Febbre da contagio e isteria anti-cinese. La “visione” di Jack London

I cinesi fanno paura. Ma c’è un rimedio: sterminarli. Con un virus. Anzi, con una molteplicità di virus, “coltivati nei laboratori batteriologici dell’Occidente”. “Colui che sfuggiva al vaiolo soccombeva alla febbre gialla. Chi non fosse contagiato dal colera, cadeva preda della scarlattina. Chi resisteva a questa veniva falciato dalla ‘Morte nera’, cioè dalla peste”. Il piano americano prevede l’isolamento totale della Cina ad opera degli eserciti e delle flotte congiunte di Stati uniti, Giappone, Russia, Germania, Austria, Turchia e ovviamente Italia.

Lo immagina Jack London in un racconto pubblicato nel 1910, intitolato “L’invasione della Cina”. In un altro racconto, del 1912, “La peste scarlatta”, il contagio si estende all’intero pianeta. Gli Stati Uniti tornano allo stato selvaggio. Dell’Europa non si hanno più nemmeno notizie. A raccontare il tutto ai pronipoti è uno dei pochissimi sopravvissuti. Lo scrittore immagina che la catastrofe abbia avuto luogo nel 2013 (suppergiù ai giorni nostri). Quando la Terra ha 8 miliardi di abitanti (pressappoco la popolazione di oggi). Non si salvano nemmeno i più ricchi, che avevano fatto Presidente uno ricchissimo. Pagano l’arroganza, la noncuranza per i più deboli e per l’ambiente. Inutilmente cercavano di fuggire con i loro “aeromobili” privati verso rifugi paradisiaci. Il contagio, che non guarda in faccia nessuno, se l’erano portato dietro, anzi li aveva preceduti.

Il primo di questi due racconti parla di un colossale complotto geopolitico volto a fermare una Cina che si era risvegliata dal millenario torpore, esportava e prosperava, non dipendeva più, né aveva bisogno di piegarsi a nessuno. Il secondo, del diffondersi del panico e della disperazione, degli inutili egoismi, del rapidissimo sgretolarsi di civiltà e convivenza. Ancor più rapidamente del virus si era diffusa la paura. Più di tutto, quando cessarono anche le trasmissioni dei notiziari, tacquero i radio-telegrafi, “destava stupore, sgomento, la mancanza di comunicazione con il resto del mondo”. Più spaventoso ancora delle false notizie era il non avere più alcuna notizia.

Di lì a pochi anni sarebbe sopravvenuta la Grande Guerra, a sconvolgere tutte le cabale geo-politiche planetarie. E poi nel 1918 il virus della Spagnola, a far venti milioni di morti, molti di più di quelli che erano rimasti uccisi nella guerra. Capita ai grandi scrittori di essere profeti. Così come ai migliori profeti capita di essere strabici. O peggio, di vederci giusto, ma stare dalla parte sbagliata. L’ideatore di “Zanna Bianca” era un populista col cuore a sinistra, un amante della natura, ma anche un odioso razzista. Nel “Tallone di ferro”, pubblicato nel 1907, aveva immaginato per il 1932 una dittatura di estrema destra negli Stati Uniti. Sbagliato. Ma di poco. Nel 1932 gli Stati Uniti elessero Roosevelt. Un anno dopo, nel 1933, fu la civilissima Germania a finire sotto il tallone di ferro nazista.

Non è questione di profezie. Basta sapersi guardare intorno. Il riferimento di London non era il lontano futuro, e nemmeno l’estremo Oriente, dove pure aveva fatto il reporter, ma quel che succedeva nella sua San Francisco, dove tutti ce l’avevano coi cinesi. Gli operai bianchi, specie quelli irlandesi, li odiavano perché i cinesi lavoravano di più, non protestavano e accettavano di farsi pagare meno. Anche gli irlandesi erano tutti quanti immigrati. Ma timorati di Dio. Mentre i cinesi venivano schifati come sporchi, ladri, stupratori e assassini, senza religione né moralità. Non è bello a dirsi. Nei pogrom anti-cinesi si distinsero le donne, specie le operaie. A fomentarli furono preti cattolici e militanti di sinistra. “I cinesi se ne devono andare”, tuonava di comizio in comizio il sindacalista Denis Kearney. Incolpavano le cinesi di diffondere la sifilide prostituendosi quasi gratis. Poi iniziò la caccia all’untore. Diedero ai cinesi la colpa delle epidemie di vaiolo. Esisteva già il vaccino, ma ai poveracci di Chinatown non lo distribuivano. L’ultimo contagio, il peggiore, venne portato da un viaggiatore proveniente da Chicago. Fecero però una legge che bloccava tutti i nuovi arrivi via mare dalla Cina. Un capolavoro di prevenzione epidemiologica: tenevano in ostaggio al largo i migranti cinesi, lasciando però sbarcare e andare dove gli pareva i passeggeri bianchi. Virus ed epidemie passano. L’idiozia a quanto pare no.

Non solo l’America ma tutto l’Occidente era ossessionato dal “Pericolo giallo”. Non perché la Cina minacciava l’Occidente ma perché non si apriva abbastanza alle mire dell’Occidente. Nel 1900 le maggiori potenze mondiali, Inghilterra, Germania, Stati Uniti, Russia, Giappone, Italia e Austria (le stesse del G8, tranne che l’impero austro-ungarico è stato rimpiazzato dal Canada), erano intervenute militarmente in Cina con la scusa di difendere i propri concittadini dal terrorismo dei Boxer. Se ne erano spartiti i porti (ora è la Cina che compra i porti europei). Si erano macchiati di atrocità più efferate di quelle che dicevano di essere venuti a fermare. La fantasia anticinese si inserisce in un filone sterminato di romanzi sul Pericolo giallo. Uno dei più complessi, Yellow Danger di M.P. Shiel, del 1899, già anticipa la soluzione finale (verrebbe da dire la soluzione virale) di Jack London. L’invasione cinese dell’Europa viene fermata sparpagliando, dall’Inghilterra nei porti del vecchio continente, prigionieri a cui è stato inoculato il germe della peste. Una hard Brexit ante litteram.

 

Questo articolo è uscito originariamente su La Repubblica dello scorso 8 Febbraio.

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