25 anni fa Giovanni Paolo II a Cuba:
Una teologia per molte liberazioni

Il 21 gennaio di venticinque anni fa papa Giovanni Paolo II sbarcava a Cuba, dove veniva ricevuto da Fidel Castro. Per chi aveva una visione manichea del mondo doveva essere una riedizione del famoso arrivo del papa a Varsavia, in occasione del primo dei suoi viaggi polacchi. Le cose non sono andate così, e non solo perché Giovanni Paolo II si è recato a Cuba una sola volta, come primo papa in visita nell’isola caraibica. Anche per il senso e il segno di quel viaggio: nulla a che fare con la visita polacca, nessuno scontro. Piuttosto un dialogo che nella diversità dei protagonisti ha costituito anche un’occasione di reciproca comprensione. Giovanni Paolo II è rimasto il papa anti-comunista e Fidel Castro il leader della rivoluzione comunista. Non c’è stato nessun equivoco, né un’abiura. L’equivoco piuttosto è ritenere possibili solo due strade.

Le prime questioni che serve affrontare per inquadrare il viaggio di Giovanni Paolo II sono la sua destinazione e la data prescelta. Per quanto attiene a Cuba non si può dire che il suo regime sia stato imposto dall’Unione Sovietica per farne uno Stato satellite. Non è stato così, la rivoluzione cubana è stata un prodotto autoctono, latinoamericano. Poi il suo cammino lo ha segnato la Storia, come vedremo. Il secondo elemento, la data, ci colloca al di là dell’‘89, la data del crollo del muro di Berlino. Avrebbe avuto proprio senso per il papa dell’Est attraversare il mondo per far crollare una propaggine di un blocco ormai finito?

Il terzo elemento da considerare si chiama “facilitatore”: e molti sostengono che l’arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, sia stato un facilitatore di quel viaggio. Perché era, o è, un filo-comunista? Piuttosto perché era, come è oggi, un latino-americano. La sua origine gli ha consentito di esprimersi diversamente da Giovanni Paolo II, almeno per i toni, riguardo ai cristiani marxisti del suo continente. Di loro infatti ha detto che “per timore di essere gli ultimi cristiani, sono stati gli ultimi marxisti”. Queste parole non sono indulgenti verso il marxismo ma, se indulgenti sono, lo sono verso quei cristiani che Bergoglio dimostrava di aver capito, pur non condividendone le posizioni. Per loro, presi nel dramma latino-americano dello scontro con il colonizzatore – in questo caso Washington e non Mosca – il marxismo era apparso l’altra riva, o l’altra boa.

E Giovanni Paolo II? Come Jorge Mario Bergoglio è un figlio dell’America Latina, così lui era un figlio dell’Est europeo, della Polonia. Se c’era, come credo ci fosse, una teologia della liberazione nel cuore di Wojtyla, questa era teologia per la liberazione dal marxismo, dal sistema totalitario che era stato costruito in quel nome nei Paesi del blocco sovietico. Ma proprio l’aver creduto in questo potrebbe avergli consentito di compiere il primo passo nel senso del disgelo, nei Caraibi.

Giunti a questo punto non si può prescindere dalla Storia, dal peso che il bloqueo americano ha avuto nella realtà di tutti i cubani, ma soprattutto nell’immaginario di milioni di latino-americani, che proprio per via dell’embargo americano hanno fatto di Cuba un simbolo di resistenza. Non recepire questa realtà di popoli avrebbe radicalizzato lo scontro ideologico, il solco. Il problema Cuba era, da un punto di vista simbolico e quindi culturale, il problema di un continente. Ecco perché la frase che Francesco avrebbe detto a Barack Obama durante la sua visita in Vaticano – “Signor presidente, se vuole la simpatia dei popoli latino-americani per il suo Paese, risolva il problema di Cuba” – è la migliore spiegazione del motto che accompagnò il viaggio di Wojtyla: “Che Cuba si apra al mondo e che il mondo si apra a Cuba”. Non era illegittima la lettura di stampo “polacco” che molti ne diedero, ma era sbagliata. Poteva il papa che non aveva accettato la cortina di ferro accettarne un’altra?

