Quante ambiguità nel matrimonio
di convenienza tra destra e Netanyahu

L’Italia di Giorgia Meloni e l’Israele di Benjamin Netanyahu non potrebbero vantare migliori relazioni bilaterali: i mesi successivi all’insediamento del governo a guida Fratelli d’Italia (FdI) hanno registrato un’intensificazione delle visite di Stato e degli scambi diplomatici ad alto livello. Con una serie di eventi concentrati a marzo – il 6 marzo la visita in Israele del presidente del Senato Ignazio La Russa; il 10, quella del primo ministro israeliano a Roma; dal 12 al 14 la missione del ministro degli Esteri Antonio Tajani a Tel Aviv – in vista di un’accelerazione della cooperazione economica tra i due Paesi, lanciata verso un “salto quantico”, secondo l’espressione usata dal premier Netanyahu al Forum economico per le imprese italiane nel marzo 2023.

La sintonia tra i due governi conservatori è forte e facilita l’intesa rispetto a progetti di interesse strategico, tra cui il potenziale allacciamento dell’Italia al gasdotto Eastmed Poseidon – un progetto avanzato da un consorzio (Igi Poseidon) per metà di proprietà dell’italiana Edison e per l’altra della società greca Depa – che potrebbe portare gas liquefatto in Puglia, lo scambio di alta tecnologia militare e quello commerciale in vari settori di punta come la sicurezza, l’energia rinnovabile, la digitalizzazione, l’agricoltura e la transizione ecologica, come testimoniato dalla partecipazione al Forum di cinquanta tra le maggiori aziende italiane (Eni, Enel, Fincantieri, Snam, Leonardo, Iveco, Thales Alenia, Cassa Depositi e Prestiti, Ferrovie dello Stato, Granarolo, Acea, Iren, Poste, Confagricoltura e così via). Un’intesa rinsaldata dalle parole del ministro per l’Innovazione israeliano Ofir Akunis, che, intervenendo in un’iniziativa promozionale della Leonardo a Tel Aviv in presenza del ministro degli Esteri Tajani, ha definito l’Italia “uno degli Stati più influenti in Europa per Israele”.

La vicinanza a Israele è stata espressa dalla presidente del Consiglio Meloni senza ambiguità fin dal suo insediamento (ottobre 2022), analogamente alla scelta atlantista e al sostegno militare all’Ucraina. In linea con tale orientamento, lo scorso 19 dicembre Meloni ha accolto l’invito a presenziare la cerimonia di celebrazione della ricorrenza di Hanukkah al Museo ebraico di Roma in presenza di eminenti personalità della comunità ebraico romana, come il rabbino capo Riccardo di Segni e la presidente Ruth Dureghello, pronunciando un intervento durante il quale si è commossa  di fronte “all’esempio di resilienza, fede e coraggio espresso dal popolo ebraico nonostante le atrocità subite e l’ignominia delle leggi razziali” del 1938.

Meloni ha voluto così esprimere la propria vicinanza emotiva ma anche un riconoscimento storico ai valori di testimonianza e tutela della libertà difesi dalla comunità ebraica, da cui “la preservazione della sua identità”. Tuttavia le polemiche non hanno risparmiato questa apparente riconciliazione tra Fratelli d’Italia, partito erede del Movimento sociale italiano (Msi) – a sua volta ricomposizione sotto altre spoglie del Partito nazionale fascista dopo la Seconda guerra mondiale – e la comunità ebraica, tacciata da molti ebrei italiani e israeliani di rispondere a una logica politica strumentale. Orientata a presentare Hanukkah come un esempio di fedeltà a una tradizione atavica e di “resistenza all’omologazione”. O, per lo più, come il frutto di una commozione tardiva, dopo approssimativamente trenta su quarantasei anni di vita trascorsi a onorare acriticamente l’eredità politica fascista di Mussolini tramandata da Almirante. Alcune voci della comunità ebraica si sono anche levate contro l’eccessiva accondiscendenza delle autorità ebraiche, propense ad avallare una rilettura revisionista della storia d’Italia, atta a ridimensionare la responsabilità fascista in cambio del riconoscimento ufficiale del contributo positivo della presenza ebraica in Italia oggi.

