‘Tutti tranne B.’ o ‘Tutti tranne Draghi’? Grandi manovre di Natale vista Colle

Il voto anticipato, i 101, la sorpresa femminile: gli spettri dei leader a un mese dal voto

Pur di evitare l’ascesa al Colle di Silvio Berlusconi – che, come vedremo, ci spera e ci crede eccome alla possibilità di diventare il 13° capo dello Stato della Repubblica italiana – nel centrosinistra, come ovvio, pure nel centrodestra, il che è meno ovvio, se le stanno inventando tutte.

 

La Meloni vede Moratti: è lei il nome che serve a sparigliare le carte dentro il centrodestra?

 L’ultima ‘trovata’, in ordine temporale, è di Giorgia Meloni. La quale ha incontrato, pochi giorni fa, a Roma (ma la notizia è rimbalzata sui giornali e sulle agenzie solo lunedì 20 dicembre) la ex ministra del centrodestra e attuale assessore al Welfare della regione Lombardia, giunta ovviamente di centrodestra, Letizia Moratti, erede di cotanta, e famosa, dinastia (i Moratti, di mestiere petrolieri, ex proprietari dell’Inter Fc). Un pranzo che, peraltro, si è tenuto in una delle piazze di transito tra il Senato e Palazzo Montecitorio e in un ristorante assai frequentato da parlamentari e giornalisti, dove sono stati visti, oltre che in un ristorante che è la ‘seconda casa’ dei leghisti in trasferta a Roma, per una di quelle ironie che solo nella Capitale si verificano (si tratta del ristorante ‘Pa station’ di Verdini junior).

È stato un lungo faccia a faccia fra due donne: una, Giorgia Meloni, aspirante king-maker (nello specifico queen-maker) per il Quirinale; l’altra, la Moratti, potenziale candidata a Capo dello Stato, che per la prima volta sarebbe declinato al femminile. Un colloquio riservato, ma pubblico, che giunge nel pieno delle trattative per il Colle, con Matteo Salvini impegnato a dare centralità alla coalizione, oltre che a sé stesso, promuovendo consultazioni a tutto campo, e con un Berlusconi pronto a misurare il livello di fiducia degli alleati sulla sua ultima discesa in campo, la più difficile ma anche la più ardita.

Nulla trapela sul contenuto della conversazione, ma la notizia è già rimbalzata nell’inner circle della presidente di FdI come pure ai vertici del centrodestra. Dove rischia di far più rumore, e dove di certo non hanno preso bene la notizia, però, è ad Arcore, in quella villa San Martino dove Berlusconi sovrintende alle operazioni quirinalizie, e ogni giorno riceve aggiornamenti dai suoi fedelissimi su questo e quel Grande elettore (sono 1009 e il centrodestra, da solo, ne conta fino a 451, il centrosinistra appena 412, i centristi, variamente intesi, sono un’ottantina) arruolato alla causa dell’ascesa a tale scranno.

 

Berlusconi ora ha paura di fare la fine di Prodi

E sì, perché proprio Berlusconi, già da qualche giorno, non è più tanto convinto del granitico consenso dei suoi giovani compagni di viaggio: “Se ci provo, e perdo, per colpa di 15 franchi tiratori – è sbottato il Cavaliere con i suoi – è un conto, ci ho provato, ed è andata male, ma se i franchi tiratori saranno 150 saprò a chi rivolgermi e con chi prendermela”. La ‘ultima minaccia’ del Cav è rivolta, ovviamente, a Salvini e Meloni perché sa bene che sono soprattutto loro due, al netto di Letta e Conte, come è ovvio che sia, a non volerlo perché “con Silvio capo dello Stato, anche se vincessimo le elezioni, l’incarico per formare un nuovo governo non andrebbe mai né a Matteo né a Giorgia – sbottano i fedelissimi di entrambi – ma a qualcun altro oppure ancora a Draghi. Il deep state italiano, europeo e Usa non permetterebbe mai scelte diverse da questa…”.

 

Le armi ‘fine di Mondo’ in mano al Cavaliere

Solo che Berlusconi è pronto a scatenare contro il ‘tradimento’ dei suoi ‘alleati’ di coalizione l’arma fine di mondo che, stavolta, si compone di ben tre missili a doppio stadio: le televisioni (“gliele scateno contro” mastica già amaro il Cavaliere); la rottura dell’alleanza (“vado con i centristi e lascio Forza Italia a Renzi”); e pure, già che c’è, i famosi ‘dossier’ (“sono ricattabili, e io sono pronto a ricattarli…” avrebbe detto).

