Con la vittoria dell’estrema destra
il grande sconfitto è Israele

Il problema non è la fine di ogni residua speranza di raggiungere una pace fondata sulla soluzione “a due Stati” in Terrasanta. Da tempo ormai la “causa palestinese” è retrocessa agli ultimi posti nelle agende delle potenze regionali e globali che intendono ridefinire, a loro immagine e somiglianza, il volto del Medio Oriente prossimo venturo. Il problema sta a Gerusalemme. Un problema che viene da lontano, ma che è deflagrato la notte del 1 novembre 2022, quando lo spoglio dei voti nelle elezioni legislative in Israele – le quinte in poco più di tre anni – hanno sancito il trionfo della destra ultranazionalista. Una destra identitaria, ideologicamente agguerrita, che ha sempre avuto in testa il disegno della “Grande Israele”. E questo disegno ora può farsi governo.

Per cogliere la portata del voto del 1 novembre è illuminante l’editoriale di Haaretz, assieme a Yediot Ahronot, il più autorevole quotidiano dello Stato ebraico. “Il grande vincitore delle 25esime elezioni nella storia d’Israele – annota l’editoriale – è il presidente di Otzma Yehudit, Itamar Ben Gvir, e il grande sconfitto è Israele. Sionismo religioso, la lista della Knesset che ha distorto il progetto sionista e lo ha trasformato da patria del popolo ebraico in un progetto di supremazia ebraica religiosa, conservatrice, di destra e razzista nello spirito del maestro e rabbino di Ben Gvir, Meir Kahane, è ora la terza forza politica in Israele”. E non è una forzatura giornalistica ma la fotografia nitida della realtà la conclusione a cui giunge il quotidiano progressista di Tel Aviv: “Negli ultimi anni, Israele è diventato terribilmente più estremo. […] Israele è ora sull’orlo di una rivoluzione di destra, religiosa e autoritaria, il cui obiettivo è decimare l’infrastruttura democratica su cui è stato costruito il Paese. Questo potrebbe essere un giorno nero nella storia di Israele”.

Un giorno che potrebbe rimettere in discussione vecchie alleanze regionali e definirne di nuove, fino a oggi inaspettate. Il voto di novembre pone con forza e drammaticità la “questione israeliana” come elemento dirompente per la stabilizzazione o l’esplosione del Medio Oriente. Il problema sta a Gerusalemme e non a Ramallah o a Gaza. Dai Paesi arabi, con l’aggiunta di Iran e Turchia, la questione palestinese è sempre stata usata strumentalmente, come pedina di un Risiko regionale. Gli “Accordi di Abramo” ne sono l’ultima conferma. Che viene avvalorata anche da alcuni silenzi in campo palestinese, come quello di Hamas.

Hamas continua ad essere legato a Teheran per via diretta e per il rapporto consolidatosi nel tempo con Hezbollah libanese. D’altro canto, a fronte di una crisi sempre più drammatica che investe la Striscia di Gaza e la sua popolazione – il 57 per cento degli oltre due milioni di palestinesi che lì vivono è oggi sotto la soglia di povertà – Hamas non può rompere con l’Egitto. Soprattutto quando il suo presidente-generale ha manifestato la volontà di tornare a gestire in prima persona la “questione palestinese”. E se la “conta dei manifesti” significa qualcosa, e lo significa certamente, non è un caso che negli ultimi tempi nella Striscia di Gaza il volto di Abdel Fattah al-Sisi è effigiato sui muri, nelle piazze, molto più di quelli, alquanto sbiaditi, dell’ayatollah Khamenei e di Recep Tayyp Erdogan. Resta il fatto che né l’Anp né Hamas hanno la forza per poter rivendicare l’autonomia e fare la voce grossa di fronte alle iniziative politico-diplomatiche che discutono dei palestinesi senza i palestinesi. Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Turchia, Iran, Qatar, Giordania, ora anche il Marocco…I fratelli coltelli arabi-musulmani sono in azione permanente. Per spartirsi ciò che resta della “causa palestinese” e metterci sopra il loro marchio.

