«E ora aprite i corridoi umanitari dalla Libia». L’appello dei valdesi a Conte

Paolo Naso, coordinatore del programma Mediterranean Hope

Il check-up di salute della Chiesa, con il rinnovo degli organi direttivi, ma anche l’impegno pubblico su alcune delle sfide più urgenti per il Paese: prime fra tutte, l’accoglienza dei migranti e la difesa della democrazia. È un Sinodo denso di appuntamenti e significati quello valdese in corso in Val Pellice (Piemonte), che nei giorni delle trattative frenetiche per il varo di un incerto nuovo “corso politico” s’intreccia inevitabilmente con i destini della società italiana. Come racconta Paolo Naso, politologo della Sapienza e coordinatore del progetto Mediterranean Hope della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei).

Prof. Naso, su quali temi si concentra in questi giorni l’impegno del Sinodo valdese?

 Un filone dell’incontro è naturalmente l’esame ricorrente della vita della Chiesa, che oggi conta circa 100 comunità e 150 opere, ma che è in grado di raccogliere qualcosa come 30 milioni di euro l’anno grazie a 500mila firme di destinazione dell’8 per mille. Un test di autorevolezza molto interessante di fronte alla società civile, se consideriamo che alla Chiesa valdese aderiscono non più di 25mila membri. L’altro importante filone è però quello legato ai temi di maggior attualità pubblica, su due temi in particolare. Da un lato l’impegno per rifugiati e migranti: le Chiese Evangeliche non hanno paura di dire che collaborano attivamente con le tanto discusse Ong, favorendo e supportando la loro attività di soccorso ed accoglienza. Non certo per ragioni politiche, ma per il semplice fatto che il lavoro umanitario che esse svolgono è al cuore della missione evangelica. Non si afferma la propria fede cristiana citando il Vangelo a sproposito, ma comportandosi coerentemente con il suo messaggio. Quando abbiamo notizia di migliaia di morti nel Mediterraneo e fingiamo di non vedere, o peggio li lasciamo morire così che siano da monito per altri a non partire, la nostra anima cristiana si ribella. E scegliamo di essere invece il Samaritano, che soccorre chi è in difficoltà. Dall’altro lato, ci sconvolge che nella democrazia in cui operiamo non esista più la verità, che possa essere vero tutto e il contrario di tutto – dalla forma della Terra all’effetto dei vaccini, sino al riscaldamento climatico. Una democrazia è sana se si ragiona in termini razionali attorno ad alcuni fondamentali elementi che si devono avvicinare alla verità. Come cristiani siamo convinti che la verità deve esserci, e che la democrazia non può farne a meno. La leggerezza con cui la verità e i dati vengono sconvolti ogni giorno avvelena invece la democrazia.

Un’alleanza a sorpresa della Chiesa a difesa della scienza per salvare la democrazia?

Per noi protestanti direi che non si tratta di una sorpresa, la nostra è una storia di costante attenzione alla scienza. Ma sulla sensibilità al rischio di involuzione populista del nostro dibattito pubblico ci sentiamo molto uniti anche col mondo cattolico. In uno dei dibattiti di questi giorni, lo ha ben ricordato il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, stimolando tutti a cercare insieme gli strumenti per reagire a quest’involuzione. È la coscienza civile di ciascuno di noi ad essere chiamata a reagire in modo attivo.

Nel suo messaggio di saluto al Sinodo di Torre Pellice, Papa Francesco ha richiamato alla necessità di “proseguire il nostro impegno nel cammino di reciproca conoscenza, comprensione e collaborazione”. A che punto è questo percorso?

In fase molto avanzata. E non soltanto sui punti dottrinali, ma soprattutto sulla prassi, sull’azione a favore dei più deboli e dei più poveri, così come nella reciproca conoscenza. Oggi cattolici e protestanti non sono più estranei. Tanti cattolici ci seguono, ci conoscono, frequentano le nostre attività. E viceversa. Siamo su una strada molto positiva e incoraggiante.

Una strada sulla quale ha pesato la svolta del Papato di Bergoglio?

Papa Francesco a Lampedusa, l’8 luglio 2013 (Marcello Paternostro / AFP)

Dalla sua azione senza dubbio è giunta una spinta decisiva, sin dal suo gesto di andare a Lampedusa al fianco dei migranti (l’8 luglio 2013, ndr). Quando per la prima volta in 800 anni i rappresentanti della Chiesa Valdese si sono recati in visita dal Papa, nel marzo 2016, gli hanno donato proprio i disegni di coloro che sono riusciti a sbarcare, insieme con una scatola realizzata dal falegname di Lampedusa con il legno dei barconi. Altrettanto storica era stata pochi mesi prima la visita del Pontefice al Tempio Valdese di Torino. Con Francesco dunque c’è senz’altro una bella sintonia, facilitata anche dalla sua conoscenza pregressa della tradizione valdese dall’Argentina.

