Il deficit europeo
della tradizione socialista

Dal “rischio di dover ‘morire socialisti'” a quello di “morire tout court“. Era questo il timore della sinistra italiana alla vigilia del Congresso del PSE a Roma (28 febbraio – 1 marzo), fatto emergere dalle pagine di Mondoperaio (marzo/aprile 2014). E tale rimane oggi, in vista delle elezioni europee e nonostante lo stesso Congresso abbia segnato l’adesione del PD di Matteo Renzi al PSE (che non ha raggiunto il voto unanime solo per il parere contrario di Fioroni).

Dopo tanti anni di rapporti di informale distanza tra la sinistra italiana e quella europea, il cambio di rotta dettato da Matteo Renzi è una svolta buona ma rischiosa, non solo per la difficoltà di fare dei democratici italiani, dei socialisti europei. La partita si gioca infatti anche al di fuori dei confini nazionali, in Europa – dove la destra estrema si fa sempre più spazio – e oltre – con l’incapacità di trovare risposte al capitalismo finanziario. Tre prospettive che si ritrovano nei contributi di Stefano Ceccanti, Emanuele Macaluso e Luigi Capogrossi pubblicati su Mondoperaio e riproposti a puntate su Reset.

 

In Italia è sotto gli occhi di tutti il tramonto della tradizione politica socialista – sia nella versione riformista di quello che fu il Psi che in quella massimalista del vecchio Pci – intervenuta nell’ultimo ventennio. Lo sgangherato clamore di risse e l’inconcludenza di tattiche e linee politiche sovrappostesi nel corso di questi anni è infatti l’incapacità di elaborare un serio progetto politico capace di esser comunicato ad un elettorato sempre più disorientato. La mobilitazione antiberlusconiana o l’adesione al “partito di Repubblica” hanno potuto talora celare questo vuoto, ma certo non sostituirlo. Siffatta afonia, d’altra parte, è tanto più grave in una fase storica in cui non solo sono rimesse in discussione le grandi realizzazioni realizzate nel corso del ‘900 in termini di Stato sociale, ma tutta la concezione dei rapporti sociali ispirata ai valori del socialismo democratico e del laburismo, messa in questione, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, dall’aggressiva ripresa del pensiero liberista e da un primitivo darwinismo sociale.

Questo aspetto permette però di cogliere anche la sostanziale coincidenza della crisi delle forze di sinistra in Italia con la povertà progettuale – malamente celata dal brusio di pensieri frantumati e informi – che caratterizza la riflessione politica dei partiti socialisti europei. In modi diversi e con varie sfumature, l’assenza di una reale linea comune delle forze socialiste e laburiste europee sembra esprimersi in un generale loro ondeggiamento tra un tentativo di risposta in termini strettamente difensivi (quasi forze prigioniere in una cittadella assediata), ed un sostanziale anche se circoscritto insieme di cedimenti ai modelli tanto più arroganti quanto più imprudenti proposti dal pensiero conservatore sin dagli anni ’70 del secolo scorso.

È anche vero che questa constatazione deve immediatamente essere meglio calibrata alla luce di quanto si può cogliere di diverso nelle singole realtà nazionali: è indubbio, ad esempio, che, sul piano della pratica politica i laburisti di Blair e i socialdemocratici di Schröder, in momenti diversi e con diversa lungimiranza, hanno concepito manovre d’aggiustamento delle politiche tradizionali del Welfare atte a tutelare, in una certa misura, le acquisizioni già realizzate e ad aggiornarle alle diverse condizioni di una più pesante concorrenza internazionale. Questo però ci porta a due ulteriori constatazioni: anzitutto che questi notevoli aggiustamenti né nell’immediato – quale che sia il rilievo che si possa dare a Giddens – né sul medio periodo hanno portato alla definizione di una nuova strategia di riforme dei sistemi politici ed economici (ad esempio un nuovo “patto tra produttori”). Ma è soprattutto impressionante la passività socialista nei paesi più esposti all’offensiva conservatrice, perché strutturalmente più deboli rispetto agli standard della concorrenza internazionale.