Un Israele “fondamentalista” rimette in discussione relazioni in divenire o già in parte consolidate – Emirati Arabi Uniti, Bahrein, finanche Arabia Saudita – crea ulteriori difficoltà ai Paesi arabi che con Israele hanno accordi di pace – Egitto e Giordania – e ridà manovra d’azione a regimi militar-teocratici che fanno dell’antisionismo una sorta di arma di distrazione di massa rispetto ai gravissimi problemi interni, come l’Iran. E stavolta non basterà, concordano autorevoli analisti diplomatici e geopolitici, l’indubbia capacità manipolatrice del premier più longevo nella storia d’Israele,  Benjamin “Bibi” Netanyahu, per metterci una pezza.

Una considerazione preoccupata che trova nella reazione al voto dell’alleato di sempre d’Israele. Quello decisivo: gli Stati Uniti. L’ambasciatore statunitense in Israele, Tom Nides, ha avvertito in più di una intervista che la Casa Bianca respingerà qualsiasi tentativo del futuro governo israeliano di annettere la Cisgiordania palestinese come Netanyahu aveva provato a fare nel 2020 e che Itamar Ben Gvir, probabile ministro della pubblica sicurezza, intende inserire nel programma dell’esecutivo. «La nostra posizione è chiara: non sosteniamo l’annessione. Combatteremo qualsiasi tentativo in tal senso», ha detto Nides all’emittente pubblica Kan. I commenti dell’ambasciatore sono giunti ​​dopo che Yariv Levin, figura di primo piano della destra, aveva dichiarato che l’annessione della Cisgiordania è in cima all’agenda del futuro governo.

“Ci auguriamo che tutti i funzionari del nuovo governo israeliano continuino a condividere i valori di una società aperta e democratica, inclusi la tolleranza e il rispetto per tutti nella società civile, in particolare per i gruppi minoritari”, gli ha fatto eco il portavoce del dipartimento di Stato, Ned Price, in un briefing con la stampa. Barak Ravid, giornalista israeliano di Axios, ha rivelato di aver appreso da due funzionari americani che l’Amministrazione Biden «è improbabile che si impegni con il politico suprematista ebreo Ben-Gvir se sarà nominato ministro nel nuovo governo israeliano». Ha aggiunto che «la decisione ufficiale non è stata ancora presa ma se l’amministrazione Biden boicotterà Ben-Gvir, ciò segnerà uno sviluppo senza precedenti che avrebbe conseguenze negative per le relazioni Usa-Israele». Rivelazioni prontamente confermate da Washington.

 

La formazione di un governo marcatamente segnato dalla destra ultranazionalista potrebbe rimettere in discussione anche l’accordo, giustamente definito storico, raggiunto e sottoscritto l’ottobre scorso tra Israele e Libano, per la demarcazione della frontiera marittima e la conseguente spartizione delle risorse energetiche al largo delle rispettive coste. Un passo che apre le porte allo sfruttamento di nuovi giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale. Il presidente libanese Michel Aoun aveva giudicato «soddisfacente» la bozza dell’accordo, raggiunto grazie al mediatore statunitense Amos Hochstein che ha fatto diverse volte la spola tra Beirut e Tel Aviv. Accordo sottoscritto in via definitiva il 27 ottobre. «La presidenza libanese – si legge in un comunicato – ritiene che la formula finale abbia preservato i diritti del Libano sulle sue ricchezze naturali, in un momento importante per la popolazione».

Soddisfazione espressa anche dal premier israeliano uscente Yair Lapid: «Il progetto di accordo – ha twittato Lapid – è pienamente conforme ai principi presentati da Israele in materia di sicurezza ed economia. Questo è un risultato storico che rafforzerà la sicurezza di Israele, porterà miliardi nell’economia israeliana e garantirà stabilità al confine settentrionale». L’unica nota dissonante era arrivata dall’allora capo dell’opposizione Benjamin Netanyahu, oggi premier incaricato, che aveva definito l’accordo «una resa storica» agli Hezbollah. «Per oltre un decennio – ha detto Netanyahu – il mio governo non si è piegato alle minacce degli Hezbollah e non abbiamo avuto guerra. Poi – ha proseguito – è arrivato Lapid e in tre mesi si è arreso completamente a tutte le richieste”. Solo polemica elettorale? Forse, ma sono in molti a dubitarne.