Insomma, “à la guerre comme à la guerre, Silvio, dobbiamo e possiamo farcela”, lo caricano i suoi, e cioè il quadrumvirato composto dall’eminenza azzurrina, Gianni Letta, dal patron di Mediaset (ex), Fedele Confalonieri, dall’ex senatore Marcello Dell’Utri (tornato, pare, gasatissimo) e da Denis Verdini, ex coordinatore nazionale di FI che, dal suo eremo fiorentino, dove si trova agli arresti domiciliari, tiene i rapporti con il ‘genero’ (Matteo Salvini) e cerca di calmare gli animi, assai esacerbati, di entrambi (anche se si dice che quest’ultimo giochi più per Salvini, e per Pera, suo antico amico, che per Berlusconi).

 

Ma la candidatura di Moratti prende quota…

In particolar modo, il Cav non si fida di Giorgia Meloni, che prima ha azzardato pubblicamente l’ipotesi che il Cavaliere non fosse più interessato al Colle, poi ha sottolineato, mefistotelica quanto prudente: “Bisogna vedere se ci sono i numeri perché quelli del centrodestra non bastano”. Non esattamente un’adesione entusiasta. Ed ecco, ora, l’incontro con la Moratti, figura apprezzata da Berlusconi ma che rappresenta – assieme all’attuale presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, e a un ex presidente del Senato, Marcello Pera – un’avversaria interna, d’area centrodestra, per il Quirinale. Un’avversaria temibile e che potrebbe diventare, se la sua candidatura prendesse quota, assai credibile.

Anche perché, sul suo nome, far convergere i centristi (Iv-Azione-+Europa-Coraggio Italia-Noi con l’Italia) sarebbe sicuramente più facile che convincerli a ‘sposare’ una candidatura ‘divisiva’ come quella dell’ex premier del centrodestra Berlusconi. Per non dire del fatto che, sul nome di una donna e di riconosciuto equilibrio e pacatezza come la Moratti, sarebbe più facile ‘pescare’ persino dentro il centrosinistra, dove i no alla candidatura di Berlusconi appaiono, almeno a prima vista, granitici mentre gli altri nomi avanzati dal centrodestra (Casellati e Pera, appunto) non ‘scaldano’ per nulla i cuori. I dubbi dell’ex premier, che vede lo spettro dei 101 franchi tiratori subito Prodi, perciò si rafforzano.

 

Il centrodestra alla disperata ricerca di un ‘piano B’ che non è l’iniziale di Berlusconi…

D’altra parte, è la stessa coalizione di centrodestra che, se è vero che può avanzare un nome, forte dei suoi numeri di partenza, deve pensare ad alternative al nome di Berlusconi, che Pd e M5S hanno, appunto, già fatto sapere di non avere intenzione di prendere in considerazione. A mezza voce lo lascia intendere pure Ignazio La Russa, uno dei fondatori di Fratelli d’Italia: “Ci auguriamo la vittoria di Berlusconi. Se così non fosse, servono ipotesi B e C, ma sono ancora premature”. Moratti è un nome che presenta alcuni punti di forza: seppur vicina da sempre a FI, non è un’esponente di partito, piace anche a Salvini, è amica di Renzi e in generale ha un profilo che fa presa sui moderati, come dimostra il favore con cui è stata guardata dagli ambienti ecclesiali, non solo a Comunione e Liberazione, che l’ha sempre ritenuta una figura ‘vicina’.

In più, la Moratti è gradita a quanti attendono da anni la novità di una donna alla carica più alta dello Stato. Dicono che la ‘candidata’ si muova discreta ma attivissima, nelle pause dell’attività di vicepresidente della Regione Lombardia.
Chissà cosa accadrà se e quando la carta Moratti sarà calata sul tavolo del centrodestra, che non si riunisce già da un mese e mezzo, malgrado la promessa ottobrina di incontri settimanali fra i leader. Salvini ieri ha ribadito che intende vedersi con gli alleati entro questa settimana e la notizia dell’ultima ora è che i partiti di centrodestra si vedranno giovedì 23 dicembre direttamente nella ‘tana del lupo’, o ‘covo dell’aquila’, cioè a casa Berlusconi, ma quella romana, cioè la ex villa Zeffirelli sull’Appia, detta ‘villa Grande’.

