«Nazioni, individui: ogni crisi ci rafforza». Intervista a Jared Diamond

Crisi. Come rinascono le nazioni, di Jared Diamond, esce ora a 22 anni dal suo volume più famoso,  Armi, acciaio e malattie. Quella era la risposta di un fisiologo alla «domanda di Yali», un nativo della Nuova Guinea: perché la ricchezza è fiorita in Occidente e non lì da loro? O, se preferite, perché Cortès ha conquistato l’impero azteco con pochi soldati contro decine di migliaia e non viceversa? La elaborata Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni (era il sottotitolo), era la risposta è uno di quei «libri da salvare» per diverse generazioni di lettori. Ma questo sorprendente autore americano, ora 82 anni, che è anche geografo, antropologo, ornitologo e, alla prova dei fatti, storico, ha continuato ad applicare il suo metodo multidisciplinare alla storia più recente e alla politica affrontando la questione dell’ambiente (con Il collasso, nel 2005) e ora propone di esaminare, con l’ultima opera, le vicende dei popoli confrontandole con la vita degli individui. Il parallelo individuo-nazione, che sarebbe tanto piaciuto a G.B Vico, si applica a sette casi di studio, a sette grandi crisi: la Finlandia in guerra con l’Urss, il Giappone ottocentesco dei Meiji, il Cile di Pinochet, l’Indonesia degli anni Sessanta, la Germania e l’Australia dopo la guerra, gli Stati Uniti oggi.

Crisi è la parola chiave che descrive fasi della vita di una persona come di una nazione: possono essere lunghe o rapide, provocate da cause esterne o interne, da una catastrofe naturale o da devastanti vicende umane. Si sa che la parola può includere strazianti sofferenze, ma anche opportunità. «Quello che non ti uccide ti fa più forte». Parole di Nietzsche. Lo ripeteva anche Churchill: «Mai sprecare una buona crisi». Citazioni evocate dall’autore che ascoltiamo dal suo studio a Los Angeles.

Come è nato questo libro?

È nato da due ispirazioni: la prima dai paesi dove ho vissuto e di cui conosco le lingue, come per esempio la Germania dove ero quando hanno eretto il muro, la Finlandia dopo la guerra, l’Indonesia dopo il genocidio e anche il Cile dopo la dittatura; la seconda viene da mia moglie. Quando ci siamo sposati nel 1978 si stava specializzando in un settore della psicologia clinica che si chiama terapia della crisi, una disciplina nata nel 1942 in occasione del gravissimo incendio del locale Cocoanut Grove, a Boston, che racconto nel libro.

Morirono in 450, padri, madri, figli, mariti, fratelli.

Si tratta in quei casi di assistere persone che devono affrontare perdite gravi e improvvise, ma la terapia vale anche per la rottura di una relazione individuale. Non si tratta della consueta analisi che dura anni. Si deve agire in fretta perché c’è un rischio di suicidio e la durata tipica è di sei settimane. I terapisti coinvolti devono settimanalmente esaminare i progressi e i rischi. I racconti di mia moglie, che certo non mi faceva i nomi dei pazienti, mi hanno fatto pensare ai paralleli con le crisi nazionali, ai fattori che predispongono ad uscire dalla crisi oppure no.

Non possiamo qui raccontare tutti e sette i casi. Colpiscono quelli che sono più famigliari per i lettori italiani: la crisi cilena, Pinochet. L’incapacità di trovare un compromesso in Cile è alla radice della politica italiana del «compromesso storico» alla fine degli anni Settanta.

L’incapacità di trovare un compromesso è anche quello che più spaventa noi americani oggi, è quello che più sconvolgeva anche i miei studenti quando ne ho parlato nei corsi degli ultimi anni alla UCLA. Il Cile mostra proprio un caso di quello che può accadere a un paese che è stato una democrazia per duecento anni e che può precipitare nell’incubo della sua fine in un tempo molto breve. Quello fu un caso di sterminio dell’opposizione, perché non si riuscì a fermare il processo di radicalizzazione del conflitto politico. E la polarizzazione politica è oggi il maggior problema degli Stati Uniti.

Il paragone è molto forte!