“Nell’attuale realtà politica israeliana non c’è alcun dibattito politico tra opposti schieramenti. Le parole sinistra e destra rimbalzano da tutte le parti vuote di significato, utili solo come arma per infangare gli oppositori. Il termine ‘sinistra’, in particolare, viene costantemente utilizzato dagli attivisti di destra, specialmente quelli religiosi, come condanna automatica di chi non appoggia il primo ministro. Nell’attuale realtà politica israeliana non c’è invece alcun dibattito politico tra opposti schieramenti. Le parole sinistra e destra rimbalzano da tutte le parti vuote di significato, utili solo come arma per infangare gli oppositori. Il termine «sinistra», in particolare, viene costantemente utilizzato dagli attivisti di destra, specialmente quelli religiosi, come condanna automatica di chi non appoggia il primo ministro. Per evitare la prospettiva di un processo Netanyahu, da leader politico, si è trasformato in quello di una setta che, mediante minacce e lusinghe, argina l’opposizione dei suoi membri mentre il sistema politico si piega davanti a lui per garantirgli un’eventuale immunità annullando elezioni appena tenute, disperdendo il parlamento e indicendo nuove consultazioni elettorali entro tre mesi.

Nemmeno i più anziani ed esperti fra noi erano pronti a questo scenario di corruzione e di aperto attacco politico dei partiti di governo allo stato di diritto per far sì che il primo ministro non finisca in prigione. E tutto questo con il sostegno di una folla acclamante. Di fronte a tale realtà proviamo un senso di disgusto e di prostrazione. Non è più questione di posizioni politiche diverse e nemmeno di tendenziose panzane raccontate dal primo ministro e dai suoi assistenti che si succedono a ritmo incessante. Questa è una chiara e spudorata violazione dei valori di solidarietà che erano alla base della promessa sionista di riunire ebrei di diversa provenienza e livello in uno stato democratico.

Negli anni ’70 del secolo scorso due ministri del governo laburista furono sospettati di avere preso tangenti e ancora prima di essere processati si suicidarono per la vergogna. Il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin nel 1977 diede le dimissioni perché accusato di aver mantenuto un piccolo conto corrente all’estero, cosa allora vietata ai cittadini israeliani. Il presidente Moshe Katsav fu condannato a sette anni di carcere da un giudice distrettuale arabo per aver sessualmente molestato la sua segretaria. Il primo ministro Ehud Olmert finì in carcere per aver ricevuto finanziamenti illeciti per la sua campagna elettorale. Fino a ieri potevamo consolarci con il fatto che nella palude politica israeliana ci fossero ancora principi di giustizia e di uguaglianza. Ma ecco che ora il primo ministro calpesta spudoratamente la legge per salvare la propria pelle e conduce il paese a una nuova, aspra e costosa campagna elettorale a poche settimane di distanza dalla precedente. C’è quindi da meravigliarsi che persone come me, indipendentemente dalla loro posizione politica, provino un senso di avvilimento e di paralisi?”.

Queste considerazioni fanno parte di un lungo articolo di Abraham Bet Yehoshua, il grande scrittore israeliano scomparso il 14 giugno 2022, pubblicato da La Stampa l’8 agosto 2019. Riletto alla luce dei risultati delle elezioni del 1° Novembre, le amare considerazioni di Yehoshua suonano come profetiche. Una profezia di sventura. Avveratasi. Il Medio Oriente è già segnato da guerre “dimenticate”, ma reali, sanguinose, Yemen in primis. Da Stati falliti a rischio d’implosione, il Libano e l’Iraq, e da Stati tutt’altro che pacificati, come la Siria. Mentre nei Territori palestinesi sotto le ceneri di un’apparente immobilità crescono rabbia, sofferenza, disillusione, un mix esplosivo che potrebbe portare a una nuova rivolta. Israele uscita dalle urne è parte, e grande, di questo enorme problema mediorientale. Parte, e non soluzione.

Foto di copertina: Benjamin “Bibi” Netanyahu a un incontro nello Knesset, Gerusalemme, 24 maggio 2020 (foto di ABIR SULTAN/POOL/AFP)

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