Armeni, la memoria negata
nel centenario del genocidio

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Il centenario del genocidio armeno passerà alla storia, se non altro perché l’eco delle parole di Papa Francesco risuoneranno ancora potenti: nei giorni e negli anni a venire. Del discorso di Jorge Bergoglio s’è detto e scritto di tutto. Non è il caso di aggiungere altro. Il tema del centenario del genocidio parte, qui, da un’altra prospettiva. Da una località, a essere precisi. Gallipoli. Si trova sullo stretto dei Dardanelli. Lì, il 18 marzo di cent’anni fa, le forze francesi e britanniche, rinforzate da corpi australiani e neozelandesi, iniziarono con un bombardamento un’offensiva che nelle loro intenzioni avrebbe dovuto forzare lo stretto e spianare così la via verso Istanbul, costringendo alla resa gli ottomani, alleati del Reich tedesco. In questo modo il segno della grande guerra sarebbe cambiato bruscamente. Ma l’operazione fallì.

Lo sbarco terrestre avvenne dopo qualche settimana, il 25 aprile. Il giorno dopo il primo atto del genocidio armeno. A Istanbul, all’epoca chiamata ancora Costantinopoli, le autorità ottomane arrestarono centinaia di intellettuali armeni, deportandoli in Anatolia. Fu, quello, l’inizio di una violenta politica persecutoria. Dilagò e portò alla morte di un milione e mezzo di persone.

Il metz yeghern, il grande male, come lo chiamano gli armeni, fu la conseguenza estrema delle politiche dei Giovani turchi. Così era definito il gruppo al potere nell’ultimo scorcio di vita dell’impero ottomano, la cui plurisecolare dimensione multinazionale era ormai evaporata, in ragione delle perdite territoriali originate dalle guerre balcaniche. Alimentate, a loro volta, dalle logiche predatorie delle potenze occidentali e della Russia. Questo vuoto spalancò il campo a una visione etnica e nazionalista, strutturata sull’idea di purificazione nazionale e sull’esigenza di serrare i ranghi davanti all’offensiva delle potenze europee. Due fattori tra loro intrecciati. I Giovani turchi se ne fecero interpreti con la teoria e i fatti. L’impero ottomano, in altri termini, doveva rinascere turco.

Il fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk, che militò nei Giovani turchi prima di distanziarsene e operare la grande rottura repubblicana, ha proseguito la costruzione e la narrazione di questa identità fondata sulla visione nuova e radicale del noi. Il massacro degli armeni divenne tabù.

Il genocidio condiziona tanto l’essenza intima della Turchia moderna, quanto quella dell’Armenia. Nel primo caso con il fardello della negazione, nel secondo con quello del grido di dolore e d’accusa. Non potranno essere scissi, fintanto che i turchi non riconosceranno, nero su bianco, il genocidio. Il rischio, che potrebbe dipendere anche dallo smarrimento del senso della misura da parte armena, è che nel frattempo l’accusa venga urlata più forte del dolore.

La battaglia degli anniversari

Che c’entra Gallipoli con il genocidio armeno? Il fatto è che quest’anno s’assiste a un singolare paradosso: i due centenari vengono celebrati lo stesso giorno, il 24 aprile. La Turchia ha spostato le commemorazioni di Gallipoli: di un mese abbondante rispetto al primo bombardamento anglo-francese o di un giorno, se invece si prende in considerazione l’inizio dell’offensiva di terra.

Una follia diplomatica, ha denunciato Robert Fisk, influente opinionista del quotidiano londinese The Independent. Non è che un tentativo artificioso e vergognoso di oscurare il genocidio armeno, ha sostenuto il giornalista, spiegando che due anni fa la Turchia ha celebrato la ricorrenza il 18 marzo e aggiungendo che Australia e Nuova Zelanda, che negli scontri di Gallipoli vedono uno dei momenti fondanti della patria, onorano i loro morti ogni 25 aprile. Insomma, non ha senso modificare il calendario della memoria.

Di registro differente è l’opinione espressa dalla giornalista turca Merve Sebnem Oruc sul sito di Al Jazeera. La sua tesi è che la decisione delle autorità di Ankara si fonda sulla volontà di esprimere un gesto di compassione e proseguire su una strada che, benché non abbia ancora condotto al riconoscimento del genocidio armeno, ha stimolato quanto meno uno scatto in avanti. Merve Sebnem Oruc cita a questo proposito il discorso pronunciato Recep Tayyip Erdogan il 23 aprile dello scorso anno, quando era ancora primo ministro. L’attuale presidente turco offrì le scuse del paese agli armeni in merito agli eventi nel 1915. Parlò inoltre di dolore condiviso e necessità di riconciliazione. È alla luce di questo che – scrive la giornalista su Al Jazeera – il presidente armeno Serzh Sargsyan, rifiutando l’invito a prendere parte alle cerimonie a Gallipoli, ha perso un’occasione.