A questa visita è seguita quella del presidente del Senato Ignazio La Russa in Israele il 6 marzo scorso. Venti anni prima, tra il 23 al 26 novembre del 2003, c’era stato quello di Gianfranco Fini, allora vicepresidente del Consiglio nel governo Berlusconi II e membro di Alleanza Nazionale (An). Un viaggio che aveva avuto luogo dopo la solenne condanna delle leggi razziali pronunciata al Congresso An di Fiuggi nel 1995: un sacrificio morale e simbolico imposto ai militanti per sdoganare Allenza Nazionale dall’ingombrante peso del suo passato, in vista dell’ingresso a pieno titolo nell’area di legittimità politica repubblicana. La “svolta di Fiuggi” era arrivata dieci anni dopo la cooptazione di An da parte di Forza Italia nel primo governo Berlusconi, il 10 maggio 1994: una data spartiacque avvertita dalla parte allora maggioritaria dell’opinione pubblica come uno shock profondo e un momento di smarrimento di fronte alla rottura simbolica con i valori antifascisti fino a quel momento condivisi da tutte le forze di governo. All’ingresso di An al governo aveva infatti risposto il 25 aprile 1995, una delle più grandi manifestazioni di piazza per le celebrazioni della Resistenza – con un milione di persone nella sola Milano – per ribadire la tenuta di quel collante etico su cui si reggeva la Costituzione italiana.

A destra l’allora vice primo ministro italiano Gianfranco Fini, durante la visita del Memoriale dell’Olocausto Yad Vashem a Gerusalemme, il  24 novembre 2003 (foto di Kevin Unger/Pool/Afp)

Oggi il governo FdI è uscito trionfante dalle urne con il 26 per cento dei consensi e non ha più bisogno di accreditarsi sulla scena politica, e il presidente del Senato La Russa ha deciso di compiere il suo primo viaggio ufficiale all’estero in Israele – e non a Kiev – assegnando una priorità simbolica alla ormai consolidata riconciliazione tra le due tradizioni politiche, neofascista e ebraica. A Gerusalemme, inginocchiandosi di fronte al Muro del Pianto, ha denunciato come di rito la Shoah definendola un episodio di “odio bestiale” che occorre bandire per sempre dalla Storia, ma ha anche ribadito il principio che “Israele va tutelato nei suoi diritti”, difendendone non solo l’esistenza ma anche la sua “libertà e indipendenza”.

L’impressione generale è che FdI abbia definitivamente portato a compimento quel processo di graduale allontanamento dell’Italia dal principio di equidistanza nel conflitto ormai in corso negli ultimi vent’anni e, in particolare, dal definitivo stallo degli Accordi di Oslo a partire dalla Seconda Intifada nel settembre 2000, ripetendo il vuoto mantra della “soluzione a due Stati” solo ed esclusivamente nei vertici internazionali e non più in quelli bilaterali.

Israele è ormai un alleato fidato della Destra conservatrice europea (e del partito dei Conservatori Europei al Parlamento europeo), inclusa quella di diretta derivazione fascista, e poco importa che l’intensificazione delle visite tra i due Paesi, di per sé positiva e proficua, sia avvenuta mentre erano in corso le maggiori manifestazioni che il Paese ebraico abbia mai conosciuto a difesa dello stato di diritto e dell’indipendenza del sistema giudiziario, su cui nessuno degli esponenti di FdI sembra essersi voluto pronunciare. Avendo infatti FdI conseguito attraverso l’attuale solida alleanza con lo Stato ebraico una legittimazione internazionale importante, anche presso gli Stati Uniti, è ipotizzabile che nei prossimi anni il governo italiano non sarà più interessato a mostrarsi garante in sede Onu o in altri consessi del diritto internazionale nei Territori occupati palestinesi (Opt) in Cisgiordania.

