Un’etica pubblica per vincere la pandemia

Mai come oggi, in tempi di pandemia, si avverte la necessità di un’etica pubblica universale, che riguarda tutte le grandi questioni contemporanee. Voglio dire non solo la salute, ma la finanza, l’ambiente, le migrazioni, l’equilibrio geo-politico globale, la business ethics, l’Intelligenza artificiale, la bioetica, la sostenibilità, le questioni di genere, le frontiere della scienza e così via. L’etica pubblica, così intesa, suggerisce che noi e gli altri non siamo in contrapposizione reciproca. Dopotutto l’essere umano è un animale sociale, ed è razionale essere ragionevoli. Cioè, dare il giusto peso agli interessi di tutti. In questo senso, l’etica pubblica ha a monte la religione e a valle il diritto. Che a monte ci sia la religione, non è difficile da capire. Non fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te – il principio kantiano dell’etica pubblica – non differisce dalla massima evangelica “ama il prossimo tuo”. Da questo punto di vista, l’etica pubblica si limita a trasferire l’autorità ultima dall’esterno (Dio) all’interno (le nostre coscienze). Per rispettare l’altro – ci viene detto – non è indispensabile essere cristiano, si può essere anche musulmani, confuciani, buddisti, atei, e via di seguito. L’importante è tenere saldo il principio di rispetto per gli altri. A valle ci sta il diritto. E non solo perché non ha senso emanare norme giuridiche immorali. Il diritto fornisce una regola comune, dirime le controversie, e soprattutto ci obbliga a prendere sul serio il principio del rispetto quando la nostra volontà traballa. Nessuna società, però, può sopravvivere solo di norme imposte. La coercizione è l’eccezione. L’adesione morale la regola. Quest’ultima certezza andrebbe ricordata. C’è in giro troppa voglia di autorità e repressione. Ciò non giustifica le fesserie libertarie e sucide alla Agamben (per chi sia curioso di conoscerle guardi per es. https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-contagio). Ma implica (almeno) una domanda: come si fa a non capire che il problema non sta nel mettere i soldati agli angoli delle strade e nello spiare i cellulari, ma nel convincere le persone? Questo naturalmente a meno che non si preferisca il clima politico e culturale dei regimi autoritari

Sotto queste premesse, ho discusso della pandemia coi miei studenti alla LUISS in due occasioni, una all’inizio del fenomeno e una la settimana scorsa quando la tragedia era sotto i nostri occhi. In questo articolo, cerco di riassumere al meglio quanto sostenuto in quelle occasioni.

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Siamo destinati a morire (“la vita è una malattia mortale”). E dobbiamo farcene una ragione. Si può morire in molti modi. Anche di Coronavirus, come accade tragicamente oggi in Italia. Ma non dobbiamo dimenticare che ci sono pure ogni anno nel nostro paese 80.000 morti per il fumo, 2300 per incidenti stradali, quasi 7000 per influenza stagionale e sue complicazioni. Elenco luttuoso questo che, se non altro, dovrebbe servire a porre nelle giuste dimensioni il panico che si possa morire solo di Coronavirus.

Mi si dirà: quello che conta davvero è il rischio che si corre di morire di una specifica causa. Nel caso in questione, il coronavirus. Per le malattie, in genere si fa riferimento al loro tasso di letalità. Sarebbe a dire, il rapporto che si instaura tra totale dei casi e numero delle vittime. Avere questo risultato è però più difficile di come sembra. Prendiamo in esame così una frazione con al numeratore le vittime e al denominatore i casi. In questo modo, ci accorgiamo subito della difficoltà. Per quanto riguarda le vittime, innanzitutto, non credo sia facile isolare le morti per “esclusivo” Coronavirus da quello in cui tale virus interviene su fattispecie cliniche precedenti e magari già assai complicate. Il Corriere della Sera del 20 marzo 2020 riporta che solo l’1/% dei deceduti per coronavirus è deceduto esclusivamente a causa del coronavirus (ci sono altre malattie, per es. il diabete). Per non parlare del fatto che il numeratore (il numero di vittime) dipende, per esempio, dalle cure a disposizione di una popolazione, e quindi dal supporto medico che ricevono i malati (dato che varia con il contesto). Prendete due paesi a caso: Nigeria e Finlandia. Dove pensate che sarebbe più sicuro essere ricoverati? Mentre è facile pensare che il denominatore (il numero totale di casi) dipenda, almeno per una malattia relativamente nuova, dalla misura in cui si è capaci di fare screening della popolazione. Si controllano tutti, solo i malati, i sintomatici, anche gli asintomatici purché esposti e così via?

