Fare i conti con la pandemia, sotto le sanzioni. Voci dal focolaio Iran

Uno strano Nowrooz si prepara in Iran. Per la prima volta da decenni il capodanno persiano, che cade il 20 marzo, non vedrà le feste, le celebrazioni pubbliche, né gli scambi di regali e le visite tra vicini con noci e frutta secca che accompagnano la più importante festività dell’anno. Viaggi e vacanze sono cancellati, gli iraniani stanno chiusi in casa. Il paese è in piena emergenza sanitaria per il nuovo coronavirus Covid-19.

Con quasi 14 mila casi di infezione e 724 morti (al 15 marzo, secondo dati ufficiali), l’Iran è uno dei maggiori hotspot della pandemia, il secondo paese più colpito fuori dalla Cina dopo l’Italia. Molti per la verità sono convinti che i dati ufficiali siano sottostimati, sia per scelta deliberata che per la difficoltà di condurre test sistematici, e che la situazione reale sia ben più grave. Ma anche stando al quotidiano bollettino del ministero della sanità, il quadro è allarmante: con oltre un migliaio di nuove infezioni dichiarate ogni ventiquattr’ore e decine di morti ogni giorno, è chiaro che il contagio sta crescendo rapidamente. Non più tardi del 12 marzo il ministro della salute Saeed Namaki ha dichiarato al Consiglio di sicurezza nazionale che l’Iran è ancora lontano dal “picco” dei contagi e che il ritmo dei decessi continuerà ad aumentare verosimilmente fino a metà aprile.

Venerdì 13 marzo il capo delle Forze armate iraniane, maggiore-generale Mohammad Baqeri, ha annunciato che l’esercito provvederà a garantire che le strade restino vuote: “Nelle prossime 24 ore negozi, strade e autostrade saranno sgomberati, per decisione nazionale”, per contenere la diffusione del virus. Nessuna città è stata formalmente isolata, nessuna “zona rossa”, ma sulle strade che escono dalla capitale Tehran da domenica gli agenti controllano la temperatura corporea dei viaggiatori per fermare eventuali persone ammalate. È la misura più drastica annunciata fino a questo momento nella lotta all’epidemia di Covid-19.

 

Ritardi fatali

Troppo tardi, troppo poco? Molti in Iran hanno criticato le autorità per aver reagito con lentezza. Solo due settimane prima i dirigenti iraniani minimizzavano. Il Leader supremo, Ayatollah Ali Khamenei, lo chiamava il “cosiddetto virus”. Alcuni si erano spinti a definirlo un “complotto occidentale” per isolare la Repubblica islamica. Anche il moderato presidente della repubblica Hassan Rohani, che pure il 23 febbraio ha ordinato la chiusura delle scuole in anticipo sulle vacanze di Nowrooz, allo stesso tempo suggeriva che la situazione sarebbe tornata alla normalità in pochi giorni. Al contrario: il paese si è fermato, poco a poco. Sospese le preghiere del venerdì. Chiusi cinema e teatri e luoghi pubblici. La scorsa settimana anche l’ayatollah Khamenei ha annullato il consueto discorso di Nowrooz, che di solito pronuncia a Mashhad, terza città iraniana e sede di un importante mausoleo sciita. Secondo il comunicato diffuso dal suo ufficio il 9 marzo la decisione è stata presa “a causa della diffusione del coronavirus, seguendo la raccomandazione degli ufficiali sanitari… di evitare viaggi e assembramenti”.

Il nuovo virus ha colto il mondo intero di sorpresa, e l’Iran non fa eccezione. Qui però la nuova crisi si abbatte su un paese già isolato. Mette a dura prova un’economia già colpita dalla recessione e dalle sanzioni, e un sistema sanitario già sotto stress anche per la difficoltà di importare attrezzature e farmaci. E aggrava la profonda sfiducia che già serpeggia tra gli iraniani, dopo mesi di crisi interne ed esterne.