Un’avvisaglia in tal senso è già emersa nell’episodio che ha visto lo scorso 15 marzo il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen “scoraggiare” una visita di Stato dell’Alto commissario per le Relazioni estere dell’UE, Josep Borrell, dopo le sue critiche sulla prosecuzione indiscriminata della politica degli insediamenti e la difesa degli equilibri tra i tre poteri dello Stato, bollate da Cohen come “una pesante intromissione negli affari interni”, senza incorrere in alcuna reazione dalle cancellerie europee, inclusa quella italiana.

Alcuni manifestati in strada a Tel Aviv contro la riforma della giustizia voluta da Benjamin Netanyahu. 4 marzo 2023 (foto di Gili Yaari/NurPhoto via Afp)

Se i Paesi Visegrad – a eccezione della Polonia e del suo revisionismo storico sulla Shoah – sono tradizionalmente stati sempre compiacenti nei confronti della politica israeliana, quelli Baltici si sono riconciliati con Israele nel 2018 in funzione anti-russa (ovvero per importare le tecniche israeliane di protezione civile nei rispettivi Stati) e la Germania, indipendentemente dai colori dei governi, esprime una storica reticenza a criticare Israele, è probabile che adesso il Governo italiano a guida FdI, memore delle leggi razziali, si allinei a qualsiasi decisione israeliana, allargando il fronte dei Paesi europei conniventi.

Un’intenzione già contenuta nelle parole di Meloni in una video intervista del 2020, quando dichiarò di voler difendere “il diritto di Israele ad esistere senza le vergognose ambiguità della Sinistra”. Mentre Netanyahu, durante la sua ultima visita a Roma, ha ammesso di temere di più l’antisemitismo di certe fazioni estreme di sinistra che, “guidate dall’odio verso Israele, sono pronte ad allearsi con jihadisti e Islam radicale che disprezzano i diritti delle donne”.

In generale, è difficile non notare come Israele e le sue politiche siano sempre oggetto in Europa di un atteggiamento di particolare cautela e di uno sguardo filtrato attraverso il prisma della Seconda guerra mondiale. Per descrivere la parzialità di giudizio di cui gode lo Stato ebraico nell’Unione Europea, il politologo Roberto Farneti ha coniato l’espressione “effetto Israele”, tentando di cogliere l’impatto dirompente e polarizzante che eventi, opinioni e azioni di Israele rivestono nella politica europea, posta la premessa che il riconoscimento della Shoah sia oggi più che in passato il biglietto di ingresso per entrare a far parte dell’Europa. Nell’omonimo libro del 2015 (Effetto Israele. La sinistra, la destra e il conflitto mediorientale), Farneti scrive che “la centralità dell’Olocausto in un discorso sull’identità europea e sulla intrinseca normatività morale si vede nel piano di azione adottato dal Consiglio di associazione tra UE e Israele in cui si riconosce l’antisemitismo come il principale ostacolo all’integrazione dei potenziali Stati membri della UE”.

Da qui la corsa di tutti i partiti di estrema destra, nazionalisti e xenofobi nei confronti delle altre minoranze, ad affrancarsi dall’accusa di antisemitismo attraverso un riannodato dialogo con le comunità ebraiche diasporiche ma anche con visite in luoghi-simbolo della “memoria”, come anche i viaggi di Fini e La Russa a Gerusalemme e dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno ad Auschwitz confermano. Farneti conclude che mentre la Destra ha compiuto un passo decisivo dagli anni ’90 in poi verso una “politica centrata sull’identità” (in particolare divisa lungo la linea di frattura atlantismo/russofilia), la galassia di partiti della Sinistra sconta ancora un ritardo in questo senso, collocandosi lungo lo spettro novecentesco di destra e sinistra rispetto ai temi. Come la rappresentanza del lavoro operaio, la cui base sociale, però, non riflette più (Farneti, Effetto Israele, Carocci, 2015, pag.47).

