L’attacco contro la CEU come parte
della politica illiberale di Orban

Academic Freedom & Politics 1

Da Reset Dialogues on Civilizations

Negli ultimi mesi l’Ungheria, adagiata nella sonnolenta Europa danubiana, è tornata al centro dell’attenzione internazionale. In particolare, ad accendere i riflettori su Budapest sono state due leggi, approvate a poca distanza l’una dell’altra, che hanno fatto parlare di un attacco deliberato rispettivamente alla libertà accademica e al mondo delle ONG.

Nell’aprile 2017 il governo ha approvato una legge che, imponendo una serie di condizioni per la permanenza nel paese, limita fortemente l’attività delle università straniere sul suolo ungherese. Il provvedimento è stato subito ribattezzato “lex CEU”, da quello che era evidentemente il suo bersaglio prescelto, la Central European University che dal 1991 opera in Europa orientale, prima a Praga e poi a Budapest.

Un paio di mesi dopo, nel giugno 2017, a finire nel mirino è stata la società civile, con la legge “anti-ONG” che impone alle organizzazioni beneficiarie di finanziamenti esteri di essere immediatamente identificabili, rendendo esplicita in questo modo la loro stigmatizzazione.

Comune ai due provvedimenti è la guerra che il premier Viktor Orban e il partito al governo Fidesz hanno dichiarato al finanziere e filantropo statunitense di origini ungheresi George Soros e alla sua idea di open society, mutuata dalle teorizzazioni di Karl Popper.

Infatti, la Central European University è stata fondata proprio da Soros all’indomani del crollo del blocco sovietico, con l’idea di sviluppare una classe dirigente in grado di facilitare la transizione dei paesi ex socialisti alla democrazia.

La società civile ungherese, invece, riceve cospicui finanziamenti dal network di fondazioni Open society, fondato e presieduto dallo stesso Soros, che è particolarmente attivo nell’ambito dei diritti delle minoranze, dello stato di diritto e della libertà di espressione.

Come però questo attacco debba essere contestualizzato sia all’interno della politica interna ungherese che nello scenario internazionale è materia di discussione.

Sul piano internazionale gli ultimi mesi hanno coinciso con un avvicinamento del governo ungherese alla Russia, nemico storico fin da prima dell’invasione del 1956, coronato da una visita di Putin a Budapest nel febbraio 2017.

Mosca è ormai da anni la madrina delle campagne anti-Soros che hanno trovato fertile terreno soprattutto in quei paesi in cui la destra basa la propria visione politica su un’idea di fratellanza ortodossa, come la Serbia o più di recente la Macedonia.

In questi contesti l’accusa di ricevere finanziamenti da Soros va di pari passo con quella di essere strumento di un’ingerenza esterna, una cospirazione internazionale che vorrebbe imporre valori estranei a quelli nazionali.

L’ascesa dei populismi est-europei trova nella campagna anti-Soros il trampolino per una lotta senza quartiere ai demoni del multiculturalismo, della globalizzazione, della migrazione, a favore di una concezione nazionale identitaria, all’interno della quale i popoli dell’Europa orientale sarebbero bastioni a difesa della cristianità ma allo stesso tempo impermeabili alle degenerazioni che affliggono la civiltà occidentale.

L’ascesa alla Casa Bianca di Donald Trump nel 2017 ha probabilmente fatto prendere vigore all’ipotesi che la nuova amministrazione non si sarebbe impegnata attivamente in difesa delle attività filantropiche di Soros, sostenitore di Hillary Clinton nelle ultime elezioni presidenziali e che addirittura avrebbe potuto mostrare sintonia con l’Ungheria di Orban.

Tuttavia, secondo molti osservatori l’attivismo legislativo ungherese sarebbe spiegabile innanzitutto in relazione allo scenario politico interno.

Il partito Fidesz, che proviene originariamente da una piattaforma liberale, è ritornato al potere nel 2010 con una maggioranza schiacciante dei 2/3 – poi riconfermata nelle elezioni del 2014 – e ha iniziato a trasformarsi da formazione conservatrice sempre più verso l’estrema-destra.

Con un’abile manipolazione del panorama mediatico – che ha portato in particolare alla chiusura dello storico quotidiano di sinistra Nepszabadsag, emendamenti costituzionali e aperte violazioni della legislazione sul diritto di asilo, Orban ha gettato le basi per una nuova costruzione ideologica che lui stesso ha definito “democrazia illiberale”, basata su un approccio nazionale e selettivo ai cosiddetti “valori liberali”, che affonderebbe le radici nel passato ungherese.

“Il governo Orban ha fatto convergere l’eredità del regime di destra di Horthy al potere tra le due guerre e quella del regime socialista di Kadar” commenta lo storico ungherese Viktor Pal, lettore presso l’Università di Helsinki. “Da qui l’idea che chiunque sia contro il governo ungherese sia il nemico, ma anche che l’Occidente stia vivendo la sua agonia e quindi un modello vada cercato più a Est”.

Un progetto di destra identitaria, che vive della sindrome dell’assedio. L’Ungheria è un piccolo paese, viene spesso ripetuto, in particolare a cause delle perdite territoriali del trattato del Trianon successivo alla prima guerra mondiale, e sarebbe minacciato da nemici esterni, come un tempo lo era stato dagli ottomani.

Uno di questi nemici è appunto Soros, nato da famiglia ebreo-ungherese a Budapest 87 anni fa, che viene presentato come simbolo della speculazione internazionale, facendo leva più o meno velatamente su stereotipi che trovano le proprie radici nell’antisemitismo degli anni ‘30.

