Lo scacchiere libico, quale ruolo per l’Italia?

Non essere tagliati fuori dalla “partita libica”. Rivendicare un ruolo di primo piano nella “cabina di regia” internazionale, un ruolo che rischia di saltare in un conflitto che ormai da tempo ha assunto i caratteri di una guerra per procura, condotta da attori regionali (Turchia, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Qatar) e globali (Russia e, sia pur più defilata, l’America) che intendono mettere le mani sulla “torta” multimiliardaria, legata allo sfruttamento delle risorse energetiche – gas e petrolio- e alla ricostruzione. Sostenere al-Sarraj e, al tempo stesso, non rompere il già deteriorato rapporto con l’uomo forte della Cirenaica: il generale Khalifa Haftar.

 

Un equilibrismo politico-diplomatico al limite della “mission impossible” è quello condotto dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio nella sua intensa missione in Libia del 17 dicembre , che lo ha portato prima a Tripoli e successivamente a Bengasi. La posizione italiana resta quella di sempre: la soluzione della crisi in Libia “non può essere militare”. Un concetto che Di Maio ha ribadito, con diverse declinazioni, sia negli incontri con le massime autorità del Governo di Accordo Nazionale (GNA), l’unico riconosciuto internazionalmente, guidato da Fajez al-Sarraj, che negli incontri a Bengasi con il generale Haftar, forte del sostegno politico e militare di Russia, Egitto, EAU e Arabia Saudita, e col presidente della Camera dei rappresentanti (il Parlamento di Tobruk) Aghila Saleh. L’errore è alla base. L’Italia sta uscendo dalla partita libica perché non ha capito, o voluto intendere, Libia, da guerra per procura a “guerra del Mediterraneo”. Altro che disputa italo-francese: al centro dello scontro che sta marchiando da anni il paese nordafricano c’è anzitutto una partita intersunnita che vede in prima linea, e su fronti opposti, la Turchia di Recep Tayyp Erdoğan e l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi. E ora il confronto potrebbe coinvolgere anche la Grecia, in funzione anti-turca. Nel caso di un “invito” da parte del governo di Fayez al-Sarraj a compiere un intervento militare, “la Turchia deciderà autonomamente che tipo di iniziativa prendere”, ha affermato il presidente turco criticando il sostegno di Russia, Emirati Arabi Uniti ed Egitto al generale Khalifa Haftar e aggiungendo di volerne discutere in una telefonata con Vladimir Putin. Le affermazioni del leader di Ankara giungono dopo il memorandum d’intesa sulla demarcazione dei confini marittimi siglato il 27 novembre scorso a Istanbul con Sarraj.

Offensiva mediterranea
Immediata la risposta di Atene. Il memorandum d’intesa firmato tra la Turchia e il governo libico di Tripoli il mese scorso sulle frontiere marittime “è una minaccia per la stabilità regionale”, dichiara il portavoce del governo greco Stelios Petsas in una conferenza stampa, secondo quanto riferisce il sito Ekathimerini. La Grecia ha inviato due lettere all’Onu per chiedere un intervento delle Nazioni Unite, delineando le obiezioni all’accordo, visto come un tentativo di espandere i diritti di trivellazione turca nel Mediterraneo orientale. Ankara è già impegnata in un braccio di ferro sui giacimenti al largo di Cipro. Ha inviato tre navi per le prospezioni senza un accordo con il governo cipriota ed è in linea di collisione con altri Paesi interessati, soprattutto Grecia, Italia e Israele. Erdogan ha anche alluso al progetto di gasdotto da Israele e Cipro verso l’Europa, che non potrà attraversare le nuove acque territoriali turche “senza il nostro consenso”. L’offensiva nel Mediterraneo orientale ha suscitato reazioni negative nelle altre capitali. Nicosia è allarmata, Atene è sul piede di guerra ha anche alzato il livello di allerta per suoi Mirage 2000 5D, armati con missili anti-nave Exocet. Nell’area ci sono anche unità militari italiane, mentre in Libia l’Italia ha un piccolo contingente a Misurata, a protezione dell’ospedale militare che serve i cittadini dell’area. Misurata è anche la città con i più stretti rapporti con la Turchia, fin dai tempi dell’Impero ottomano. Ora le milizie della città, già protagoniste della battaglia contro l’Isis a Sirte nel 2016, sono in prima linea nella difesa di Tripoli. Le milizie fedeli ad Haftar continuano però ad avanzare. Sul fronte diplomatico il presidente del Parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, è andato al Cairo per discutere dell’accordo marittimo turco-libico. In tandem con l’alleato egiziano ha invitato l’Onu a “non ratificarlo” e ora andrà in altre capitali arabe per creare una coalizione contraria all’intesa e bloccarla. Non c’è solo Erdoğan tra i “nemici” esterni di Haftar. Anche il presidente Usa Donald Trump ha criticato duramente il generale libico: “Sta facendo un gioco molto pericoloso e non ha idea di quanto costerà al grande popolo libico, ha twittato Trump. Che ha accusato Haftar di far affidamento su “alleati sbagliati, che lo porteranno a una grande e amara sconfitta”. E ha aggiunto: “La Libia ha già un governo riconosciuto a livello internazionale e non ha bisogno di niente di nuovo” Gli Stati Uniti lo scorso aprile, poco dopo l’avvio dell’offensiva militare di Haftar contro il governo di accordo nazionale di Tripoli, avevano espresso il proprio sostegno al generale libico.