Sulla stessa linea interpretativa, lo storico britannico Mark Mazower sostiene cinicamente che sia facile per tutte le forze di Destra di oggi ammettere la Shoah ed esprimere un pentimento, più meno sincero, nei confronti della violenza barbarica che l’ha caratterizzata, perché essa è un crimine passato e non ripetibile e perché oggi gli ebrei hanno trovato una loro patria (Israele) e non sono più presenti in grandi percentuali in Europa, non rappresentando più una minaccia per le rispettive maggioranze. Mazower descrive il secondo dopoguerra come il periodo in cui “la macchia che aveva reso il modello europeo di convivenza impossibile (è) stata rimossa e il suo veleno spostato altrove”.

Così l’Europa oggi, in piena sicurezza, si permette di criticare Israele ancora alle prese con un’irrisolta questione territoriale dal sapore novecentesco a cui “avrebbe contribuito in maniera non eticamente responsabile, consapevole delle origini del problema, predicando un’etica della convivenza dalla vetta privilegiata della sua condizione post-hitleriana: l’assenza di conflitti identitari”. (Mazower, M., Dark Continent: Europe’s 20th Century, 1999). In sintesi, l’Europa avrebbe risolto la questione dell’omogeneità nazionale espellendo gli ebrei e creando 11 milioni di rifugiati al termine della guerra, ma bandendo l’incubo di stati multinazionali, sopravvissuti solo alle sue periferie, come i Balcani, non a caso nuovamente oggetto di violenze interetniche negli anni ’90.

Complementare alla lettura di Mazower, ma arricchita di ulteriori spunti sulla naturale saldatura tra Israele e le Destre europee è la tesi sul nuovo filo-semitismo europeo elaborata dal drammaturgo israeliano e editorialista di Ha’aretz Yitzhak Laor, che descrive la norma imposta nel dopoguerra come quella di “una vita nazionale completa in uno Stato che ha una sola lingua, un solo popolo ed un solo territorio”: un modello verso il quale Laor vede convergere tanto la Destra europea che il sionismo  con l’invenzione del “nuovo ebreo”.

Egli osserva polemicamente nel saggio Filosemitismo che “gli Europei, che in altri tempi si erano così ben distinti dall’ebreo considerato come uno straniero (…) possono oggi darsi da fare per amarlo, intanto perché ormai è loro simile, e poi perché non vive più tra loro“, sostenendo che “la nuova Europa (abbia) bisogno del nuovo antisemitismo per commemorare il passato, per consacrarsi alla tolleranza di quell’Altro che adesso le assomiglia, e per cancellare il vero Altro con l’odio per il fondamentalismo musulmano”. In definitiva, Israele sarebbe stato incluso nel “club occidentale” e ormai, la nuova linea di faglia identitaria non passerebbe più nella distinzione tra cristiani ed ebrei, ma tra cristiani e musulmani, attualmente percepiti come un “corpo estraneo” e, di conseguenza, oggetto di nuove discriminazioni negli ultimi cinquant’anni, a seguito delle loro massicce ondate migratorie verso l’Europa.

Oltre alle contingenti convenienze politiche, c’è infatti un tratto strutturale che accomuna Israele, in particolare negli ultimi trent’anni a prevalente guida Likud, e le Destre conservatrici e populiste europee: il rifiuto categorico del carattere multietnico e multiculturale delle società democratiche contemporanee. “L’aspirazione alla separatezza, il desiderio umanissimo di rimanere se stessi, padroni in casa propria, gelosi custodi di una realtà dai contorni riconoscibili” (Andriola, La nuova destra in Europa) corrisponde al principio del “differenzialismo” propugnato da tutte le estreme Destre europee, proiettato nel modello di un’Europa delle piccole patrie o “dei patrioti”, come ama più spesso definirla FdI.