La prima notizia del Covid-19 in Iran risale al 19 febbraio, quando è stata annunciata la morte di due persone a Qom, città di oltre un milione di abitanti a sud di Tehran. È ragionevole pensare che il virus circolasse già da qualche tempo. L’Iran ha fitti contatti con la Cina; molti iraniani vi si recano per affari, centinaia di tecnici cinesi lavorano nel paese. La prima vittima in effetti era un uomo d’affari iraniano di recente tornato da Wuhan in Cina; sembra che la seconda fosse un medico. Pochi giorni dopo, il 24 febbraio, il ministero della salute ammetteva alcune decine di casi e 12 morti. Quello stesso giorno un deputato eletto a Qom ha dichiarato a un’agenzia stampa che i morti erano in realtà più di 50; è stato seccamente smentito dal viceministro della salute Iraj Harirchi (che due giorni dopo è risultato a sua volta infettato). Ma i segnali di allarme erano visibili; proprio in quei giorni la stampa iraniana pubblicava foto di file di sepolture appena scavate nel cimitero Behesht-e Masoumeh, a Qom, segno che le autorità si preparavano al peggio. E il peggio è arrivato.

Il virus si è diffuso rapidamente. Qom è la sede delle maggiori scuole teologiche dell’islam sciita, dove arrivano migliaia di studenti da tutto il paese e da tutto il mondo. È anche molto frequentata da dirigenti politici e religiosi che fanno la spola con la vicina Tehran: forse questo spiega perché tra i primi contagi dichiarati ci siano numerosi deputati, insieme a alti funzionari, la vicepresidente della repubblica Massumeh Ebtekhar, il viceministro della salute, uno dei più stretti consiglieri del Leader Supremo. Un altro dei suoi massimi consiglieri, Mohammad Mirmohammadi, è tra i primi morti registrati a Tehran.

Se Qom fosse stata subito isolata, hanno osservato molti, forse sarebbe stato possibile contenere la diffusione del virus. È opinione diffusa che l’establishment politico non volesse ammettere l’emergenza sanitaria alla vigilia delle elezioni per non diffondere allarme e alimentare l’astensionismo. Il 21 febbraio infatti l’Iran ha votato per rinnovare il parlamento, ed era previsione unanime che l’affluenza alle urne sarebbe stata bassa dopo mesi di crisi interne ed esterne: la repressione delle proteste di novembre, l’acuirsi della tensione con gli Stati Uniti e l’uccisione del generale Soleimani, lo sconcertante episodio dell’aereo ucraino abbattuto per errore. Certo l’esclusione di quasi tutti i candidati riformisti non ha stimolato la partecipazione – con o senza coronavirus. Così la nuova legislatura, dominata dagli ultraconservatori, è stata eletta con il voto meno partecipato nella storia della Repubblica Islamica: appena il 42% di affluenza, e solo il 25% a Tehran (le presedenti elezioni parlamentari avevano visto votare il 61 per cento degli elettori, e le presidenziali del 2017 il 73 per cento).

 

A mali estremi, estremi rimedi

Sta di fatto che solo il 5 marzo, due settimane dopo il primo decesso, il governo iraniano ha decretato una “mobilitazione nazionale” per combattere il coronavirus. Il ministro Saeed Namaki ha annunciato l’invio di 300mila operatori sanitari a rafforzare i centri di salute e aprire nuovi ambulatori in quartieri periferici e villaggi. Le Guardie della rivoluzione hanno cominciato a intervenire con personale e ospedali da campo. Agli iraniani sono arrivate le raccomandazioni che tutti conosciamo: lavarsi le mani, evitare luoghi affollati, rinunciare a spostamenti, auto-isolarsi in caso di sintomi, e così via. Mascherine e disinfettanti sono rapidamente scomparsi dai negozi (tutto il mondo è paese). La polizia ha denunciato casi di accaparramento e scoperto magazzini pieni di disinfettanti e forniture mediche introvabili, pronti a essere rivenduti a prezzi maggiorati. Il 9 marzo il potente capo della magistratura, il procuratore capo Ebrahim Raisi, ha annunciato il rilascio di 70 mila detenuti “non socialmente pericolosi”, la cui pena viene sospesa per alleggerire il rischio di contagio nelle carceri (inutile dire che tra questi non ci sono i detenuti per motivi politici, come segnala Human Rights Watch).

