I cittadini bambini e la sfiducia di Stato

Quando poco più di due mesi fa l’Italia si ritrovò in casa il “nemico invisibile” che credeva in Asia, due cose apparvero presto chiare: che l’impossibile di una calamità naturale mai vista era diventato possibile, realtà quotidiana; e che dall’emergenza nazionale il Paese sarebbe potuto uscire paradossalmente più unito, più forte. Wishful thinking, tocca riconoscere amaramente. O meglio, la finestra di opportunità di una coesione nazionale – quella reale, non quella dei partiti – si è chiusa con altrettanto fragore.

In parte ciò si deve alla perduranza del virus, evidentemente: la prospettiva iniziale di una manciata di settimane di sacrifici individuali ed economici per un Bene più alto, collettivo, era una sirena potente, perfino utile per riordinare le idee, ragionare sui propri limiti, sognare nuovi progetti. Mentre il prolungamento a oltranza di un confinamento sempre più insostenibile non può che spingere alla frustrazione, all’esasperazione, dunque alla disunione.

Ma c’è dell’altro. C’è che quello straordinario capitale di fiducia che i cittadini avevano d’improvviso maturato nei confronti dello Stato – un’occasione unica – è andato perduto. Ed era tutt’altro che scontato che andasse così. Se è successo, ed ha del clamoroso, è perché a non afferrare quelle storica mano allungata da parte di milioni di italiani, questa volta, è stato proprio lo Stato. Che alla prova dei fatti ha negato loro quello stesso, minimo, grado di fiducia.

Riavvolgendo il nastro, come in un grottesco pesce d’aprile, il tracollo dell’Inps di fronte a ciò che esso stesso offriva – i primi sussidi – resterà certamente come l’inizio della fine di questa storia: primo aprile. E poi certo, i ritardi della burocrazia, le contraddizioni, le liti tra poteri dello Stato. Ma a buttare definitivamente alle ortiche quell’opportunità, dispiace dirlo, è stato proprio il governo, a partire dal suo primus inter pares.

Dichiarazione dopo dichiarazione, diretta dopo diretta, il presidente del Consiglio non ha solo accresciuto anziché placare le preoccupazioni di milioni di persone. Ha negato progressivamente loro quel diritto a vedersi riconosciuti come cittadini, adulti, dunque attori essi stessi di un progetto collettivo – come è perfino quello del lockdown, e dei suoi progressivi allentamenti. Perché degradarli invece a telespettatori impotenti, a minori da guidare in ogni mossa, controllare ossessivamente, redarguire sino allo sfinimento? Da un premier espressione di un movimento i cui primi parlamentari preferivano auto-definirsi “cittadini” per sottolineare la disintegrazione delle distanze con le istituzioni ci si sarebbe aspettato altro atteggiamento.

Intendiamoci: di regole ferree c’è assoluto bisogno, di fronte a un nemico ancora temibile, così come di vigilanza sul loro rispetto, e mai come oggi chi governa è chiamato a decisioni difficilissime. Ma perché indulgere in infinite comunicazioni tv con cittadini da mesi consci del pericolo in avvertimenti ossessivi quando non tragicomici? La pizza che si potrà andare a ritirare direttamente sul posto, ma non consumare sul marciapiede antistante; il divieto di organizzare la prossima settimana “party privati”; l’invito preventivo a non affidarsi “alla rabbia, al risentimento, alla ricerca di un colpevole”. Sino alla capitolazione definitiva nel regno della farsa con le linee guida sugli “affetti stabili”.

C’è una precisazione che responsabili di governo ed esperti ad esso vicini sentono di dover fare ormai regolarmente a chiusura di ogni intervista, e che suona sempre meno gradita: «Gli italiani sono stati bravissimi». No, non sono stati bravissimi. Come ogni altro animale che fiuta il pericolo, sono semplicemente una delle numerose sotto-specie di umani che hanno compreso perfettamente la minaccia senza precedenti del coronavirus, e si difendono di conseguenza. Cittadini, grazie alla Costituzione, e in buona parte adulti. Per non disperderne la fiducia sarebbe (stato) sufficiente trattarli come tali.

 

Foto: Tiziana FABI / AFP

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