Gli stranieri e le loro prigioni, un libro racconta il dramma dei CIE

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Quando escono dall’invisibilità sociale, quando una ripresa rubata da un telefonino evidenzia le violazioni dei diritti spesso subiti dai migranti trattenuti, quando un esponente politico riesce a entrare in tali strutture chiuse all’esterno e a far aprire un dibattito sulle carenze organizzative e sulle pesanti condizioni di vita in cui vengono tenuti gli stranieri presenti nei Centri di identificazione di espulsione (CIE), allora esplodono il dibattito e spesso l’indignazione, come è accaduto durante l’ultimo Natale con il centro di Lampedusa – grazie alla lodevole iniziativa del giovane deputato Khalid Chaouki – e quello di Ponte Galeria. Ma intervenire a parole, e a posteriori, non basta, perché i problemi posti dai CIE in termini di legittimità, rispetto dei diritti umani, funzionalità, sono numerosissimi. E spesso vengono a galla solo quando fanno notizia ribellioni e atti di autolesionismo, purtroppo numerosi fra i migranti e gli stranieri che si trovano in una condizione di “detenzione amministrativa” in strutture spesso inadeguate e carenti a partire dalle stesse costruzioni adibite ad ospitare i “detenuti” in attesa di espulsione.

Tutti i problemi sollevati dai CIE sono analizzati nel dettaglio dal saggio “La prigione degli stranieri. I Centri di Identificazione e di Espulsione”, di Caterina Mazza (Ediesse 2013) che ripercorre la loro istituzione, anche a livello europeo, la giurisdizione (spesso lacunosa) che ne è alla base, i principali problemi che tali strutture pongono. Scrive l’autrice a conclusione della sua ampia ricognizione: «La scarsa qualità dei servizi erogati e delle attività organizzate all’interno dei Centri, il quasi inesistente legame tra la struttura e la realtà territoriale circostante, l’inaccessibilità di tali luoghi, la totale inadeguatezza degli edifici adibiti a CIE, la scarsa preparazione del personale impiegato e dei gestori, l’insufficienza delle condizioni igienico-sanitarie e l’alquanto limitato grado di socializzazione tra i trattenuti e di possibilità di comunicazione con l’esterno, sono i principali problemi propri del sistema. Un ulteriore aspetto molto problematico è rappresentato dalle diffuse situazioni di sovraffollamento delle strutture e di confusione, che vedono costrette a convivere diverse tipologie di persone con bisogni differenti, generando tensioni e acuendo le già rilevanti difficoltà relazionali tra i diversi soggetti coinvolti nella realtà detentiva. Il livello di violenza, il numero delle agitazioni e dei tentativi di fuga, nonché i casi di autolesionismo sono, infatti, estremamente elevati e diffusi».

L’origine politica dei Centri di trattenimento, istituiti in tutti i paesi europei nella seconda metà degli anni Novanta, è legata alla necessità di garantire la libera circolazione delle persone nello spazio Schengen arginando allo stesso tempo i flussi migratori irregolari: i Centri diventano i luoghi da cui attuare la politica delle espulsioni degli stranieri irregolari e con i quali dissuadere l’arrivo di nuovi migranti. È una scelta comune a tutti gli Stati europei. In Italia, la possibilità di trattenere gli stranieri in appositi Centri viene istituita con la legge Turco-Napolitano del 1998 e poi disciplinata dalle modifiche normative successive, soprattutto dalla legge Bossi-Fini, dall’introduzione del reato di clandestinità, dalla possibilità di prolungare il trattenimento degli stranieri nei CIE fino a 18 mesi. I dubbi di costituzionalità della “detenzione amministrativa” non mancano, così come quelli sul rispetto della direttiva europea sui rimpatri che considera il trattenimento come “extrema ratio” e non come strumento ordinario per eseguire l’espulsione degli stranieri irregolari.

I CIE pongono inoltre numerosi problemi di funzionamento a partire da chi, di fatto, entra davvero nei Centri: dipende da criteri organizzativi – semplicemente, dalla disponibilità dei posti – e dalle caratteristiche delle persone. «In pratica, viene portato in un Centro chi, per le condizioni specifiche e per il paese di provenienza, è più facile che nei fatti venga ricondotto in patria». L’elenco dei problemi che i CIE si portano dietro è lunghissimo. Ci sono problemi di scarsa trasparenza nella gestione e di inadeguatezza delle strutture stesse usate come CIE, spesso edifici riadattati (ex caserme), container o strutture costruite sul modello delle carceri, con alte mura di cinta e filo spinato, per non parlare delle strutture che ospitano sia irregolari in attesa di espulsione sia richiedenti asilo. Le criticità del sistema proseguono con le condizioni di sovraffollamento e di promiscuità che caratterizzano i CIE, dove fianco a fianco sono tenuti, e non sempre in modo legittimo, cittadini comunitari, ex detenuti, richiedenti asilo respinti, migranti appena arrivati nel paese e migranti che invece sono presenti da anni in Italia e che hanno il permesso di soggiorno scaduto, nonché persone vulnerabili che avrebbero bisogno di assistenza specifica, come vittime di tratta, di tortura, persone in fuga dalle guerre, minori non accompagnati. I servizi sono carenti, le attività di svago quasi inesistenti, l’assistenza sanitaria limitata a quella di base e fondata, per la cura delle tossicodipendenze o del disagio psichico, sull’uso di farmaci psicotropi e calmanti, le possibilità di entrare in contatto con l’esterno limitate talvolta anche dal sequestro dei telefonini: meglio il carcere, raccontano gli ex detenuti.