Ma il nemico principale sono profughi e migranti che il governo ungherese così attivamente ha cercato di contrastare non solo creando barriere fisiche – il muro, ma soprattutto decostruendo dall’interno il regime internazionale dell’asilo alla guida di un fronte ideologico anti-profughi.

Una delle accuse rivolto alla Open society sarebbe quello di pianificare un’invasione dei migranti, ben riassunta in una dichiarazione proveniente Fidesz, secondo la quale Soros avrebbe dichiarato guerra all’Ungheria, volendo abbattere il muro.

Tuttavia, come molti hanno fatto notare, l’insistenza nel bollare la CEU come l’università di Soros fa perdere di vista quello che questo centro accademico rappresenta oggi. L’attacco alla CEU, infatti, si scaglia contro un bastione di libertà di pensiero all’interno di un paese sempre più assoggettato a un pensiero unico dominante e fa seguito a numerosi tentativi di mettere sotto controllo il sistema delle università statali ungheresi.

L’Università centro-europea è stata fondata con l’intento di formare una classe dirigente nei paesi della nuova democrazia in un clima di ottimismo all’indomani della caduta del muro di Berlino, nella speranza che l’Europa orientale, da quel momento in poi, avrebbe seguito una strada ben definita, verso un futuro di libero mercato, democrazia e rispetto dei diritti umani.

A guardare in prospettiva storica una parabola di questo tipo appare tutto fuorché scontata, come dimostrano le posizioni odierne del gruppo di Visegrad sulla maggior parte degli affari europei. Il fatto che qualcosa sia andato storto pare essere simboleggiato anche dalla parabola dello stesso Orban, che da studente aveva usufruito di una borsa di studio da parte del network di Soros per perfezionare i propri studi a Oxford.

È lecito anche chiedersi se l’idea di una missione esportatrice di valori da parte del mondo occidentale non abbia accelerato un processo di chiusura e di ripiego su un’idea di tradizione, autoctona, patriarcale e autoritaria.

Tuttavia, nel frattempo la CEU è diventata molto altro e si è imposta come uno spazio di circolazione di idee che ha portato una parte del mondo accademico della regione a familiarizzare con nuovi trend e a rompere quell’isolamento che era stato eretto dalle barriere Est-Ovest durante la Guerra fredda e dallo scenario di guerra degli anni ‘90 nella ex Jugoslavia.

E, non da meno, ha portato una boccata d’aria fresca a sistemi accademici che si sono arrogati, dopo il 1989, il ruolo di produttori di narrazioni etnocentriche.

Inoltre, con l’introduzione di un ricco filone di studi come i gender studies, senza pari nella regione, e la presenza tra il corpo docente di un discreto numero di intellettuali di sinistra, ha creato un safe space per il pensiero radicale nell’area, ormai ai margini nelle università statali est europee.

Senza contare che, dal momento che un alto numero di studenti di master e dottorato usufruisce di borse di studio, la CEU ha offerto un’istruzione di alto livello e una sostenibilità economica a molti giovani della regione, in un periodo in cui le tasse universitarie sono aumentate esponenzialmente in tutti i paesi.

Questo spiega perché a difesa della CEU si siano levate numerose voci, appartenenti ad un range di posizioni che vanno dalla sinistra radicale fino ai teorici del pensiero liberale. Oltre a 27 premi Nobel e al mondo universitario sia internazionale che ungherese. Le due camere del congresso USA, in una dichiarazione bi-partisan sostenuta sia da democratici che repubblicani hanno chiesto all’Ungheria di sospendere il suo attacco contro la CEU. La Commissione Europea ha iniziato una procedura di infrazione nei confronti dell’Ungheria, sostenuta in questo anche dal Parlamento Europeo.

Volendo trarne una riflessione, la mossa di Orban contro la CEU potrebbe essere vista come un autogol che, più che portargli consenso, gliene avrebbe fatto perdere, come sembrerebbero dimostrare alcuni sondaggi. Infatti, contro la “lex CEU” decine di migliaia di persone sono scese in piazza, nelle manifestazioni più ampie che l’Ungheria abbia mai visto da quando Orban è al potere, con 80.000 presenze secondo gli organizzatori. “Questi numeri dimostrano quanto questa università significhi per la città di Budapest” riflette Jenna Althoff, dottoranda in Scienze politiche. “Infatti, spesso alla CEU si ha l’impressione di trovarsi all’interno di una bolla, sia gli studenti che lo staff non comunicano molto con il mondo esterno, in primo luogo perché non conoscono la lingua. Ecco, le manifestazioni a supporto della CEU hanno rotto quella bolla”.

Sono stati in molti nel mondo accademico ad alzarsi a difesa della CEU – scandendo lo slogan “I stand with CEU” – non solo per il valore che l’istituzione ha in sé ma forse anche perché temono per sé stessi in un futuro più o meno lontano: di essere travolti da Fidesz, se ungheresi, di finire schiacciati dal trend transnazionale delle democrazie illiberali, se stranieri.

Il futuro della CEU è a tutt’oggi incerto. Nonostante le offerte pubbliche provenienti da altre città, l’università rimarrà a Budapest per l’anno accademico 2017/2018 – approfittando anche del fatto che la nuova legge non entrerà in vigore nell’immediato – mentre per quello successivo le previsioni sono ancora attaccate a un filo. Le voci si rincorrono ma una cosa è certa. Se perdesse la CEU, Budapest e i suoi cittadini perderebbero molto.

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