Nessuna città però è stata messa in isolamento: è stato solo sconsigliato di viaggiare. Il maggior numero di contagi si conta a Tehran (circa 15 milioni di abitanti, se si includono le città satellite), ma il virus ha raggiunto tutte le province del paese. I casi aumentano in particolare nelle province di Gilan e Madanzaran, nel nord. Infatti molti dalla capitale hanno pensato di approfittare della chiusura delle scuole e delle imminenti vacanze di Nowrooz per raggiungere i luoghi di villeggiatura del mar Caspio, dove molti tehranì benestanti possiedono seconde case. Quando le province del nord hanno deciso di bloccare gli arrivi, sono stati perfino segnalati tafferugli e intemperanze ai posti di blocco.

Sta di fatto che ancora il 9 marzo il coordinatore del comune di Tehran per l’emergenza sanitaria notava che le attività sociali non erano declinate come ci si poteva attendere, e la diffusione del virus non accennava a rallentare. Molti amministratori locali chiedevano blocchi più drastici. Il 9 marzo un certo numero di parlamentari ha pubblicato su Twitter l’appello a mettere in quarantena obbligatoria Tehran, Qom, e a mobilitare le grandi e potenti Fondazioni rivoluzionarie – quella dei Mostazafin (i “diseredati”), la Fondazione dell’Imam Khomeini e altre – per procurare e distribuire le attrezzature mediche necessarie. Forse la voce critica più alta in grado è stata quella del vice-presidente del parlamento, il riformista Masoud Pezeshkian, medico di formazione ed ex dirigente del ministero della sanità: ha avanzato dubbi sulle statistiche ufficiali e criticato il governo per non aver isolato per tempo Qom e Tehran.

Molto criticato per la sua scarsa presenza pubblica, il presidente Hassan Rohani ha ribattuto che il governo sta facendo quello che deve. Ha invitato i cittadini a “prendere sul serio la minaccia del coronavirus”. Ha escluso quarantene, ma ha ripetuto l’invito a uscire di casa il meno possibile.

 

Società allo stremo

Alla fine, gli iraniani hanno cominciato a cambiare i propri comportamenti. Sospesa la vita serale, sospese le attività culturali e quelle sportive. Chi può lavora da remoto o anticipa le ferie; molti uffici del resto chiudono per il Nowrooz. Funzionano i servizi pubblici, restano aperte le rivendite di alimentari – e non sono segnalate particolari corse a fare provviste. Anche gli altri negozi sono aperti, ma sono per lo più vuoti e desolati: non c’è traccia della frenesia da acquisti che di solito precede il Nowrooz, paragonabile alle settimane prima di Natale nei paesi europei. Piuttosto si espandono le vendite on-line, per la verità già molto diffuse soprattutto nelle grandi città.

Sui social media ora circolano inviti a restare a casa. Noti attori diffondono piccoli spot per rincuorare i concittadini. C’è chi condivide audiolibri; musicisti mettono su Instagram i loro brani.

Ma poi c’è la parte più fragile della società, la grande area del lavoro manuale e precario, chi teme di perdere il lavoro e “quelli che se non lavorano anche solo un giorno non portano a casa il cibo”, fa notare un testimone. “La crisi economica nell’ultimo anno o due ha fatto aumentare la povertà nel paese. E ora, queste sono le persone che non possono permettersi di stare a casa”. L’Iran ha un sistema pubblico di sussidi, e il presidente Rohani ha annunciato misure a sostegno dei lavoratori e delle imprese. Giorni fa il vicepresidente Eshaq Jahangiri ha ordinato un sostegno speciale per le donne capo-famiglia per far fronte all’emergenza. Nel frattempo si mobilita la beneficienza: nel paese esiste una forte tradizione di volontariato e associazioni benefiche, “e sono queste che si ora aiutano i più poveri, per quanto possibile”, osserva il nostro testimone.

