È la crisi economica a provocare i suicidi?

In questi giorni assistiamo sgomenti, preoccupati ed indignati, al verificarsi di casi di suicidio dai mass media messi in relazione alla drammatica crisi economica che sta spazzando l’Europa. Le cifre – che nascondono drammi individuali, famigliari, collettivi, di proporzioni inesprimibili – ci dicono del tragico bilancio, al 10 maggio, di 38 vittime dall’inizio del 2012 per ragioni economiche. Tuttavia, come noto, i numeri non parlano da soli, e l’interpretazione del fenomeno da sempre si pone al crocevia tra diversi paradigmi, che dello stesso offrono analisi, spiegazioni, e idealmente cure, di natura anche molto diversa.

Dai numeri, in ogni caso, è bene partire. Sono quelli che, in questi giorni, stanno impressionando, creando un clima – per effetto dell’amplificazione mediatica – da epidemia, contagio, parole che affiorano sulla stampa come in televisione, con il rischio di dar vita al noto “effetto Werther”. Due indagini, recenti, ci aiutano a muovere qualche prima considerazione. Il rapporto Istat su suicidi e tentativi di suicidio, relativo al 2010, smorza l’allarme, e relativizza il peso dei suicidi per motivi economici: nel 2010 l’Istat conta in Italia 3048 suicidi, di cui 187 per motivi economici, 1.142 per motivi legati a malattie (di origine psichica nella maggioranza dei casi), 324 per ragioni affettive, mentre un caso su tre rimane senza causa presunta. Si tenga conto, perché elemento rilevante, che il rapporto Istat si basa sulla motivazione ricavata dalle forze dell’ordine: una fonte metodologicamente piuttosto opinabile.

Nel 2008, i suicidi totali erano stati 2.828, di cui 150 per ragioni economiche, mentre nel 2009 2.986 i totali e 198 quelli per ragioni economiche. Se si guarda comparativamente al resto dell’Europa, si vede che l’Italia è uno dei paesi con il tasso di suicidi più basso, seguita paradossalmente dalla Grecia (a proposito di crisi) e da Cipro, e preceduta da ben 29 paesi (si veda il rapporto EU.R.E.S. 2012, sul quale torneremo). In sostanza, il numero dei suicidi in Italia (detto che ognuno di essi è un dramma immenso) non è a livelli allarmanti. Nel novero complessivo dei suicidi, poi, quelli per ragioni economiche rappresentano il 5,3% del totale nel 2008, il 6,6 nel 2009, il 6,1 nel 2010. Percentuali e variazioni, anche tenendo conto che nel 2008 la crisi era già iniziata, non certo di grandissima rilevanza. Infatti, Stefano Marchetti, responsabile dell’indagine Istat, nega che vi siano robuste basi scientifiche per parlare oggi in Italia di emergenza suicidi dovuti alla crisi.

Diverso, almeno parzialmente, il quadro che esce dal Secondo Rapporto dell’EU.R.E.S (Ricerche economiche e sociali), dal titolo emblematico Il suicidio in Italia al tempo della crisi. Il rapporto in questione sottolinea l’aumento del 5,6 dei suicidi registrati nel 2009 rispetto all’anno precedente, e soprattutto il forte aumento dell’indice di mascolinità nell’ultimo decennio (si suicidano di più gli uomini delle donne). Inoltre, disaggregando i dati, il Rapporto EU.R.E.S sottolinea come ciò che caratterizza il fenomeno suicidario nel 2009 è proprio la forte connessione con la crisi economico-occupazionale: il suicidio è in aumento tra disoccupati, persone a vario titolo espulse dal mercato del lavoro, uomini in particolare che, con il lavoro, perdono autonomia economica e definizione identitaria. Altri elementi interessanti messi in evidenza aiutano poi a muovere un passo in direzione dello sforzo interpretativo: a suicidarsi, secondo il rapporto EU.R.E.S., sono soprattutto gli uomini soli, vedovi e separati, e le fasce anziane della popolazione; dal punto di vista della distribuzione geografica, il rischio del suicidio è più alto al Nord, ma le percentuali sono, purtroppo, in crescita anche al Sud. Per finire, un discorso a parte meriterebbe la situazione delle carceri italiane, in cui il ‘rischio suicidario’ è venti volte superiore al resto del paese.

A negare qualsiasi ragione per parlare di emergenza suicidi dovuta alla crisi economica è, sulla base di questi dati, Marzio Barbagli. Autore di un importante volume sul suicidio, Barbagli critica soprattutto il ruolo dei media in questi giorni: “dare risalto a queste storie porta ‘all’effetto Werther’, dal nome del protagonista suicida del libro di Goethe. Alla fine del diciottesimo secolo, alcune persone si uccisero e furono ritrovate con quel libro in mano. Oggi ci sono 56 studi internazionali che dimostrano l’effetto emulazione. Nasce proprio dal modo in cui vengono diffuse queste notizie. Agisce non su chi già valutava il suicidio, ma su chi non ci pensava affatto. I media, tutti, dovrebbero essere più responsabili” (La Repubblica, 10-5-2012). Come si vede, il rischio è anche quello di una costruzione mediatica con effetti performativi nefasti.

Che le difficoltà economiche influiscano negativamente sui rischi di suicidio, pochi sarebbero pronti a negarlo. E tuttavia, da lì a stabilire le correlazioni avanzate dai media, in effetti ce ne passa. Molto dipende, come sempre, dalle lenti con cui si leggono i numeri, e in tema di suicidi i paradigmi interpretativi sono sempre stati molti e profondamente diversi tra loro. Le statistiche dell’Istat, ad esempio, sembrano riflettere una prospettiva psichiatrica, che riconduce il 59,5% dei suicidi degli ultimi 10 anni (2000-2009) alla malattia psichica, seguita da quella fisica (17,5%). Qui, evidentemente, ragioni “organico-psichiche” vengono ritenute prevalenti rispetto a ragioni di carattere economico. Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano, afferma che ”gesti estremi possono essere scatenati da fatti contingenti che esasperano una situazione economica già complessa, ma si innescano in personalità da tempo fragili e vulnerabili che non hanno avuto la possibilità di chiedere aiuto per la loro sofferenza psichica”. Di qui l’appello a potenziare i servizi di salute mentale http://daily.wired.it/news/scienza/2012/05/09/tasso-suicidi-italia-crisi-75241.html. Si tratta, come è evidente, di una spiegazione che al fondo ri(con)duce il fenomeno suicidogeno a cause psichiche, e alla medicalizzazione psichiatrica affida le cure del caso.

In questo ‘conflitto per le interpretazioni’, che nel corso della storia ha privilegiato ora fattori psichici ora fattori economici, ora fattori ambientali ora fattori razziali, la sociologia ha offerto, come noto, la sua più forte (e controversa) proposta interpretativa attraverso l’opera di uno dei suoi classici, Émile Durkheim. Nel 1897 Durkheim pubblicava un libro, intitolato appunto Il suicidio, in cui intendeva mostrare come le uniche vere cause del suicidio siano di natura sociale, e non psicologica o legate ad altri fattori extra-sociali, come al tempo per lo più si sosteneva. Nella sua articolata e complessa tipologia di forme del suicidio, Durkheim analizzava anche la relazione esistente tra crisi economiche e suicidi.

A questo proposito, anzi, avanzava una delle sue tesi più controverse: i tassi di suicidio, sosteneva Durkheim, aumentano non solo in caso di aumento della miseria, ma anche nel caso di ‘crisi felici’, quelle che hanno per effetto di ”accrescere bruscamente la prosperità di un paese”. La spiegazione di un fenomeno così poco intuitivo sta in uno dei concetti più famosi della sociologia durkheimiana, quello di anomia. L’anomia, per Durkheim, è una passione, la passione per l’infinito per la precisione; è quella passione che spinge gli uomini a coltivare dei desideri illimitati – e quindi per definizione insaziabili – a meno che non intervenga una qualche forza regolatrice a porre dei limiti a delle illusioni che, al primo rovescio, posso trasformarsi in delusioni e frustrazioni. Non essendoci però nulla di organico nella costituzione degli uomini capace di far scattare un simile meccanismo di auto-regolamentazione, la passione per l’infinito dovrà essere regolata da una forza esterna all’individuo, capace di esercitare su di esso un’autorità morale che faccia ritenere una simile limitazione legittima, benché a sua volta non priva di sofferenza.

A simile autorità-autorevole devono provvedere, sosteneva Durkheim, le norme sociali. La regolamentazione delle norme sociali, in primis della vita economica, serve a limitare (senza eccessi, ché altrimenti si cadrebbe in una forma di patologia opposta e contraria, ossia nella chiusura degli orizzonti e delle aspirazioni individuali, che produce quello che Durkheim chiamava il suicidio fatalista) quella sotto-regolamentazione dei desideri individuali che produce da ultimo una morbosità tale da condurre l’individuo, essere sacro per definizione alla società moderna secondo l’analisi durkheimiana, all’autodistruzione.

Ecco perché l’apoteosi del benessere, fatta dai sostenitori delle teorie della prosperità industriale e del materialismo economico (portatrici di visioni dogmatiche di cui oggi conosciamo aggiornamenti neo-liberisti), non mette al riparo dal suicidio: al contrario, la produzione di desideri illimitati circa la propria condizione di vita rompe quell’equilibrio tra legittime aspirazioni e possibilità di realizzarle che è alla base, per Durkheim, del benessere sociale e individuale, e determina il suicidio anomico, tra cui rientrano anche i suicidi in casi di crisi (felici e no) economiche.

La tesi di Durkheim (che in realtà studiava molti altri tipi e casi di suicidio, oltre a quello legato a fattori economici che stiamo richiamando qui) è stata criticata nel corso del tempo per diverse ragioni. Già Maurice Halbwachs, ad esempio, che al suicidio ha dedicato uno studio su cui ha misurato la sua parziale presa di distanza dal pensiero del maestro Emile Durkheim, criticava la correlazione tra aumento dei suicidi e fasi di espansione economica, sostenendo che erano solo le situazione di depressione a causarne.

Lo stesso dato viene confermato oggi da Marzio Barbagli, in uno studio sopra richiamato, in cui si sostiene che dal 1945 al 1973 nei paesi occidentali lo sviluppo economico si è accompagnato alla diminuzione dei suicidi. Inoltre, la posizione di Durkheim, secondo cui ogni perturbazione repentina dell’equilibrio sociale tra limite ed eccesso di regolamentazione delle passioni individuali ad opera dell’autorità morale della società (che si esprime in norme, leggi, regole di condotta formali e informali) porta all’aumento dei suicidi, è stata letta come una perorazione conservatrice delle virtù preservatrici della miseria, o una perorazione altrettanto conservatrice della filosofia del ”chi si accontenta gode”, mentre chi troppo vuole…

Se così fosse, faremmo bene a lasciare la lettura dei rapporti Istat e EU.R.E.S ai neuro-scienziati (il cui contributo, come quello di chiunque altro, non si intende naturalmente sottostimare), tanto più in un momento in cui le drammatiche difficoltà in cui versano milioni di italiani (dai 5 ai 7 milioni secondo il ministro Passera) farebbero suonare come un’offesa, un insulto e un oltraggio qualcosa come una filosofia del “chi si accontenta gode” o della forza preservatrice della miseria.

Ma la posizione di Durkheim non era questa, e forse, pur nell’incertezza di quel che abbiamo davanti e che ci attende, può al contrario dirci qualcosa di utile. In aggiunta alle cifre, infatti, sulla cui ‘significatività’ si continuerà a discutere, quello che colpisce dai resoconti (sempre problematici, da prendere con cautela, approfondire) delle motivazioni che possono aver spinto le persone di cui leggiamo sui giornali o ascoltiamo notizia in questi giorni a ‘congedarsi dal mondo’, sono due elementi. In alcuni casi, si tratta di persone che vedono infranti progetti di vita, che – espulse dal mondo del lavoro o impossibilitate a farvi ingresso o a farlo in modo duraturo e soddisfacente – non sono più in condizione di mantenere standard di vita acquisiti, o non sono in condizione di accedere a capitali materiali e simbolici nei confronti dei quali avevano avuto una sorta di ‘socializzazione anticipata’, che avevano insomma lungamente cullato nelle loro aspettative di crescita sociale.

In questi casi, colpisce un disallineamento tra aspettative, desideri, ambizioni, bisogni, e possibilità. A chi attribuirne la responsabilità? Ad una ragazza di ventotto anni che con una laurea in ingegneria fa un lavoro sotto-qualificato, e alla sua smodata ambizione? A un uomo di cinquanta che nel giro di pochi anni vede fallire con la sua ditta la possibilità di crescita sociale dei suoi figli, e al suo non accontentarsi per loro di quel che già lui aveva avuto in più rispetto alla generazione dei suoi genitori? La teoria di Durkheim raramente invita a guardare all’individuo come chiave di volta nella spiegazione dei fatti sociali.

Durkheim avrebbe detto che il marcio sta in una ideologia, o rappresentazioni collettive, che per trent’anni hanno dichiarato la illegittimità di qualsiasi limite e forma di regolamentazione, nella vita economica e nella costruzione dei percorsi identitari. Quando ogni limite e norma altro non sono che un impaccio all’illimitato sviluppo, economico e personale, come ancora le politiche economiche europee si ostinano a voler far credere, non solo l’anomia è dietro l’angolo, ma anche quel deteriorarsi del legame sociale, quell’acuirsi delle differenze reali, quell’aprirsi della forbice sociale, che mette tanti in condizioni di reale bisogno, economico, sociale e psicologico.

Per poi lasciarli soli. Questo è il secondo elemento che colpisce. A suicidarsi di più sono uomini espulsi dalla giostra dei sogni (illusioni) condivisi, a cui vengono spente dall’oggi al domani le mille luci della Manatthan sotto casa, o che quelle luci non le hanno mai viste perché da sempre ai margini a causa del consumo energetico dei quartieri dove la luce è accesa senza limiti; ma sono anche vedovi, anziani, separati, persone insomma intorno alle quali il legame sociale è più sfilacciato, debole, o inesistente.

E questo, come è noto, era l’altro elemento sottolineato da Durkheim. I suicidi hanno a che fare con l’integrazione sociale, oltre che con la forza regolamentatrice delle norme sociali. Lasciate sola una persona, specie in tempi di crisi, senza intorno una famiglia, un gruppo politico, una comunità di fede, un’associazione di vario genere, e quando i tempi si fanno duri non saprà farcela da sola. Il Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, pochi giorni fa ha dichiarato: “è inaccettabile e non si può sopportare che ci siano persone che non hanno di che vivere e che si suicidano mentre ci sono oligarchie finanziarie internazionali che speculando sui mercati peggiorano la situazione e affamano l’Europa.

Serve una risposta politica a livello europeo se non addirittura internazionale” ma “nessuno deve sentirsi solo”, invitando poi i cittadini a rivolgersi alle istituzioni, alle parrocchie, alle associazioni, al mondo del volontariato. Non so se abbia letto o meno Durkheim, e certamente poco importa, ma il Presidente Rossi non invoca centri di salute mentale (di cui pure forse c’è un gran bisogno), ma la fine della pirateria finanziaria ed economica erette a dogma che solo i falliti possono criticare – insomma invoca regole –, da un lato, e solidarietà, non nel senso di carità, ma di inclusione fattiva degli individui nei gangli a articolazioni della vita sociale.

In effetti Durkheim aveva una sorta di teoria dell’equilibrio, secondo cui benessere individuale e collettivo dipendono dalla capacità della società di trovare un giusto mezzo tra libertà dei soggetti e disciplina collettiva, ‘egoismo’ e integrazione. Suona conservatore, suona buon senso, o suona radicale.

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