Ma l’incertezza sul significato dei numeri cresce se pensiamo a noi stessi come individui e non come elementi di un aggregato statistico. Se proviamo cioè a disaggregare le informazioni. Dividiamo per esempio la popolazione in 10 quantili suddivisi per età (0-10 anni, 10-20 e così via, fino a 100): ci accorgiamo che ci sono quantili, come quello 0-10 anni, che (per fortuna!) sembrano ancora poco toccati dalle conseguenze più estreme del virus. Mentre invece la mortalità cresce nei quantili di età che corrispondono alla vecchiaia (in larga parte, pare di comprendere, perché con l’età si accumulano patologie che ci rendono più deboli). Disaggregare fa capire. Se non altro che affidarsi ai numeri non è semplicissimo.

L’aspetto, invece, più certo e rilevante è quello che ci tocca non come individui, ma come collettività e che riguarda una versione sui generis di biopolitica: la gestione della popolazione nel suo insieme in casi di pandemia come questi. Perché mentre i numeri sul tasso di letalità (vittime su casi) sono opinabili, una cosa è certa: se si ospedalizza sistematicamente una frazione relativamente cospicua di coloro che vengono affetti dal Coronavirus, si intaseranno per forza di cose tutti gli ospedali di Italia. Soprattutto quei reparti ospedalieri in cui si pratica terapia intensiva. Questo fatto ora appare evidente a tutti, ma all’inizio della crisi pandemica non lo era.

Ma anche qui si nasconde un problema, che questa volta è di natura prevalentemente psicologica. Quando parliamo di letalità, stringi stringi e ognuno pensa alla propria morte. Questo pensiero è una molla formidabile per agire, come spiegano meglio di altri Hobbes e Hume (studiati dai miei corsisti. Ma leggerli in proposito non può fare che bene, Hobbes sulla paura e Hume sui motivi per agire). Quando si parla di gestione collettiva della popolazione potenzialmente esposta al contagio, invece, il pericolo è percepito lontano da noi come persone singole. E diventa più difficile farlo nostro, internalizzarlo. Con il risultato che si rischia di non avere in questo caso una motivazione sufficiente per agire. Insomma, quello su cui abbiamo dubbi -cioè il tasso di letalità – funziona motivazionalmente, mentre quello di cui siamo più certi – l’aspetto biopolitico – no. Il rischio è quello di oscillare fra panico (individualmente ingiustificato) e assenza di precauzioni e contromisure (collettivamente pericoloso). Come uscire da questa impasse fra isteria ‘micro’ e sottovalutazione ‘macro’?

Credo che in questo caso l’etica pubblica sia centrale. Bisogna far capire alle persone che comportamenti individualmente irresponsabili, quando si vanno a sommare, rischiano di danneggiare gli altri; specialmente i più deboli. E questo, si badi bene, vale per eccessi in ambo le direzioni. Farsi prendere dal panico e ‘saccheggiare’ farmacie oppure supermercati significa ridurre le opzioni di coloro che hanno bisogno reale e immediato di farmaci e beni di prima necessità. Far finta di nulla, sfidare le direttive pubbliche, o peggio fomentare la protesta contro i sacrifici che esse ci chiedono, rischia di aumentare i contagi, e quindi di intasare (se non ‘oggi’, ‘domani’) gli ospedali causando o quantomeno accelerando la morte di chi già passa la sua esistenza lottando contro mali cronici.

L’etica pubblica servirebbe oggi più che mai per far capire alle persone che il motivo centrale per affidarsi alle pubbliche autorità è che abbiamo il dovere di tenere alla salute pubblica, non solo alla nostra. Solo se una tale motivazione venisse internalizzata si potrebbe aspirare a comportamenti responsabili, e non dettati dalla familiare diade di paura o noncuranza. Questo, lo ripeto, se non vogliamo che la polizia ci costringa a “essere buoni”.