Sui social media intanto continuano a circolare testimonianze su come i servizi sanitari siano allo stremo. Un team di esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha appena concluso una missione di supporto in Iran su Covid-19, elogiando le misure adottate finora, ma chiedendo anche di fare di più poiché “come in ogni paese colpito nel mondo, il sistema sanitario è messo a dura prova dall’epidemia”.

L’Iran ha un servizio sanitario tra i migliori della regione, con una rete di strutture decentrata e personale medico e paramedico di ottimo livello, tra cui molti specializzati all’estero. Ma ha un numero di posti letto per abitante appena sufficiente in tempi normali, e ora gli ospedali straboccano. Non solo, sconta una cronica carenza di attrezzature e farmaci, soprattutto a causa delle sanzioni unilaterali applicate dagli Stati Uniti: anche se in teoria queste non riguardano il materiale sanitario, nei fatti anche questo settore è colpito perché l’esclusione delle banche iraniane dal sistema bancario globale blocca i normali canali di pagamento. Il 27 febbraio il governo svizzero ha ufficialmente varato un meccanismo finanziario per permettere l’acquisto da parte iraniana di medicinali, cibo e forniture “umanitarie”, ma deve ancora decollare. “L’Iran è l’unico paese che stia combattendo l’epidemia sotto sanzioni”, ha ricordato il presidente Rohani in questi giorni.

Tehran ha chiesto al Fondo Monetario Internazionale un prestito d’emergenza di 5 miliardi di dollari. Chiede di poter attingere al fondo d’emergenza di 50 miliardi annunciato dal Fmi proprio per assistere i paesi membri nella lotta al coronavirus. In una lettera indirizzata il 12 marzo al direttore del Fmi, la signora Kristalina Giorgieva, il governatore della Banca centrale iraniana cita la “diffusa prevalenza” del virus e la necessità di misure urgenti per limitare la diffusione, trattare i pazienti, e mitigare l’impatto economico dell’epidemia (la richiesta iraniana sarà esaminata dal Consiglio d’amministrazione del Fondo, in cui gli Stati uniti hanno un’influenza determinante: l’esito non è affatto scontato).

Il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha anche rivolto un appello alle Nazioni unite per assistenza medica: in un post su Twitter ha pubblicato una lista di materiale di cui l’Iran ha urgente bisogno, dalle attrezzature per la respirazione assistita ai kit per il test del coronavirus, a mascherine e farmaci anti-virali. In una lettera al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, Zarif chiede inoltre che le sanzioni statunitensi vengano tolte, per permettere al paese di combattere la malattia.

Intanto il Procuratore generale Raisi ha annunciato che le sole notizie fondate sull’epidemia sono quelle pubblicate dal Comitato nazionale per la lotta al coronavirus, e diffondere commenti “allarmistici” sarà considerato un “atto contro la sicurezza nazionale”: ovvero, sarà punito con l’arresto (in effetti c’è già notizia di persone fermate o ammonite per i loro messaggi sul Covid-19, denuncia il Centre for Human Rights in Iran). Un estremo tentativo di controllare la narrazione dell’epidemia.

Dagli ospedali iraniani però continuano ad arrivare testimonianze di medici e paramedici costretti a lavorare perfino senza gli indumenti e guanti protettivi, che semplicemente mancano. L’ufficio del Leader ha annunciato la scorsa settimana che medici e infermieri morti durante la lotta all’epidemia saranno dichiarati “martiri”, definizione altamente simbolica per i credenti – ma anche pratica, perché permette ai familiari di ottenere risarcimenti e pensioni. Sui social media sono circolati commenti sarcastici, “dateci i guanti invece di chiamarci martiri”.

Altri messaggi invece sono rivolti ai cittadini e ai colleghi. Come quando sono circolati video di personale medico che balla in corsia, infrangendo il divieto a ballare in pubblico: tute protettive, camici e mascherine che oltre a proteggere dal virus celano l’identità dei protagonisti di questo estremo tentativo di mantenere un po’ di buon umore.

 

Foto: Atta Kenare / AFP

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