Si pensi al silenzio della socialdemocrazia francese dopo Delors, incapace di scegliere tra la mera conservazione dei moduli tradizionali del welfare statalistico e soluzioni empiriche di stampo liberistico. Gli anni di Mitterrand sono esemplari proprio perché hanno mascherato con relativo successo tale ambiguità. Identica la situazione italiana, con un ex Pci che s’arrende ideologicamente all’ortodossia liberista (preservando però tutte le malefatte corporative e conservatrici di stampo sindacale). In nessun paese, per quel che mi sembra, sono stati affrontati in modo sufficientemente organico ed approfondito i nodi che si pongono alle società avanzate (ed ai paesi europei in particolare), legati alla crisi demografica, alla trasformazione dei sistemi capitalistici ed al primato di nuove forme produttive, oltre che della crescita esponenziale dei sistemi finanziari.

La crisi di idee e di riflessione politica nel nostro paese appare poi certificata dalla vistosa flessione del dibattito pubblico svoltosi nei luoghi a ciò deputati: si pensi solo alla poca consistenza attuale di riviste che come la nostra portano avanti siffatte problematiche rispetto alla ricchezza ed al numero di quelle presenti negli anni della “prima Repubblica”. Meno evidente, ma non credo di minor valore sintomatico, è poi quanto è dato d’annotare a proposito della ricca messe di riflessioni – venate certo di forti elementi autobiografici, peraltro anch’essi tutt’altro che irrilevanti ai fini della nostra comprensione di movimenti e periodi storici significativi – tratte dalla propria vicenda politica, e di veri e propri bilanci tracciati dai protagonisti di quella stagione: da Magri a Macaluso ed alla Mafai, da Chiaromonte alla Rossanda, da Martelli al volume miscellaneo sul “crollo” del Psi, sono molteplici i contributi che ci aiutano a riflettere ed a meglio comprendere i nodi della politica e del paese. A questo fa riscontro in modo impressionante la vacuità dei libri che tutti i protagonisti dell’attuale stagione politica della sinistra italiana si sono affrettati a pubblicare, dove colpisce l’assenza di qualsiasi struttura analitica, necessario presupposto per costruire qualcosa di più che non un dolciastro vaniloquio televisivo.

L’onere di sostenere e rilanciare una concezione più avanzata della politica e dell’economia è stata lasciata essenzialmente al pensiero liberal statunitense
Addirittura drammatico è il distacco tra la generazione che si occupava di politica e se ne appassiona ancora negli anni del suo tramonto ed una nuova generazione di politici che sembra ormai aver affatto confuso la politica col mero potere. Né più vivo è reso poi lo scenario attuale da fenomeni di ristagno e di attardamento di un dibattito ancora vivo negli anni ’80 del secolo scorso, ma inevitabilmente tramontato insieme al contesto storico in cui si svolse. In effetti in quel decennio era dato d’imbattersi ancora in discussioni abbastanza scolastiche (sulla scia dei tardi maitres à penser di Parigi) intorno ad un possibile socialismo realizzato, ma da modificarsi e da rifondarsi. Oggi questa discussione ci è ormai preclusa dalla storia passata, mentre siamo invece in ritardo nel riprendere il legato ancora attuale di Marx: il modo in cui ha applicato i suoi strumenti analitici (come anche avrebbe poi fatto Weber) alla società contemporanea, cogliendone le strutture di fondo e le tante potenziali linee evolutive. Francamente, nel momento in cui – e questo è il problema dell’Italia oggi – si viene dissolvendo l’ordinamento statale, occuparsi dell’esistenza o meno di una “dottrina socialista dello Stato” non fa parte solo di una stagione passata: è una questione di lana caprina.