Ma quando leggiamo sui giornali che il presidente di un paese chiede a un paese straniero di investigare sull’ex vicepresidente, ora suo avversario, si tratta di qualcosa di terribile. Accade in regimi ben lontani dalla democrazia che si mettano in carcere gli avversari, non negli Stati Uniti o in Italia.

Perché in certi casi la politica democratica sembra incapace di moderare il contrasto e fermare la corsa verso la polarizzazione?

Quello che sta accadendo negli Stati Uniti ma anche in misura crescente in Europa non è semplice da spiegare. Posso andare per tentativi. Avendo vissuto a lungo in Nuova Guinea, so come ci  rapporta gli uni con gli altri in una società tradizionale senza telefoni e televisione, faccia a faccia, da noi la maggior parte delle interazioni avviene attraverso telefono e sms. E se non ci si guarda in faccia è più facile passare i confini della decenza nel linguaggio. Metà della mia risposta è dunque: il collasso delle relazioni personali. L’altra metà è che quell che consente a oppositori politici di sedersi a un tavolo e trovare un terreno comune è la condivida identità nazionale. In paesi con una forte identità nazionale conservatori e progressisti si riconoscono come cittadini dello stesso paese. L’indonesia aveva una debole identità nazionale, nel 1965 non si pensavano come concittadini, questo rese più facile il massacre di indonesiani ad opera di indonesiani.

Lei spiega nelle sue storie che ci sono leader capaci di portare a soluzione le crisi più difficili. Nel caso degli Stati Uniti esemplifica con un dialogo tra due americani. Uno chiede: «Quando saranno capaci gli Stati Uniti di prendere sul serio i loro problemi?». E l’altro: «Quando gli americani ricchi e potenti cominceranno ad avere paura per la propria incolumità fisica».

E’ così. Un fattore che spinge a evitare il compromesso è la percezione che tu possa prevalere sugli altri e avere via libera e così fino in fondo fino a sterminare l’opposizione. D’altra parte se capisci che non puoi prevalere, che non hai alternative, devi sederti con gli avversari e negoziare. Nel Cile del 1973, la destra e l’esercito pensarono di poter eliminare fisicamente la sinistra e lo fecero. Dall’altra parte la sinistra di Allende, tra il 1970 e il ‘73 includeva radicali che si armavano, ispirati anche da Fidel Castro pensava a sua volta di poter prevalere. Quando una parte pensa di potercela fare da sola, la possibilità del compromesso si allontana.

La prima tappa, il fattore primario necessario per avviare l’uscita dalla crisi è riconoscere il male, così come in un matrimonio riconoscere che non funziona o per un alcolista riconoscere di essere tale. Lei parla molto anche di Italia, un paese che fa fatica a riconoscere l’evidenza della sua crisi: il debito, l’invecchiamento, la bassa produttività, l’inefficienza della pubblica amministrazione. E la crisi inglese che lei paragona a una lunga malattia non è anche un caso del genere? Perché non si vuole vedere?

Denial è la parola inglese, negare. Quando la situazione è difficile la prima inclinazione è quella di negare che ci sia un problema. Ma il primo passo indispensabile è quello. Segue il secondo: accettare la responsabilità. Negli Stati Uniti, la maggior parte di noi non vuole riconoscere che gli Stati Uniti stanno andando verso una crisi. Nel caso Italia, dove sono stato per cinque anni per insegnare alla Luiss, il problema era cronico ed è diventato più evidente negli ultimi due anni. Quindi ora siete più vicini degli americani a riconoscerlo. Ma il secondo passo è quello della responsabilità. E qui Italia e USA si assomigliano: Trump, invece di accettare l’idea che i problemi dell’America sono causati da noi stessi, accusa il Messico, la Cina, il Canada. Così vedo la tendenza tra molti italiani ad attribuire i problemi del paese agli emigranti dall’Africa e dal Medio Oriente, che sono in realtà molto pochi in confronto con altri paesi, o persino all’Unione europea. Sia noi che voi stiamo fallendo nel fattore numero 2, la responsabilità.

