Dal Sinai a Tunisi, a Bamako
il jihadismo nordafricano alza il tiro

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Mentre alla Casa Bianca il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e il suo omologo francese François Hollande condannavano il terrorismo, ieri due attentati hanno colpito la Tunisia e l’Egitto, riportando l’attenzione sul nord Africa.

A Tunisi, alle cinque del pomeriggio, nella centralissima Avenue Mohamed V un attacco contro un autobus della guardia presidenziale ha causato almeno 12 vittime e 20 feriti. Secondo quanto riferito dal ministro della salute Said Aidi alla tv Wataniya, tutte le vittime sarebbero membri delle forze di sicurezza. In un messaggio televisivo rivolto alla nazione, il presidente Beji Caid Essebsi ha dichiarato lo stato d’emergenza nazionale per 30 giorni e il coprifuoco nella capitale.

Una misura straordinaria, ha sostenuto Essebsi, per una situazione eccezionale: la guerra al terrorismo. Solo poche settimane fa l’intelligence tunisina avrebbe smantellato un network di 16 jihadisti, pronti a colpire obiettivi turistici, politici, luoghi pubblici.

Da mesi il paese nordafricano è sotto il tiro dei jihadisti, alcuni dei quali fanno parte di quei 3.000 combattenti tunisini che secondo gli esperti avrebbero raggiunto la Siria e l’Iraq per combattere con lo Stato islamico, prima di tornare in patria. L’attentato di ieri – avvenuto a due passi dalla vecchia sede del Rassemblement constitutionnel démocratique, il partito del presidente Ben Ali, deposto nel gennaio 2011 in seguito alla “rivoluzione dei gelsomini” – segue quello dello scorso giugno, quando il ventitreenne Seifeddine Rezqui ha ucciso 38 persone in un resort turistico sulla spiaggia di Port Al Kantoui, vicino Sousse, 140 chilometri a sud di Tunisi. Mentre il 18 marzo 21 persone erano state uccise nell’attacco al museo Bardo.

L’attacco al Bardo è stato rivendicato il 31 marzo da Jund al Khilafah, “i soldati del Califfato”, un gruppo di islamisti armati che riconosce apertamente l’autorità di Abu Bakr al Baghdadi, il leader dello Stato islamico. Alcuni giorni fa “i soldati del Califfato” hanno ucciso un pastore di 16 anni, accusato di essere una spia dei militari tunisini. Oggi l’attentato è stato rivendicato dallo Stato islamico. La manovalanza, ancora una volta, sarebbe quella de “i soldati del Califfato”.

Poche ore prima dell’attentato nel cuore di Tunisi, una cellula di terroristi ha attaccato lo Swiss Inn Resort della città di El Arish, nel Sinai egiziano. L’hotel ospitava i funzionari e i giudici della commissione di monitoraggio per le elezioni parlamentari. Il secondo round delle elezioni, con cui verranno eletti i membri del Parlamento egiziano, si è chiuso lunedì. Alle 7 del mattino di martedì un’automobile carica di esplosivo ha cercato di forzare l’ingresso dell’hotel, la polizia ha respinto l’attacco, un attentatore è riuscito a entrare nella struttura e si è fatto saltare in aria, uccidendo almeno sette persone: due giudici, quattro poliziotti e un civile.

Attacchi contro giudici e funzionari governativi non sono insoliti nel Sinai, dove operano diversi gruppi terroristici, uno dei quali affiliato ufficialmente allo Stato islamico. Al gruppo dello Stato islamico nel Sinai si attribuisce la responsabilità dell’attentato dello scorso mese contro il volo A321 Metrojet che da Sharm el- Sheikh puntava a San Pietroburgo, in Russia.