Non è questa la strada da percorrersi. È quella piuttosto che ci è additata dagli intellettuali d’ Oltreatlantico. Forse perché in Usa l’impatto degli anni ruggenti del capitalismo senza freni è stato più esplicito (e più grandi le macerie che ne sono derivate), è lì che è dato cogliere in questo ventennio un serio sforzo di rispondere alla cultura reaganiana e thatcheriana. L’onere di sostenere e rilanciare una concezione più avanzata della politica e dell’economia è stata lasciata essenzialmente al pensiero liberal statunitense: anzitutto in campo economico (Stiglitz, Krugman etc.), ma non solo (Judt). In Europa, salvo alcuni balbettii o poco più, non è dato di cogliere una risposta capace di divenire bandiera. Deperimento dei partiti? Certo, ma non solo: perché l’assenza di un dibattito politico degno di questo nome che non fosse chiacchiericcio televisivo o denuncia moralistica rendeva impossibili in partenza tali sviluppi. D’altra parte è questa stessa assenza che dobbiamo spiegare: non si crede più nel socialismo e nei suoi valori? Si pensa che la partita sia persa e si tratti solo di resistere più a lungo possibile?

Questi silenzi, dunque, e la crisi che essi esprimono delle nostre tradizioni e dei nostri valori, vanno ben al di là delle frontiere nazionali, e non costituiscono un problema che può essere affrontato e risolto in termini nazionali. In effetti è dalla fine degli anni ’80 che nella coscienza europea sembra essersi appannata quella carica utopica che ha animato il pensiero socialista sin dai suoi primordi, ben prima del Manifesto del ’48. Ad essa parrebbe esser subentrata una sotterranea rassegnazione rispetto ai nuovi e antichi dogmi liberistici: ma anche una specie di pigrizia (o di paura dell’ignoto) che ha impedito ogni serio tentativo di ripensare l’intero progetto socialista di una società più giusta rispetto alle trasformazioni della seconda metà del secolo passato ed a quelle ancora più radicali tuttora in corso. A tutto ciò non è certo estranea la svolta segnata dal crollo del socialismo reale. Com’è stato osservato, infatti, nel momento stesso in cui tale evento sembrava dover confermare la legittimità della diversa strada percorsa dal socialismo democratico e riformista nell’Europa occidentale, così non è stato: quasi che la colossale catastrofe del socialismo realizzato si fosse riflessa su ogni tipo di politica socialista, in qualsiasi modo realizzata.

La crisi delle singole tradizioni socialiste che viene maturando nei vari paesi europei è frutto di un indebolimento già avviato, forse, prima della fine dei due grandi blocchi postbellici. Essa si è però aggravata in modo drammatico con il collasso delle ideologie e della contrapposizione delle forze sociali in due blocchi relativamente omogenei e con l’unificazione del mercato capitalistico. Solo che, come sempre, le previsioni del giorno prima sono smentite dalla realtà del nuovo giorno. Quanto alla globalizzazione, il gioco s’è fatto complesso proprio dopo la vittoria sul socialismo reale: la polarità costituita dal sistema Usa-Europa nel sistema internazionale dei mercati e dei capitali non c’è più. Questo ha diminuito soprattutto per il sistema più debole i vantaggi relativi, ed ha aumentato i rischi.

Ora questi vari elementi, combinandosi insieme, offrono il quadro con cui debbono confrontarsi le socialdemocrazie, che rischiano – proprio per i vincoli della politica europea – di dividersi tra loro e di essere ciascuna sconfitta nel proprio paese. D’altra parte tali forze si trovano di fronte ad un nodo difficilmente eludibile. In nessuno dei paesi europei esse infatti possono sperare di ribaltare in termini politico-sociali gli attuali rapporti di forza (sui quali si fonda la dominanza dell’ortodossia economica di stampo prekeynesiano) senza avanzare una proposta credibile di nuovo Stato sociale: ma sino a che punto questo “nuovo Stato” può restare confinato entro i confini nazionali?