Ma FdI esclude un confronto ‘vero’ prima dell’approvazione della manovra, che forse non arriverà neppure prima di Natale, al Senato, figurarsi alla Camera, per la seconda lettura, che slitterà, come minimo, tra Natale e Capodanno. Segno di distanze che permangono immutate, tra i partiti di centrodestra, divisi su nomi e strategie. Infatti, alla fine, ‘cede’ persino Salvini e dice che “faremo il punto sulla legge di bilancio, che entro giovedì sarà auspicabilmente approvata, sul decreto fiscale, sul Pnrr. Poi ci diamo appuntamento nell’anno nuovo perché di Quirinale parliamo nel 2022”. Insomma, il vertice servirà solo a ‘preparare il terreno’ per il ‘vero’ incontro, quello sul Colle, che però il centrodestra terrà solo nel… 2022. Segno concreto e tangibile di una strategia e di obiettivi che sono ancora poco chiari, tra alleati.

 

La via dritta per sbarrare la strada al Cav, in realtà, ci sarebbe: eleggere Mario Draghi…

Il paradosso è che un modo per sbarrare del tutto la strada al Colle a Silvio Berlusconi ci sarebbe, e anche facile: eleggere al Quirinale Draghi.

Possibilmente in una delle prime tre votazioni, quando è necessaria la maggioranza dei due terzi (674 voti) dei Grandi elettori (1009, appunto: in realtà mancano due seggi – uno alla Camera, dove si voterà, con le suppletive, essendo un collegio uninominale, il 16 gennaio, e uno al Senato, dove va rimpiazzato l’eletto all’Estero Cario, decaduto – ma che saranno ‘completati’ in tempo per quando Fico convocherà le Camere in prima votazione, data che potrebbe arrivare intorno al 20 gennaio), e non dal quarto scrutinio in poi, quando basterà la maggioranza assoluta (506 voti) per riuscire nella nobile, quanto assai faticosa, impresa. E se Berlusconi proprio a quello mira, cioè ad abbassare il quorum, imponendo a tutti i suoi alleati di votare scheda bianca nei primi tre scrutini, per poi cercare di spuntarla, giocandosi il tutto per tutto, dalla quarta votazione in poi, quando conta sugli apporti del gruppo Misto (114 componenti, ad oggi) e su quello dei centristi (77), la base parlamentare di partenza di Draghi è, sulla carta, vastissima, nei primi tre. Infatti, contando tutti i partiti e i delegati regionali che appoggiano l’attuale maggioranza di governo, Draghi potrebbe contare, in teoria, su 710 voti.

Certo, il partito di ‘Draghi al Colle’ esiste e resiste: è convinto da tempo che solo il presidente del Consiglio nelle funzioni di Capo dello Stato eviterebbe il voto anticipato, garantirebbe stabilità per sette anni, potrebbe seguire i dossier sul tavolo – dalla pandemia all’iter del Pnrr – e assicurare i mercati internazionali. Ora è anche il Financial Times ad indicare la strada: Draghi può servire meglio il Paese da presidente della Repubblica. Ma vale l’assunto del ministro della PA, Brunetta: “Alla presidenza della Repubblica non ci si candida. Tocca ai partiti confermare la loro responsabilità, anche sul Quirinale“. E dunque se dovranno essere le forze politiche a fare un primo passo, è altamente probabile che il premier alla conferenza stampa di fine anno si limiti a sottolineare la necessità che la legislatura vada avanti, senza scoprirsi neanche un po’. Il centrodestra ne trarrà le somme il giorno dopo, con un vertice convocato per parlare di legge di bilancio, ma che ha nel menu principale proprio il piatto del Colle.

 

Solo la Meloni vuole Draghi, tutti gli altri no…

 La leader di Fratelli d’Italia ha capito però che la sua, per nulla sottaciuta, ambizione, e cioè un terno perfetto alla lotteria Italia (mandare Draghi al Quirinale, ottenere le elezioni anticipate e, ovviamente, vincerle per risultare primo partito del centrodestra e farsi dare l’incarico di formare un nuovo governo) incontra sempre maggiori ostacoli. Draghi, al Colle, tranne sé medesimo, che ormai non nasconde più il desiderio, anche se rispetta il vecchio adagio (“al Quirinale non ci si candida, si viene candidati”), non ce lo vuole, praticamente, nessuno, tra i grandi partiti.