La riproposizione di legami premoderni, consuetudinari, famigliari, corporativi, religiosi e localistici è un tema ricorrente, comune a tutte le Destre che associa profondamente l’ala religiosa e nazionalista israeliana, che vorrebbe rigettare la tradizione europea in nome di una presunta purezza ebraica, ai suoi alleati conservatori o postfascisti europei, che si immaginano una collettività di Stati o regioni indipendenti abitati al loro interno da comunità coese, caratterizzate dall’omogeneità etnica, sociale e spirituale, e per questo strenui difensori di una politica fortemente restrittiva dell’immigrazione.

Come afferma uno dei teorici della Nuova Destra europea Guillaume Faye, nella sua opera Archeofuturismo (1998), da cui anche FdI trae ispirazione, la “modernità va rigettata e con essa i diritti astratti dell’uomo”, mentre le comunità nazionali, regionali o locali di appartenenza vanno rivitalizzate compiendo una rivoluzione capace di fondere passato e presente, arcaismo e futurismo, ovvero il richiamo a valori ancestrali – famiglia, religione, onore – con un forte dinamismo, inteso come capacità di plasmare il futuro con indipendenza, creatività e potenza.

Un messaggio simile a quello contenuto nel manifesto de “La nuova Destra dell’anno 2000” scritto da Alain de Benoist, forse il più celebre ideologo di destra del superamento delle categorie novecentesche di destra e sinistra, insieme al suo allievo Charles Champetier in cui si contesta “l’individualizzazione attraverso la distruzione delle antiche civiltà di appartenenza e la massificazione di comportamenti e modi di vita standardizzati, la desacralizzazione (del mondo) attraverso l’abbandono dei grandi insegnamenti religiosi a profitto di una sola interpretazione scientifica”.

La nuova Destra si affranca dal fascismo ma propugna una miscela di conservatorismo sociale, critico delle troppo ampie libertà concesse alle minoranze, soprattutto LGBTQIA+, e rifiuto della globalizzazione che parla alla Destra ebraica, sostenitrice dell’esclusività ebraica, propugnatrice di un modello etnonazionalista e interessata a intrattenere buone relazioni con governi europei sotto scacco costante dell’antisemitismo. Il matrimonio di convenienza tra i due governi è dunque destinato a prosperare e tuttavia è probabile che le vittime sacrificali di questa unione siano la Storia, oggetto di continuo revisionismo da parte dell’attuale governo italiano, e la comunità ebraica italiana, generalmente associata alla difesa di quei valori antifascisti da cui oggi lo Stato di Israele si è completamente affrancato.

Come già anticipato dalle dubbie esternazioni di Meloni e La Russa sulla strage delle Fosse Ardeatine il 24 marzo, è probabile che il mese di aprile, contraddistinto dalle celebrazioni della Resistenza il prossimo 25 aprile, sarà oggetto di accese polemiche tra Destra, Sinistra e comunità ebraica in Italia, con il Governo che tenterà di sminuire l’impatto politico delle commemorazioni adottando una retorica istituzionale e qualche esponente di FdI che cercherà di riabilitare parenti, commilitoni e avi attraverso operazioni di più o meno marcato revisionismo storico.

Tuttavia è evidente che dopo il 25 aprile il dibattito tornerà a tacere a favore del Governo, che l’antifascismo diventerà progressivamente sempre meno centrale come collante sociale sul piano interno, estinguendosi nelle attuali generazioni la memoria del trauma della guerra e le testimonianze viventi dei partigiani, e che la memoria della Shoah, eretta a emblema assoluto del male ma privata del suo contesto storico, non rappresenterà più quel monito morale alla ripetizione di violenze xenofobe e razziste che si prefiggeva di essere in Europa, e tantomeno in Israele. Perché, come ben riassume Laor, non si tratta più di “perpetuare la memoria del genocidio, ma di consolidare una nuova ideologia dell’esclusione”­.

Foto di copertina: Giorgia Meloni e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante una conferenza stampa congiunta dopo l’incontro del 10 marzo 2023 a Palazzo Chigi (foto di Alberto Pizzoli/AFP)

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