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In frangenti tragici come questi, c’è una tentazione cui è difficile, anzi forse impossibile, resistere. Ed è la tentazione di dare un significato metaforico o addirittura mistico agli eventi reali. La malattia grave, e a maggior ragione la pandemia, è come la camera buia in cui un bambino si sente solo e disperato. Per questo la illuminiamo di significati simbolici. Così facendo, in qualche modo psicologizziamo gli eventi reali. E quindi ci illudiamo di controllarli. Anche se così non è. Siamo tutti dotati di una doppia cittadinanza – diceva Susan Sontag in quel libro straordinario che resta “Malattia come Metafora”: la cittadinanza nel regno dello stare bene e quella nel regno dello stare ammalati. Mai come adesso – nel periodo del Coronavirus – l’Italia vive nella geografia del male. Le metafore che rivestono questa geografia sono poi l’altra faccia degli stereotipi del carattere nazionale.

Per Sontag, le metafore in questione riguardavano la tubercolosi e il cancro con le loro somiglianze e dissimiglianze. La TBC ha avuto un indubbio ancorché perverso fascino, e Hans Castorp – il protagonista della “Montagna incantata (o magica, se preferite)” di Thomas Mann – sale non solo di livello sull’altezza del mare ma anche di livello di charme quando – arrivato a Davos – si accorge di avere il mal sottile. Non così il cancro, che è meno sofisticato, può venire a tutti, e addirittura può corrispondere – come diceva Reich di Freud – all’incapacità di dare sfogo alle passioni più profonde. Ma – diversi che siano nella metafora – TBC e cancro sono simili nel messaggio di morte.

Nessun libro comunque adopera il contagio fisico – in questo caso la peste – come metafora del contagio morale con più esplicita convinzione della “Peste” di Albert Camus. La peste di cui parla Camus ha luogo a Orano in Algeria (Camus era nato in Algeria). Il libro fu letto a suo tempo (1947), e con ogni probabilità giustamente, come un’allegoria del periodo dell’occupazione nazista della Francia. Il Nazismo è la Peste, in altre parole. Ma i protagonisti sono gli appestati, cioè i francesi e le loro reazioni all’invasione. Camus è molto moderato nei suoi giudizi e per niente moralistico. L’eroe della storia, se così si può dire, il dottor Rieux, ha per caratteristica principale quella di essere “stanco del mondo in cui viveva” e sente un’unica certezza, quella di provare “un debole per i suoi simili”.

L’elemento comune tra il Sanatorio di Mann, il contagio della Peste e il Coronavirus di oggi è l’isolamento. La necessità di proteggersi dal contagio, restando a casa, come diciamo in questi giorni. In questo modo, possiamo provare tutti l’esperienza dell’Asilo. In quel libro destinato a diventare famoso che fu “La Storia della Follia” Michel Foucault ci mise sotto gli occhi l’arbitrarietà della distinzione tra normalità e follia. Rinchiudere i folli è più una scelta politica che terapeutica. Non così però quando abbiamo a che fare con il contagio da Coronavirus.

Da questo punto di vista isolamento e quarantena sono comportamenti e scelte pubbliche indispensabili. I virus sono parassiti. Da soli “muoiono”, e sopravvivono se trovano una creatura che li ospita. Fioriscono e si moltiplicano, se trovano una popolazione di potenziali creature ospiti. Basta questo per capire che tenerci isolati gli uni dagli altri, ora che il Coronavirus sta dentro alcuni di noi, riduce le sue possibilità di moltiplicarsi. E quindi di fare danni. Fin quando non si troverà un vaccino efficace non esiste altra opzione. Vale la pena citare di nuovo Camus: “Ci sono flagelli e vittime, e, per quanto è possibile, bisogna rifiutarsi di stare dalla parte del flagello”.

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Ultima considerazione. C’è un rapporto tra contagio fisico e moralità? Una volta si diceva che la peste fosse la punizione di Dio per i peccati dell’uomo. Da Tucidide a Boccaccio la connessione tra l’arrivo del contagio e il precedente comportamento malvagio delle persone è evidente. Senza arrivare a tanto, non si può pensare – magari come sola ipotesi euristica e speculativa – che abbiamo troppo trascurato quello che Habermas ha chiamato “il mondo della vita” preoccupati come siamo dalle questioni economiche e tecniche? In fondo l’urgenza dei problemi ecologici, la pressione esistenziale che avvertiamo, le stesse pandemie che subiamo potrebbero essere segni diversi di una trascuratezza esiziale per un mondo della vita che si ribella. E anche in questo caso, si deve tornare a pensare in termini di etica pubblica.

 

Sebastiano Maffettone è Direttore di Ethos Luiss Business School

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