Un altro fattore importante per uscire dalle crisi nazionali sono i valori fondanti. Qui l’Europa ha un punto di forza nell’aver portato pace, nei principi di libertà, politica, personale, nel rispetto dei diritti umani. Eppure le spinte contrarie sono molto forti.

Questi valori possono effettivamente aiutare ad spingere fuori dalla crisi. C’è molto di cui l’Europa e tutti i paesi che fanno parte dell’Unione possono essere fieri: ci sono qui i paesi con i più alti livelli di educazione e di sviluppo tecnologico. Non si sente molto in Europa parlare delle ottime cose che l’Europa ha conseguito e si sentono piuttosto i lamenti nei confronti dell’Unione e c’è addirittura chi vuole prendere le distanze dall’Unione europea, che è qualche cosa di unico nella storia del mondo: un gruppo di paesi che settant’anni fa hanno superato ogni precedente nel massacrarsi tra loro e che invece di prepararsi alla Terza guerra mondiale hanno dato un raro esempio di azione preventiva della crisi e già negli anni Cinquanta hanno posto le premesse – leader politici italiani, francesi, tedeschi – della futura Unione. Spero che si lavori adesso per rafforzarla invece che indebolirla. Ed è per me una tragedia quel che accade in Gran Bretagna.

Lei parla della Gran Bretagna come di un paese afflitto da una malattia lunga, di una paese che non più ritrovato la forza del proprio ego dopo la perdita del potere imperiale e le trasformazioni che sono seguite alla guerra.

Questo paese è il più chiaro esempio di negazione della responsabilità. Come Trump se la prende col Messico e la Cina così la Gran Bretagna attribuisce agli immigrati e all’Unione Europa i problemi inglese. L’altra metà delle ragioni che portano alla Brexit è che il popolo inglese si dimentica delle cose di cui può essere fiero. Quelli che erano vivi nel 1940 e ricordano la battaglia d’Inghilterra, quando il paese da solo si oppose a Hitler, appartengono a una generazione che sta scomparendo, mentre i giovani non ne sanno nulla. Questo significa perdere una fornte dell’orgoglio e dell’identità nazionale. La stessa cosa accade in Finlandia, dove ho scoperto parlando con giornalisti di quel paese, in occasione dell’uscita del mio libro, che i giovani parlano oggi delle azioni militari in difesa nei confronti dell’URSS come di una cosa brutta. Le genrazioni nate dopo il 45 non sano di vivere in una democrazia solo perché i loro genitori e nonni hanno combattuto e perso la vita per difendere la libertà della Finlandia.

Un altro fattore chiave che porta fuori dalle crisi personali e nazionali è la flessibilità, una virtù per giovani. L’Europa qui ha un bel problema, la popolazione è invecchiata e diminuita di fronte a un’Africa in espansione, che procede verso i due miliardi e mezzo.

Bisogna a questo rispondere onestamente che la flessibilità è una dote difficile da acquisire. O ce l’hai o non ce l’hai. E se non ce l’hai devi almeno riconoscere qual è il problema. E qui c’è una mancanza di onestà in Europa riguardo al problema dell’immigrazione. L’Europa è divisa tra due forze opposte: da una parte il nobile ideale di accogliere i rifugiati, che ha radici anche nella memoria della seconda guerra mondiale e dei milioni di persone che furono uccise perché altri paesi non le accettavano come rifugiati, dall’altra c’è la realtà crudele di una popolazione africana di un miliardo e mezzo, che potrebbero vivere meglio se stessero in Europa, cosa che però è assolutamente impossibile da realizzare. Lo stesso si può dire per centinaia di milioni che vivono in condizioni terribili e che vorrebbero raggiungere l’Europa dal Medio Oriente e dall’Asia. Ma la verità è che l’Europa non può accogliere centinaia di milioni di migranti. Come conciliare il nobile ideale con la realtà? Molto difficile, ma mi pare che prima di tutto i dibattiti sull’argomento in Europa manchino soprattutto di onestà.

La «forza dell’io» è decisiva negli individui davanti alle prove più dure. Lo è anche per le nazioni e si può chiamare «identità nazionale».