Il bilancio delle vittime, 224, è stato celebrato sull’ultimo numero della rivista di propaganda dello Stato islamico, Dabiq, e giustificato come reazione alla decisione della Russia di bombardare le roccaforti del Califfo: «Il 30 settembre 2015 la Russia ha deciso di partecipare direttamente con le proprie forze aeree alla guerra. È stata un’incauta decisione di arroganza da parte della Russia, come se non fossero sufficienti le sue guerre contro i musulmani del Caucaso», si legge sul dodicesimo numero di Dabiq.

La fondazione ufficiale del gruppo dello Stato islamico nella penisola del Sinai, già noto come Ansar Beit al-Maqdis, risale allo scorso anno. Il 10 novembre 2014 alcuni gruppi jihadisti di cinque diversi paesi (Algeria, Egitto, Libia, Arabia Saudita, Yemen) hanno tributato “fedeltà” (bayat) ad al Baghdadi. Pochi giorno dopo, il 13 novembre, il Califfo gli ha risposto con un audio-messaggio, ufficializzando «l’espansione dello Stato islamico su nuove terre» e annunciando la creazione di cinque nuove wilayath (province).

Ha poi fatto un passo ulteriore, dichiarando illegittimi i gruppi jihadisti che operano in quei paesi ma che non riconoscono la sua autorità. Una dichiarazione che ha provocato la reazione risentita di alcune sezioni locali di al Qaeda. In particolare, quelle di al Qaeda nella penisola arabica (Aqab), la filiale più attiva e pericolosa dell’organizzazione fondata da Osama bin Laden negli anni Ottanta, e al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqim), nata nel 2007 da una derivazione del Groupe Salafiste pour la Prédication et le Combat.

Proprio alcuni militanti di al Qaeda nel Maghreb islamico sarebbero i responsabili dell’attacco di venerdì 20 novembre al Radisson Blu Hotel di Bamako, in Mali, che ha provocato almeno 22 morti.

L’attentato è stato rivendicato da Al Murabitoune, un movimento jihadista nato da una fronda interna ad al Qaeda nel Maghreb islamico, una branca ufficiale del network qaedista. Il nome dell’organizzazione, al Mourabitoune, rimanda all’impero berbero almoravide che nell’undicesimo secolo ha regnato dalla Spagna alla Mauritania. Nel 2013, quando ne è stata ufficializzata la nascita, il gruppo si è presentato come un movimento che opera prevalentemente nel nord Africa, in vista dell’unione di tutti i mujahedin, «dal Nilo all’Atlantico». A guidarlo c’è un veterano del jihad, Mokhtar Belmokhtar, alle spalle esperienze nei campi di addestramento in Afghanistan e una lunga militanza nelle organizzazioni islamiste algerine negli anni Novanta. Secondo il comunicato con cui al Mourabitoune ha rivendicato l’attentato di Bamako, l’operazione sarebbe stata compiuta in «cooperazione con i fratelli di al Qaeda nel Maghreb islamico».

L’assalto all’hotel di Bamako rientra in una delicata partita locale, in cui si intrecciano le resistenze al processo di pace inaugurato lo scorso giugno dopo il colpo di stato del 2012 e l’interventismo militare francese nella regione, ma rimanda anche alla competizione tra i due principali gruppi del jihadismo contemporaneo, al Qaeda e lo Stato islamico.

L’organizzazione del Califfo e quella diretta dal medico egiziano Ayman al Zawahiri, il successore di Bin Laden, sono ai ferri corti da tempo. Si contendono armi, reclute, soldi, consensi. Dalla loro rivalità nascono molti degli attacchi terroristici recenti. E molte divisioni perfino all’interno di uno stesso gruppo jihadista. L’ultima spaccatura riguarda al Shabaab, l’organizzazione terroristica somala che nel 2012 ha riconosciuto la leadership di al Qaeda. Due giorni fa uno dei leader ha avvertito i militanti del gruppo: «Taglieremo la gola a chiunque metta a repentaglio l’unità». Una risposta alle voci che danno molti militanti sul punto di cambiare casacca: da quella di al Qaeda a quella dello Stato islamico.

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