Vietato generalizzare

Da parte armena l’invito, come la sovrapposizione tra Gallipoli e il grande male, è stato però interpretato come una grave provocazione. Mentre il discorso di Erdogan dell’anno prima fu bollato come una falsa rottura, in quanto il termine genocidio non fu minimamente scomodato e l’oratore parlò genericamente di sofferenza comune, come se turchi e armeni, in quello scorcio violentissimo di ‘900, avessero subito sulla propria pelle le stesse cose.

Nulla di strano. Le letture della storia confliggono. Come le visioni giornalistiche. Lo dimostrano gli stessi articoli dell’Independent e del sito di Al Jazeera. Ma l’editoriale di Fisk, benché chiaro nell’impianto, non è di una nettezza assoluta. Si accusa il governo turco di giocare con il genocidio, ma evitando di giungere alla conclusione, semplicistica e ingiusta, secondo cui i turchi sono collettivamente negazionisti. Nel suo commento Fisk menziona la coraggiosa battaglia di alcuni storici turchi che, sfidando i tabù e le leggi, hanno fatto ricerca e sulla scorta delle fonti sono riusciti a fare luce su quanto la ragione di stato ha tenuto nascosto o manipolato.

Non è l’unico esempio virtuoso. Basterà ricordare quello dello scrittore Ohran Pamuk, che parlò del genocidio armeno nel 2005 e fu incriminato sulla base dell’articolo 301 del codice penale. Oppure le migliaia di persone che presero parte al funerale di Hrant Dink, il giornalista turco-armeno assassinato nel 2007. Importante, l’anno scorso, è stata poi l’uscita della pellicola Il padre, firmata da Fatih Akin, regista di successo internazionale. È incentrata proprio sul genocidio armeno. La società turca non è statica. Il genocidio armeno resta un macigno difficile da smuovere, ma qualcuno tenta di spingerlo via e la consapevolezza che molti turchi abbiano origini armene – origini a lungo e spesso auto-negate – s’è ormai fatta abbastanza largo nella società.

Le stesse istituzioni, anche se con molta più cautela, hanno inciso una tavola fino a ieri ritenuta immodificabile. Nel 2011 il governo ha restituito alle minoranze religiose i beni confiscati negli anni ’30. Nello stesso anno c’è stata l’inaugurazione della chiesa armena di San Giragos, a Dyarbakir. Rimasto a lungo in rovine e situata in quell’area dell’Anatolia che rappresenta la culla della cultura armena, l’edificio è divenuto il simbolo di una stagione che non può essere definita nuova, ma che forse ha qualche elemento di diversità rispetto al passato. In questo senso anche il discorso di Erdogan del 2014 è stato importante. Non sono mancati limiti e reticenze, né il rifiuto del presidente armeno di recarsi a Gallipoli può definirsi un’occasione mancata (qui l’articolo di Al Jazeera è debole). Ma appunto, la Turchia non è al fermo immagine.

Erdogan e gli armeni

Si può discutere sui motivi che hanno portato l’attuale establishment politico islamico a compiere questi passi. Uno può essere il processo di armonizzazione delle leggi con l’Europa, che sale e scende come l’ottovolante, ma ha sortito comunque dei risultati. Uno è proprio la restituzione dei beni alle minoranze religiose. L’altro è la rimodulazione del codice penale, all’articolo con cui Pamuk è stato a suo tempo incriminato.

Un altro fattore è il dialogo con i curdi. Da tempo si parla di piano di pace, senza arrivare a risultati. Ma il processo ha favorito una liberalizzazione dei diritti curdi, più che altro in ambito culturale, della quale hanno beneficiato anche gli armeni. Fa scuola, sotto questo aspetto, il caso della chiesa di Diyarbakir. Quest’ultima è situata, come detto, nel luogo delle radici armene. Ma è anche la “capitale” dei curdi di Turchia.

Potrebbe pesare, infine, anche il ripetuto richiamo di Erdogan all’epopea ottomana, che fu informata, al netto del primato dell’Islam, da una cultura multinazionale e di coabitazione. Un’eredità che, pur se la retorica ottomana di Erdogan è fondamentalmente ispirata dalla voglia di grandeur e da questioni di religiosità politica, non è facilmente schivabile.
Ora, al di là della crisi di questi giorni, tutto questo potrebbe persino portare a pensare che la Turchia, sul genocidio armeno, stia facendo progressi enormi. Che poche spanne la separino da una rivoluzione clamorosa e dalla conseguente normalizzazione dei rapporti diplomatici con l’Armenia, vincolati proprio al discorso del genocidio. Ma non bisogna cadere in tentazione. Il riconoscimento del genocidio è cosa ancora lontana nel tempo. Sempre che prima o poi avvenga.

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