Tuttavia, la crescente presenza di mercenari russi al fianco di Haftar, denunciata nelle ultime settimane da stampa e funzionari Usa, ha innescato un maggior attivismo da parte americana, in particolare del dipartimento di stato Usa, che lo scorso novembre ha accusato la Russia di “sfruttare il conflitto”, chiedendo al generale libico di fermare l’offensiva. Secondo l’intelligence occidentale sarebbero 1.400 e hanno spostato l’equilibrio a favore del maresciallo attorno a Tripoli.  A ciò si aggiunge la rivelazione del sito Debkafile secondo cui ad abbattere due settimane e mezzo fa un drone Usa in Libia sarebbe stato un sistema di difesa anti-aereo russo azionato dai mercenari russi del Wagner Group o dai combattenti dell’Esercito nazionale libico di Khalifa Haftar cui lo stesso Wagner Group avrebbe messo a disposizione il dispositivo.  Da tempo Mosca sta rifornendo l’Esercito di Haftar di una vasta gamma di strumenti offensivi avanzati – che vanno dalle armi di precisione, ai fucili per cecchini, fino ai sistemi anti-aerei – che hanno l’effetto, rimarca Frederic Wehrey, di offrire ad Haftar un notevole margine di vantaggio tecnologico. E l’Italia in tutto questo? Nulla più del solito mantra: “La Libia è un tema che preoccupa tantissimo l’Italia e deve preoccupare anche l’Ue. Non abbiamo più tanto tempo”, ripete Di Maio.

Una linea attendista che non paga. La situazione del conflitto civile sta degenerando ancora, avverte Di Maio, che chiede a “tutti i Paesi” dello scacchiere internazionale che interferiscono nel conflitto di cessare di farlo e “permettere un cessate il fuoco”. L’Ue – afferma – rischia l’irrilevanza perché gli attori in campo sono di una comunità internazionale sempre più ampia”. Il titolare della Farnesina continua a ripetere che “non esiste una soluzione militare alla crisi libica”. È un’analisi che non considera un fatto rilevante: lo strumento militare è ormai centrale per definire i rapporti di forza al tavolo dei negoziati, e ignorarlo non aiuta a difendere gli interessi nazionali italiani. L’ambasciata italiana riaperta a Tripoli è in continuo stato di allarme così come l’ospedale militare italiano operante vicino all’aeroporto.