I CIE sono inoltre luoghi separati dalla società, “non luoghi” resi inaccessibili e invisibili all’opinione pubblica: questo impedisce il controllo democratico su tali strutture e contribuisce a criminalizzare la figura degli immigrati. Spiega l’autrice: «La gestione dell’immigrazione irregolare attraverso l’utilizzo di luoghi separati dal resto della società e volutamente avvolti da una patina opaca per renderli realtà indistinte e lontane dall’opinione pubblica ha avuto come principale effetto politico-sociale la criminalizzazione della figura dell’immigrato privo di permesso di soggiorno. Processo che ha suscitato paure, diffidenza, talvolta rabbia e soprattutto indifferenza». I CIE sono ambigui dal punto di vista del rispetto dei diritti – in nome della sicurezza e della difesa della libertà dei propri cittadini attuano politiche di compressione della libertà e dei diritti fondamentali degli stranieri – e sono scarsamente funzionali anche nella gestione delle migrazioni e delle stesse espulsioni. Se si guarda infatti alla mera efficacia espulsiva – i Centri servono ad aumentare le espulsioni? – emerge infatti una funzionalità molto scarsa, praticamente simbolica: i CIE non servono ad aumentare le espulsioni – in media, fra migranti che passano nei Centri ne vengono allontanati fra il 40 e il 60%, e i numeri sono infinitesimali se paragonati ai numeri dei migranti irregolari presenti nel paese. E poi i rimpatri sono eseguibili – non è un particolare – solo se si riesce a identificare chiaramente la persona e solo con la collaborazione, non scontata affatto, dei paesi di origine. In sintesi: i Centri non solo non raggiungono appieno l’obiettivo dichiarato, ma sono anche molto costosi per le casse statali. Risultato? Conclude l’autrice: «Da un lato occorrerebbe modificare la normativa in materia di immigrazione al fine di ridurre drasticamente il ricorso alla detenzione amministrativa ai soli casi veramente necessari; dall’altra bisognerebbe umanizzare il sistema dei Centri, rendendo migliori e vivibili tutti i luoghi di trattenimento».

L’ampia analisi dell’autrice è introdotta da Giuliano Amato, che evidenzia come fino a quando i Centri continueranno a esistere come luoghi di detenzione amministrativa, «non cesseranno di essere quella sfida alla nostra coscienza e alla nostra Costituzione, con la quale conviviamo da quando decidemmo di non poterne fare a meno». I dubbi posti dai Centri rimarranno sospesi fin quando l’Unione Europea adotterà un approccio autodifensivo, argomenta Amato, con pochissimi immigrati racchiusi nei Centri e tanti che invece potranno vivere una vita normale. Sostiene Amato: «Un giorno, forse, ci accorgeremo che tranquillizzare così noi stessi e l’opinione pubblica serve a poco o nulla. Quel giorno ci accorgeremo anche che la detenzione amministrativa non solo è inefficace, ma non è neppure consentita dalla nostra Costituzione. E, resi forti da questa premessa, cercheremo modi migliori per contrastare la clandestinità».

I recentissimi avvenimenti di questi ultimi mesi – la denuncia delle condizioni di vita dei migranti a Lampedusa, la protesta dei reclusi nel Centro di Ponte Galeria, la chiusura del CIE di Modena – ha confermato punto per punto tutte le criticità denunciate nel saggio. La “prigione degli stranieri” è una realtà che continuerà a sfidare le nostre coscienze, rappresentando un’ombra pesante sulla tutela dei diritti umani, fino a quando non verrà sostituita da forme umane, dignitose, democratiche, legittime ed efficaci di gestione delle migrazioni.

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Titolo: La prigione degli stranieri. I Centri di Identificazione e di Espulsione

Autore: Caterina Mazza, prefazione di Giuliano Amato

Editore: Ediesse

Pagine: 192

Prezzo: 14 €

Anno di pubblicazione: 2013



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