Analogo discorso va fatto per Fidel Castro. Non è stato solo Giovanni Paolo II ad aprirsi alla Cuba castrista, ma anche la Cuba castrista ad aprirsi al papa. Fidel Castro, come raccontano i testimoni di quegli anni, amava intrattenersi con gli ospiti stranieri, anche perché riteneva pericoloso, dannoso, l’isolamento: per sé e per il suo Paese. Ma quando nel 1961 John Fitzgerald Kennedy tentò lo sbarco alla Baia dei Porci, fallendo l’auspicata sollevazione popolare contro il regime, Fidel Castro predilesse la chiusura e visto che alcuni ecclesiastici, cubani e statunitensi, avrebbero sostenuto il progetto di Kennedy, espulse 131 preti, tra i quali anche il suo professore, padre Lorente, che lo ha sempre definito uno studente eccellente. La chiusura non era però stata al cuore del castrismo fino a quel punto. Dal 1958 ad allora, infatti, le consuetudini religiose del popolo cubano non erano stato insidiate: solo dopo il 1961 si definì ateo, non prima. Una scelta evidentemente diversa da quella “sovietica”.

Ma nell’ottica di Giovanni Paolo II il punto non era un “diverso comunismo”. Lo spiega con chiarezza il professor Andrea Riccardi in Uno sguardo su Cuba. Inizio del dialogo: “Non amava molto dar valore alle differenze tra i diversi tipi di comunismo, che considerava troppo legati alla struttura ideologica del marxismo e a una politica imperialista e repressiva”, ma “era consapevole del ruolo peculiare di Cuba nel mondo latino-americano” e quindi era aperto all’incontro con gli uomini e con la realtà storica. Eppure non è esattamente quello che si era colto dalla sentenza di condanna del teologo della liberazione Jon Sobrino, particolarmente vicino a Fidel Castro, che sulle esequie del vescovo martire e abbastanza vicino al mondo della teologia della liberazione, Oscar Arnulfo Romero, ha scritto: “Al suo funerale, a parte monsignor Rivera Damas, non partecipò nessuno dei vescovi di El Salvador”.

Sul processo Sobrino scrisse Sandro Magister: “Ed è proprio questa una delle tesi che la congregazione per la dottrina della fede imputa a Sobrino come erronea: l’aver eletto i poveri a ‘luogo teologico fondamentale’ – cioè a principale fonte di conoscenza –, al posto della ‘fede apostolica trasmessa attraverso la Chiesa a tutte le generazioni’. La sentenza vaticana riconosce a Sobrino di prendersi giustamente cura dei poveri e degli oppressi, che è imperativo essenziale per tutti i cristiani, ma lo accusa di sminuire, in nome della liberazione dei poveri, i tratti essenziali di Gesù: la sua divinità, il valore salvifico della sua morte”. Il lungo imbarazzato silenzio sul martirio del vescovo Romero – canonizzato da Francesco decenni dopo essere stato ucciso dagli squadroni della morte – sembra parlarci invece di un problema relazionale con la realtà storica. E solo considerando da quale realtà originasse Giovanni Paolo II si capisce perché la grave erroneità dell’apertura teologica al marxismo pesasse di più ai suoi occhi dello sbaglio politico di chi, dal fronte opposto, anche per paura di sviluppi di stampo “sovietico”, finiva col non opporsi alle giunte militari.

Prende forma dunque il processo che ha consentito il viaggio a Cuba, che ha contribuito e molto ad aprire le porte, a liberarsi dall’urgenza di capire prioritariamente un campo, un luogo, più dell’altro. I citati ricordi ci fanno capire i limiti di ogni contrapposizione, per scoprire come l’accettazione, la comprensione della realtà storica sia in realtà la bussola migliore per cercare la verità. Il viaggio cubano di Giovanni Paolo II è un esempio di grande importanza per arrivare ad apprezzare lo sforzo che questo metodo, così caro in particolare al “facilitatore” Bergoglio, richiede. Anche lui, come Woytjla, non condivise minimamente le aperture al marxismo della teologia della liberazione. Ma quando a La Paz il presidente Morales gli donò la scultura di Gesù raffigurato su una falce e martello, realizzata dal gesuita martirizzato dagli squadroni della morte, Luis Espinal, lui lo accettò e lo portò con se in Vaticano. Perché, nonostante il chiaro dissenso, riconosceva e comprendeva la realtà storica, come aveva avuto il coraggio di fare Giovanni Paolo II recandosi a Cuba.

Foto di copertina: Giovanni Paolo II e Fidel Castro all’arrivo del papa a Cuba (foto di: Michel Gangne/AFP).

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