Il leader della Lega, Matteo Salvini, non vuole correre il rischio di elezioni anticipate, traguardo che vogliono allontanare da sé sia i suoi parlamentari – che dovrebbero fare posto a molti nuovi leghisti – sia i ceti produttivi di riferimento (lo dice Confindustria, a ogni pié sospinto, e lo pensano i piccoli imprenditori del lombardo-veneto, pur senza dirlo) sia il ‘partito nel partito’, quello guidato dal ministro Giancarlo Giorgetti e dai governatori del Nord, che vogliono mantenere il quadro e l’assetto politico attuale ‘stabili’ il più possibile nella speranza di fargli, prima o poi, le scarpe e andare al voto a capo di una Lega ‘nuova’, moderata e liberale, tutto il contrario di quella attuale, sovranista. Salvini, invece, non potrebbe ‘reggere’, al suo interno e presso il suo elettorato di riferimento, un altro governo a guida di ministri ritenuti ‘minori’ (Franco o Cartabia) senza continuare a pagar dazio, in termini di consensi, alla Meloni e a FdI, che già ora glieli erode via via, a ogni sondaggio che esce.

Neppure Pd e M5s vogliono, ovviamente, spostare Draghi da dov’è, cioè da palazzo Chigi, sia perché ogni soluzione alternativa (Franco, pessimo per il Pd, o Cartabia, pessima per i 5S) sarebbe al ribasso e li costringerebbe a continuare a donare il sangue a un governo iper-tecnocrate, sia perché pensano che, ‘sfinendo’ e ‘logorando’ Draghi al governo per un altro anno dopo questo (l’interno 2022) ne ammazzerebbero, nella culla, ogni desiderio, seppur recondito, di mettersi alla guida di uno schieramento liberale, moderato e/o progressista, alle prossime elezioni politiche. Schieramento che pensano, sia Letta che Conte, di poter guidare in perfetta, solitaria, autonomia.

Anche se la pura, e cruda, verità è che il ‘boccino’ sta tutto nel campo del centrodestra. Il centrosinistra, questa volta, non toccherà palla. Al massimo potrà dire dei ‘no’ (a Berlusconi, etc.) ma non ha la forza per avanzare suoi candidati e tutti i nomi che pure si fanno (Gentiloni, Sassoli, Bindi, Finocchiaro) non hanno i voti.

Non vogliono Draghi al Quirinale neppure i centristi, da Matteo Renzi fino ai gruppi minori, terrorizzati dalla prospettiva del voto anticipato, se il premier andasse al Colle, sicuri che il quadro politico non reggerebbe un minuto, senza di lui, e a loro volta speranzosi che Draghi, al governo, non finirebbe che per logorarsi, come Pd e M5S, dato che anche loro ne temono la eventuale capacità ‘politica’ di raggruppare, attorno a sé, uno schieramento centrista, liberale e moderato che i vari attori dell’attuale centro e centrini vari (Renzi, Calenda, Mastella, Toti) vogliono per sé.

La stessa paura e preoccupazione alberga nei cuori – non certo ‘di leone’ – dei parlamentari privi di partito come di bandiera, i ‘disperati’ del Misto (114 componenti, sommati tutti) che, però, non fanno calcoli così raffinati, ma uno solo e molto semplice: arrivare a fine legislatura, guadagnarsi un altro anno di stipendio ‘sicuro’ (120 mila euro, a spanne) e, soprattutto, la pensione che arriva solo se i contributi maturati hanno coperto 4 anni e 6 mesi esatti di legislatura, per quelli di prima nomina (il 64% delle Camere), data fatidica che scatta solo il 24 settembre 2022.

Un calcolo forse bieco, e ‘piccolo’, ma concreto, e che vede, in Draghi, il nemico pubblico n. 1 dei tanti peones, ove mai ascendesse al Colle, per le ragioni di cui sopra, le stesse di Pd-M5s-Lega-Iv.

 

Resta una sola certezza: Mattarella non dà bis, ma invita tutte le istituzioni alla ‘concordia’

Quali certezze restano, dunque, mentre si avvicina sempre più la data d’inizio del ‘Gran Ballo del Quirinale’? Pochissime, forse una. Sergio Mattarella, sferzando la classe politica sui compiti inani che l’attendono (pandemia, Pnrr, ripresa economica), prende ogni giorno di più ‘congedo’ dall’incarico sostenuto per sette anni. Lo ha fatto dal Papa, con gli ambasciatori e, ancora ieri, davanti alle Alte cariche dello Stato, dicendo che lo “spirito collaborativo” che tutti i livelli istituzionali hanno messo in atto durante la pandemia deve diventare “un tratto stabile dei rapporti istituzionali”, compresa l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.

Chi ha orecchie per sentire, sembra dire Mattarella neanche troppo implicitamente ai partiti, ascolti e metta in pratica anche nell’anno nuovo. Sarebbe il modo a lui più gradito di congedarlo con la certezza di aver lasciato al Paese un’eredità “di sistema” duratura. O quasi.

 

Foto: Il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi a Roma con il premier Mario Draghi alle consultazioni di febbraio 2020.

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