Questo è un punto debole dell’Italia. E dipende dalla storia del Risorgimento e dal modo in cui si è fatta l’Italia. L’identità nazionale è forte quando ci sono cose nella storia recente di cui un paese possa essere fiero. L’Italia non ne ha come la Finlandia o l’Inghilterra. Gli italiani hanno certamente grandi cose che li uniscono nella storia più lontana: il Rinascimento, l’Impero Romano. E poi sono fieri delle loro glorie calcistiche, della cucina, dello stile e del design, ma hanno qui un punto debole. E inoltre sono molto divisi tra Nord e Sud. Non ne ho fatto uno dei miei casi di studio perché la crisi italiana non è ancora veramente arrivata a manifestarsi completamente. Gli eventi cambiano la scena in maniera molto rapida.

Quella americana è più chiara, lei dice. E anche più grande. Lei cita il caso di due suoi amici che hanno lasciato la politica, pur potendo vincere un posto al Senato, perché disgustati dalla violenta radicalizzazione dello scontro.

La politica è diventata da noi un’esperienza sgradevole per gente che potrebbe occupare posizioni di vertice, che potrebbero essere buoni presidenti, ma non vogliono entrare nell’arena. In primo luogo dovrebbero spendere gran parte del tempo per trovare denaro. Nessuno che abbia il talento necessario ci vuole in realtà mettere piede. Per questo non si trovano tra i Democratici candidati capaci di battere Trump. Non va bene Biden, non va bene la Warren e neanche Sanders. Per vincere ci vogliono quelli come Clinton o Roosevelt. E chi ne ha le doti non si fa vedere. In Italia avete un problema simile.

Le sue critiche allo stato delle cose trovano obiezioni nei modernisti che ritengono che viviamo in ogni caso nel migliore dei mondi finora esistiti: i grandi dati globali ci parlano di riduzione della povertà, miglioramento della salute e delle aspettative di vita, crescita dell’alfabetizzazione e in generale dello sviluppo umano. Quindi avrebbe ragione chi come Steven Pinker vede l’Illuminismo sulla cresta dell’onda come mai prima. 

Conosco bene certo le tesi di Steve Pinker e ne sono anche amico. Ci vediamo ogni anno. Lui ha assolutamente ragione nel sostenere che molte cose nel mondo sono oggi migliori che in qualcunque altro momento della storia: meno carestie, meno guerre, miglior controllo delle malattie. Mai così bene. E questa è una buona notizia. Ma se volgiamo lo sguardo al futuro la domanda non è se le cose siano migliori oggi o nel passato, ma è un’altra: come saranno tra trent’anni. Molte cose nel mondo stanno andando in un modo che, se continuassero così per i prossimi trent’anni, rovinerebbero la vita sulla terra: penso al rischio nucleare, al climate change, all’uso insostenibile delle risorse e all’ineguaglianza. A chi sostiene l’idea che il mondo di oggi è il migliore finora esistito rispondo paragonando questo mondo a una persona che abbia un conto in banca che sia continuamente cresciuto e che poi abbia smesso di guadagnare e continui a spendere come prima. Finirà senza soldi. E quando dice di avere più soldi in banca di quanti ne abbia mai avuti prima dice una cosa vera, sì, ma sta scivolando inesorabilmente verso lo svuotamento. Perciò farebbe bene a smettere di felicitarsi per quanto grande sia il suo conto e dovrebbe cominciare a preoccuparsi della bancarotta in arrivo tra 30 anni. Noi viviamo a un ritmo insostenibile e se non correggeremo il cammino finiremo per precipitare nel burrone.

E’ il tema della parte finale del suo libro, dove lei parla di due cavalli in corsa: quello della distruzione e quello della speranza. Quale le sembra più forte?

Dipende dalle decisioni che si devono prendere ora. Lo vedremo per esempio dalle elezioni americane del 2020. Se Trump vincesse sarebbe un pessimo segnale per il cavallo buono.

 

Una versione ridotta di quest’intervista è stata pubblicata su La Repubblica il 16/10/2019

Titolo: Crisi. Come rinascono le nazioni

Autore: Jared Diamond

Editore: Einaudi

Pagine: 488

Prezzo: 25,50 €

Anno di pubblicazione: 2019



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