficile immaginare quali forze subatomiche potrebbero tenere insieme le particelle elementari che stiamo diventando. Non ha senso essere nostalgici. Contrariamente a quanto pensano i nostri “conservatori nazionali”, l’antico sentimento nazionale non tornerà (vediamo invece un’ondata di versioni artificiali, populistiche e antidemocratiche di quel sentimento.) E contrariamente a quanto i liberali come me potrebbero sperare, il modo in cui viviamo e in cui pensiamo a noi stessi iniziano ad apparire incompatibili con il patriottismo moderno analizzato da Tocqueville.

Dove ci porta dunque tutto ciò? Possiamo immaginare un nuovo fondamento per l’unità compatibile con il modo in cui viviamo e pensiamo ora? Una sorta di patriottismo postmoderno? Mi dispiace dire che io non ci riesco.

 

Il testo originale dell’intervento è pubblicato su Reset DOC all’indirizzo https://www.resetdoc.org/story/mark-lilla-farewell-to-modern-democratic-patriotism/.

Traduzione dall’inglese a cura di Sofia de Benedictis.

Foto: Elena Seibert / Random House

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