Perfino più centrale per il futuro dell’Italia, e dell’Europa, è il dialogo tra religioni diverse. Cosa serve per renderlo più incisivo nel contrastare le tensioni etniche e sociali che minano la convivenza?  

Il dialogo interreligioso è essenziale per costruire la convivenza. Quando possibile, vi partecipiamo attivamente insieme alle altre principali comunità. Per dargli nuova linfa e sostanza, credo sarebbe importante oggi lavorare insieme sul tema dei diritti, in tema di libertà di religione in particolare. Da anni siamo impegnati pubblicamente per l’abrogazione della brutta legge di epoca fascista sui “culti ammessi”, una normativa che attribuisce tuttora allo Stato la prerogativa di “ammettere” o meno l’esercizio di certi culti, nella logica tipica di un regime autoritario. Una mobilitazione che rilanceremo presto con la pubblicazione della proposta di un nuovo testo di legge, redatto dai giuristi Roberto Mazzola e Alessandro Ferrari e con la prefazione di Giuliano Amato. Proprio perché ha la fortuna di non vivere le tensioni e fenomeni di radicalizzazione gravi all’opera in altri Paesi vicini, l’Italia deve fare tesoro della sua esperienza di convivenza di tante fedi, tutelando il bene più prezioso: la libertà di religione.

L’”uomo forte” del momento della politica italiana, viceversa, continua a rivendicare l’uso in occasioni pubbliche – prima in piazza, ora in Parlamento – di rosari e crocifissi. La preoccupa?

Moltissimo. Preoccupa tutta la Chiesa, e credo debba preoccupare tutta l’Italia, la pretesa del tutto incostituzionale di avvalorare, di “sigillare” politiche o provvedimenti con simboli religiosi. La nostra Costituzione è laica. Certo ognuno può votare o meno le varie leggi in discussione sulla base della propria coscienza; ma tutto questo non ha rilievo pubblico, non è questione da brandire in pubblico o in Parlamento come elemento identitario, tradendo per di più nella sostanza la dimensione di carità, solidarietà ed accoglienza che sta al cuore del Vangelo. Neppure nei governi a monocolore Dc si assisteva a un uso tanto strumentale del crocifisso. Una distorsione che non solo urta la coscienza di tante persone, e di tanti credenti, poiché lede il principio fondamentale della laicità dello Stato, ma apre un pericoloso spiraglio a prerogative e privilegi per alcuni cittadini a discapito di altri.

Fervono in queste ore le trattative per un possibile governo di segno diverso, di “discontinuità” con quella linea, come rivendica il segretario Pd Zingaretti. Vede in filigrana le condizioni per una nuova “speranza per il Mediterraneo”, così come è intitolato il programma di accoglienza della Fcei da lei coordinato?

Speriamo naturalmente che il quadro politico evolva in senso positivo. Ma una Chiesa non ha e non può avere governo amico. Il nostro compito è un altro: qualsiasi governo ci sia, una Chiesa è chiamata a rendere la sua testimonianza, esercitando il suo spirito critico. Certo ci aspettiamo politiche migratorie italiane ed europee più consone ai principi già richiamati. Ma il nostro ruolo resterà sempre quello di cane da guardia.

La strada che avete indicato insieme con la Comunità di Sant’Egidio è quella dei “corridoi umanitari”, percorsi legali e sicuri per l’accoglienza dei rifugiati in fuga da guerre e disperazione. Perché quest’esperienza resta ancora marginale rispetto alle politiche pubbliche?

È proprio questo il limite di quest’esperimento, che nasceva come best practice, ma è ora maturo per diventare ben di più. Dopo tre anni quell’esperienza ha ricevuto riconoscimenti unanimi, a livello interno ed internazionale, come soluzione che funziona: tanto che Paesi come Francia, Germania e Belgio stanno ora studiando percorsi “all’italiana” su tale modello. La sfida vera è ora di trasformarla in politica strutturale, e su questo siamo impegnati anche a livello europeo insieme alle altre Chiese. La nostra proposta è molto chiara: dopo l’esperienza di successo dal Libano, l’apertura di un corridoio umanitario europeo dalla Libia per 50mila persone. Una risposta all’altezza dell’emergenza in corso in quel Paese, una grande risorsa di alleggerimento della pressione migratoria dalla Libia, capace al contempo di contrastare alla radice il traffico clandestino di esseri umani. Abbiamo prospettato tale piano nelle scorse settimane al premier Conte, il quale ci ha dato riscontro interessato. Non attendiamo che nuovi segnali.

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