Il saloon d’America e il cantiere (ri)aperto della diplomazia europea

Ma l’Europa – pardon, l’Unione europea – che vuol fare di preciso da grande? La questione è stata posta talmente tante volte, dal crollo del Muro di Berlino in poi, da suonare antica. Fu il grande tema di Maastricht, la conferenza intergovernativa che all’Ue diede vita, sostanza e slancio, nel 1992; poi, un decennio e qualche dimenticabile trattato dopo, del grande cantiere della Convenzione europea (2002-2003) aperto con l’ambizione di dare all’Ue una vera e propria Costituzione, dunque un’anima politica. Fallito miseramente quel progetto, sotto i colpi della “rivolta” popolare di francesi e olandesi, di upgrade della missione o delle attribuzioni dell’Ue si smise sostanzialmente di parlare – se non a porte chiuse e voce bassa.

Fino ad oggi. Nel dibattito pubblico italiano, vessato da anni di anti-europeismo virulento, la questione è ancora accuratamente evitata dai leader (?), e abbondantemente fuori dai radar dei media. Ma a livello europeo, il pentolone del ripensamento della missione dell’Ue è stato ufficialmente ri-scoperchiato. E si appresta ad essere servito come piatto principale del menù del prossimo vertice dei capi di Stato e di governo in programma giovedì e venerdì.

Il confronto tra i leader d’inizio autunno si concentrerà “sul ruolo dell’Europa nel mondo e sula nostra capacità di forgiare il nostro stesso destino”, ha anticipato alle 27 capitali il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Traduzione, per l’appunto: dobbiamo parlare di chi vogliamo essere da grandi. La disamina che segue e motiva tale scelta metterebbe l’angoscia, se non fosse la semplice enumerazione di quanto accaduto alle porte d’Europa nell’ultima manciata di settimane: il muro contro muro in Bielorussia che rischia di degenerare in una carneficina; l’avvelenamento del principale oppositore russo; il riesplodere della violenza in Nagorno-Karabakh; l’assertività sempre più minacciosa della Turchia nel Mediterraneo; e una relazione con la Cina da rimettere su binari di “equilibrio e reciprocità”, senza rinunciare ai nostri “valori e standard”.

Eccolo, il punto che riassume tutti gli altri e motiva l’accelerata (tentata) di Michel e Von der Leyen. Il lavorio delle potenze circostanti – tutt’altro che interrotto dalla pandemia – pone l’Ue spalle al muro. Se non si prende carico di difenderli ed anzi promuoverli attivamente, quei valori di democrazia e stato di diritto che dovrebbe incarnare, rischia di perdere ogni credibilità, e nel lungo termine perfino di essere divorata da chi vorrebbe ritornare al vecchio dettato dell’homo homini lupus: se hai la forza per eliminare il tuo nemico, nell’arena interna o in politica internazionale, va’ e aggredisci. Il più forte ha ragione: più grezzo, ma più immediato del complicato lavorio democratico.

Non è un caso che il campanello d’allarme arrivi proprio nei giorni in cui appare con più plastica evidenza la deriva dello storico alleato e punto di riferimento: quegli Usa mai menzionati nel testo di Michel ma verso cui sono evidentemente puntati tutti gli occhi. La “guerriglia” televisiva andata in onda martedì notte per accurata iniziativa (premeditata o d’istinto, poco cambia) del presidente Donald Trump pareva riecheggiare quella reale combattuta per troppe notti negli ultimi mesi sulle strade d’America: un Paese sfibrato dalle ingiustizie razziali e sociali, e dall’estremizzazione che mette a rischio la tenuta stessa della sua società. Qualcosa potrà cambiare se tra un mese vincerà Joe Biden, certo, ma immaginare l’alleato americano tornare guida e faro della democrazia nel mondo nei prossimi mesi, dopo il carnage dell’ultimo quadriennio, pare fantascienza.

Così come nel 1992 e poi nel 2002, dunque, carente la spinta interna è da fuori che arriva la strigliata all’Ue a “dare di più”. A Maastricht furono i massacri in terra jugoslava, oltre che le prospettive oggi sprofondate di pace in Medio Oriente, a spingere i governi europei a fare il salto e porre le basi di una politica estera comune. Quanto alla “costituente” europea, fu lanciata a pochi mesi dagli attentati dell’11 settembre, e i suoi lavori arrivarono a maturazione proprio nei mesi del “gran rifiuto” franco-tedesco alla guerra americana in Iraq.

Oggi è l’assenza, non l’iper-presenza, degli Usa a costituire una minaccia esistenziale per i valori fondanti dell’Unione: scomparso l’ombrello americano – ideale prima ancora che securitario – l’Ue deve far da sé, se non vuole soccombere. Lo ha detto chiaro, negli ultimi giorni, anche il più geopolitico dei leader Ue, Emmanuel Macron: “L’unico modo per l’Europa di continuare ad esistere è costruire una terza via, senza rinunciare ad affermare i propri interessi negli affari globali”, ha scandito di fronte a una platea di studenti a Vilnius.

La dottrina, su cui lavora già da tempo la diplomazia europea, è quella dell’autonomia strategica. Ma alla teoria, quando l’attualità incombe, urge affiancare la pratica. E gli strumenti concreti d’intervento. Quello che la presidente della Commissione Ue Von der Leyen ha chiesto ad alta voce nel suo discorso sullo Stato dell’Unione è un calice amaro per i governi nazionali: l’abbandono della regola dell’unanimità per prendere ogni decisione di politica estera. Quello su cui Macron è tornato ancora una volta ad insistere, rilanciando un progetto “classico” francese, si chiama capacità di difesa comuni – con gli adeguati investimenti del caso. Nessuno dei due temi è nuovo sui tavoli dei ministeri europei. Ma lo è l’urgenza di trovare risposte all’altezza del “mondo nuovo” di fine 2020, se l’Ue vuole preservare se stessa, e i valori che ha più cari.

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