Le mosse di Ankara
In gioco ci sono anche gli interessi dell’Eni che si sta cautelando cercando di estendere la sua attività nella vicina Algeria, ma anche di tutti quegli italiani che avevano investito in Libia ai tempi di Gheddafi e che hanno subito forti perdite o addirittura ridimensionamenti totali dalla guerra civile e che attendono una cessazione delle ostilità per cercare di recuperare i danni subiti e per riprendere l’attività. Ma la situazione attualmente sembra volgere al peggio. Storia, geopolitica, petrolio, ricostruzione: è il mix di ragioni che spingono Erdoğan a mettere le mani sulla Libia. Durante il regno Ottomano, i turchi colonizzarono e dominarono la vita politica della regione, e la composizione etnica della Libia cambiò sostanzialmente con la migrazione dei turchi dall’Anatolia nel Maghreb, fino all’Algeria, con la determinazione di una nuova entità etnica locale, i “Kouloughlis”, una popolazione con sangue misto turco e maghrebino. Nel 2011, anno della caduta di Gheddafi, i cittadini turchi residenti in Libia erano circa 25.000. Fredde in precedenza, le relazioni tra Ankara e Libia si rafforzarono quando, a seguito dell’embargo militare decretato dagli Usa alla Turchia per l’intervento a Cipro nel 1974, fu la Libia a garantire all’aviazione turca i pezzi di ricambio per i caccia di fabbricazione statunitense in dotazione. D’allora, l’incidenza turca in Libia è cresciuta esponenzialmente. Quando l’allora primo ministro e attuale presidente della Turchia, nel settembre 2011 fece visita a Tripoli, ricevette un’accoglienza da star da parte dei libici.

Oggi, la Libia è il terzo partner commerciale della Turchia in Africa. Sono innumerevoli i trattati bilaterali tra i due paesi, tra i quali vanno ricordati l’Accordo per il rafforzamento della cooperazione economica e tecnica (1975) e l’Accordo bilaterale per gli investimenti e la protezione (2009). I due paesi hanno inoltre deciso di dar vita, l’anno prossimo, a un accordo di libero scambio. Non basta. La Turchia è tra i maggiori investitori in Libia. Sono stati firmati accordi per realizzare progetti d’intervento in Libia, in particolare nel settore delle infrastrutture, che superano i venti miliardi di dollari. In termini di quantità di lavoratori impiegati nella realizzazione di opere all’estero da parte della Turchia, la Libia è il secondo mercato dopo la Russia.

La crisi siriana ha fortemente indebolito le rotte del petrolio da Arabia Saudita, Iran, Iraq e stati del Golfo. E questo ha portato Ankara a puntare decisamente, nella “battaglia del petrolio”, al sud del Mediterraneo e dunque alla Libia. Mentre altri patteggiavano sotto traccia con milizie o andavano alla ricerca, in terra libica, di improbabili uomini forti a cui affidare il ruolo di gendarme del Mediterraneo, la Turchia ha sviluppato una penetrazione a trecentosessanta gradi, dalla cultura all’alimentazione.  I turchi hanno aperto a pioggia ristoranti e negozi, mentre diciannove miliardi di dollari sono stati investiti nel campo delle costruzioni attraverso la Turkey Contractors’ Association. Quel che è certo è che ora Erdoğan giocherà qualche asso nella manica per ribadire la presenza necessaria di Ankara sul tavolo libico. E questa carta potrà essere, inevitabilmente, quella dei Fratelli musulmani. Una carta fondamentale, condivisa dalla Turchia e dal Qatar, alleati in Medio Oriente e anche nella partita libica. Una linea che porta allo scontro frontale con l’Egitto. Per i militari egiziani, il pericolo dei Fratelli musulmani – al potere prima del golpe del 3 luglio 2013 – è ancora forte e una Libia in mano a forze a loro vicine è una minaccia ancora maggiore di un conflitto in territorio libico. Piuttosto che assistere all’affermarsi di un governo ostile a Tripoli, al-Sisi punterebbe decisamente al dissolvimento della Libia come stato unitario e alla creazione di uno “stato-protettorato” della Cirenaica, governato attraverso il fedele Haftar. E così, il futuro riporterebbe al passato: e come nel passato, Egitto e Turchia sarebbero su fronti opposti. E sul fronte pro-Haftar ora potrebbe entrare anche la Grecia. E Roma sta a guardare.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *