«Dimenticate il populismo: la vera minaccia è la disintegrazione sociale»

Intervista a Craig Calhoun, ex direttore della London School of Economics

Le società occidentali sono divise, lacerate. Ma il populismo non è né un partito, né un’ideologia in grado di formulare una risposta coerente a tale condizione di fondo: piuttosto un movimento instabile, “opportunistico” che cerca di sfruttarla politicamente. Se i democratici vogliono sconfiggerlo, devono concentrarsi sul lavoro di rammendo del tessuto sociale. Operazione non semplice, ma neppure impossibile, in presenza di una reale volontà politica. Il primo obiettivo sulla lista? Riequilibrare gli intollerabili scompensi economici.

Tra i più rinomati sociologi americani, Craig Calhoun ha guidato per lunghi anni il Social Science Research Council statunitense, prima di diventare direttore e presidente della London School of Economics (2012-2016): un osservatorio privilegiato sulle trasformazioni traumatiche della democrazia inglese. Ora che la Brexit è diventata realtà, analizza con Reset le lezioni apprese da quella saga politica, e le sfide sul tavolo per salvare la democrazia.

Prof. Calhoun, nonostante tutte le illusioni che non sarebbe mai davvero successo, la Brexit è realtà: il Regno Unito torna ad essere davvero un’isola per noi europei. Negli stessi giorni sull’altra sponda dell’Atlantico un presidente che molti vivevano come un incubo “temporaneo” pare rivitalizzato e lanciato verso una possibile rielezione per altri quattro anni. Stiamo assistendo all’istituzionalizzazione del populismo?

Parlerei piuttosto di risultati istituzionalizzati del populismo – tali da produrre indubbiamente danni che saranno durevoli. Dal mio punto di vista il populismo è infatti di per sé instabile, può muoversi in diverse direzioni: un movimento sociale, un fenomeno senza chiari tratti ideologici distintivi che viene “catturato” da questo o quel partito, ideologo o demagogo. La rapida esplosione di grandi movimenti di questo tipo è un fenomeno sempre significativo, ma che tipicamente mobilita moltissime persone senza chiari obiettivi: potenziale perfetto per essere catturati e allineati da qualcuno interessato a farne la base per un cambiamento strutturale. Questo è esattamente ciò che è accaduto con la Brexit: la campagna per il Leave è stata in grado di mobilitare moltissimi elettori sulla base di una rabbia verso l’Europa, senza che ci fosse tuttavia alcuna chiara comprensione di dove quel voto avrebbe portato. Con un notevole trasferimento, peraltro, perché spesso la rabbia di quelle persone non era solamente contro l’Europa, ma più in generale contro Londra ed il sistema per via delle diseguaglianze. Non è un caso che una grande parte di quel voto populista è venuto da luoghi che hanno sofferto la deindustrializzazione, che sentivano di aver perso quel ruolo nella società e nell’economia inglese che una volta avevano. I negozi chiudono, il lavoro scompare, il sindacato non c’è più, e il senso di identità locale evapora. E i liberali non possono rispondere a tutto ciò come hanno fatto per lo più sin qui dicendo «Ah, come è retrograda questa gente». L’unica strada invece è quella di riconnettersi con quelle persone. Altrimenti a farlo saranno sempre i demagoghi, come ora Boris Johnson.

«Get Brexit done», era il suo slogan. Lo ha fatto. Ora quali saranno queste “conseguenze istituzionali”?

L’uscita dall’Ue avrà a cascata molti altri effetti. Londra declinerà come centro finanziario, innanzitutto, e così il peso della Gran Bretagna nel mondo. Ma non è tutto: l’Irlanda potrebbe riunificarsi, la Scozia potrebbe distaccarsi, e rimanere dunque poco più che il nocciolo inglese del Regno. Il paradosso insomma è che uno spostamento tutto sommato di breve periodo delle attitudini produce conseguenze enormi e durature. Qualcosa di simile accade anche negli Usa: Donald Trump ha già causato enormi danni al Paese, ma si ripromette di farne ancora di più, ad esempio liberandosi di qualsiasi expertise nelle istituzioni come quelle che si occupano del controllo su cibi e farmaci lasciando campo completamente libero alle aziende che vogliono immettere sul mercato prodotti geneticamente modificati. È un’evoluzione – non è certo la prima volta che il governo sta dalla parte delle imprese – ma anche un cambiamento perché la rabbia contro le élite e gli esperti viene utilizzata per indebolire le istituzioni piuttosto che per migliorare l’efficacia del loro lavoro per le persone.

Lei sostiene dunque che quella cui assistiamo sia una vittoria della rabbia popolare, non di un ritorno ad una qualche forma di comunità, locale o nazionale: un segno di disintegrazione sociale, piuttosto che di integrazione comunitaria.

Proprio così. Le persone esprimono la loro sofferenza per la perdita di un senso di comunità, di appartenenza, perfino d’integrazione nazionale, ma questo di per è sufficiente a ricrearli. È l’espressione di una frustrazione che permette ai demagoghi di trionfare. Ma quando questi governano non fanno nulla per risolvere quel problema di fondo.

Tra i fattori che hanno contribuito a disintegrare le comunità c’è senz’altro l’invasione nelle vite quotidiane della tecnologia. Lei è stato tra i primi studiosi a indicare il problema. «A mano a mano che diviene possibile condurre transazioni economiche o di ogni altro genere senza dover entrare in contatto con estranei, perderemo legami interpersonali preziosi, ma anche un fondamento della vita pubblica democratica», scriveva nel dicembre 1986[1]. Profezia quanto mai azzeccata… 

Mi pare che quel problema che indicavo si sia in effetti realizzato, perfino in maniera più grave di quanto si prevedeva. Siamo tutti immersi in sistemi macroscopici, che ci portano a fare sempre più cose senza interagire: per il modo in cui utilizziamo i nostri device, ma anche perché essi rendono possibili sistemi come Amazon o simili che permettono di acquistare cose senza dover andare in un negozio o parlare con nessuno, e al contempo senza creare alcun posto di lavoro locale. A parte quello dell’autista del furgone o del magazziniere, ma questo non fa che centralizzare i processi e minare le relazioni di comunità e la conoscenza reciproca. Un paradosso, se si pensa a quanto questi strumenti di comunicazione ci consentirebbero di imparare. Peccato non li sfruttiamo in tal senso. Insomma le potenzialità offerte dalla tecnologia erano enormi, ma c’è stato un fallimento quasi totale nel bilanciare queste con sforzi per ripristinare la solidarietà sociale e mantenere solide relazioni faccia a faccia. Queste al contrario sono state erose in molti modi: un contributo certo al successo del cosiddetto populismo e di ogni risposta politica non fondata su una chiara connessione reale con le cose.

Gli Stati Uniti sono oggi probabilmente il Paese che vive il caso più estremo di polarizzazione politica. Una società spaccata in due, come sarà discusso nella prossima iniziativa di Reset a New York. Vede una qualche possibilità che si ritrovi un terreno comune?

Una società estremamente divisa, certo: è questa una delle degenerazioni di cui parlo nel mio ultimo libro[2]. Ma non è più solo polarizzazione: è permettere a questa di trasformare coloro che la pensano diversamente in nemici politici, da sconfiggere. È questo che accade oggi negli Usa: gli “altri” non sono davvero americani, fanno cose che non sono neppure legittime. Vale per i populisti, ma vale anche per molte persone di sinistra. Ciononostante, io credo che ci siano delle basi per un terreno comune, per rinfrescare la nostra conversazione pubblica. Ma non bastano le parole: per avere più unità c’è bisogno di cambiare alcune condizioni di fondo, sperimentare nuovi programmi e meccanismi. Dobbiamo rinnovare le comunità locali; dobbiamo cambiare il modo in cui funzionano i media; potremmo dover prendere altre iniziative come introdurre un servizio civile nazionale o altri meccanismi del genere. Se guardiamo alla storia della democrazia, vedremo che ci sono state altre volte in passato in cui le condizioni di fondo si sono deteriorate gravemente: ed è stato possibile recuperare il terreno, sebbene non facile. Dunque il messaggio da inviare è che sì, la democrazia può morire molto facilmente, ma non deve farlo per forza: è possibile fare qualcosa per evitarlo.

Che ne è dell’altra parte del modello in crisi profonda, la democrazia liberale? Vede qualche spazio perché il liberalismo – nel senso europeo del termine: libertà fondamentali di individui, gruppi etc. – torni mai ad essere popolare?

Lo spero, ma non da solo e non in quanto tale. Il significato europeo di liberalismo include anche quello economico, e una parte del problema del liberalismo politico è che ignora sistematicamente le condizioni economiche. Dire che siamo tutti liberi non è sufficiente, se alcuni sono liberi con miliardi di dollari e altri senza neppure un lavoro. Così, diceva Karl Marx, la libertà borghese significa semplicemente poter scegliere sotto quale ponte stendersi per morire. Penso dunque che non ci sarà alcun successo per I valori liberali come semplice valori politici o culturali. Questi devono essere accompagnati invece dalla socialdemocrazia o da una qualche forma di ricostruzione delle condizioni sociali. Ci siamo dimenticati che il liberalismo si fonda su di esse, pensando che bastasse un semplice cambiamento di atteggiamento: «Oh, se solo le persone fossero un po’ più formate e acculturate, penserebbero certamente in ottica liberale». Non è così: non c’è riscatto possibile per il liberalismo se non con un progetto di ricostruzione delle condizioni sociali che lo rendono significativo per le persone comuni.

 

[1] C. Calhoun, “Computer Technology, Large-Scale Social Integration and the Local Community,” Urban Affairs Quarterly, vol. 22 #2, pp. 329-349, 1986.

[2] C. Calhoun, C. Taylor, Degenerations of Democracy, Harvard University Press, forthcoming

 

Foto: International Science Council / Flickr

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