E qui l’analisi del politico non può non saldarsi con quella propria dello storico: perché questi ritardi e queste debolezze da un lato sono il frutto delle specificità delle storie nazionali: dei costi, ad esempio, che il trionfo socialista in Francia, nell’età di Mitterrand, lasciò maturare in termini d’invecchiamento di idee, di “falsa coscienza”, di deliberata scelta di non scegliere; dello specifico contesto spagnolo, con i margini ancora ampi per l’inseguimento degli standard più avanzati; dell’ambiguità italiana di superare la fine del maggior partito comunista occidentale senza fare i conti espliciti con i costi che la definitiva vittoria della linea socialdemocratica comportava, anzitutto a livello ideologico.
Dall’altro lato, però, essi venivano a saldarsi con quella specie di appuntamento mancato con il nuovo quadro politico nel quale si sono venuti a trovare gli Stati nazionali con il rafforzamento dei vincoli europei: la Costituzione europea, Maastricht, eccetera. Perché questa Europa ondeggiante tra la burocrazia di Bruxelles e le buone intenzioni dei tempi delle vacche grasse, l’Europa sovranazionale fortemente incardinata sugli Stati nazionali, è il prodotto di un progetto solo molto tangenzialmente socialista. Sono altre – anzitutto di matrice cattolico-cristiana – le forze che l’hanno voluta e che vi hanno scommesso. I socialisti hanno quasi sempre seguito, finendo col trovarcisi quasi come ospiti di poco conto.

Questo ha finito col far maturare un latente conflitto – quanto meno una tensione – tra le forme dello Stato sociale (con le loro strutture fondanti all’interno degli Stati nazionali), e i principi economici assunti a base dell’Ue: il libero mercato, la concorrenza, la circolazione degli uomini e delle cose. Inutile menzionare il quadro di questi ultimi anni, delineatosi a seguito del carattere ottimistico e a senso unico a base della costruzione di Maastricht: un’operazione senza ammortizzatori, che ha la tipica fisionomia che sempre hanno avuto nella storia le grandi manovre finanziarie. Almeno quelle lasciate all’autonomia del mercato: e cioè di gruppi tanto essenziali quanto pericolosi come i banchieri, ottimisti sino alla sconsideratezza quando i mercati vanno bene, passivi moltiplicatori del danno quando vanno male.

Il grandissimo pericolo è che le socialdemocrazie europee, oggi come cent’anni fa, finiscano con l’esser trascinati, in condizioni sostanzialmente subalterne, all’interno di un gioco distruttivo, senza nemmeno un Jaurès che ne salvi l’onore a futura memoria. Trascinate in questa condizione proprio perché prigioniere esse stesse delle logiche dello Stato nazionale come condizione per la difesa – per quanto possibile – di quel Welfare in esso costruito. Non è solo l’assenza di un forte europeismo che appare segnare il baratto dei socialdemocratici tedeschi tra il recupero sociale all’interno della Germania a fronte del riaffermato liberismo economico in sede europea. Esso infatti esprime un’insufficienza più grave: la mancata comprensione che una difesa dei sistemi di Welfare e delle condizioni ottimali delle nostre società non è più possibile solo entro i confini degli Stati nazionali. Per questo la rinuncia dei socialisti tedeschi a pesare (e pensare) in Europa, a fronte della mera conservazione di certi spazi all’interno del proprio paese, è destinata a ipotecare il futuro stesso della loro economia.

Questo quadro di forze intimamente spaventate, raggomitolate a difesa per quanto possibile, impregnate di un pessimismo tanto più profondo quanto più inconfessato, va ribaltato. È questo il (relativo) vantaggio che abbiamo noi socialisti italiani (non gli ex comunisti, che invece esprimono appieno questa condizione di paura e di difesa), che non abbiamo più niente da perdere: siamo liberi di pensare e di parlare. E per questo dobbiamo partire dalle analisi delle attuali debolezze, dall’identificazione dei problemi e dalla discussione delle possibili risposte. Non è nazionale, ma europea e globale la profonda trasformazione del capitalismo manifatturiero e l’accresciuto peso del capitalismo finanziario. Tutto ciò esprime una profonda vitalità del capitalismo stesso: la stessa preminenza della dimensione finanziaria, e la sua enorme crescita quantitativa, non sarebbero pensabili senza le “condizioni materiali della produzione”, che nel nostro caso sono costituite dalla rivoluzione elettronica. Ciò che appunto ha reso possibile quel salto in avanti nei processi d’astrazione della ricchezza che erano stati già individuati da Marx come un fattore fondamentale della modernità.

Egualmente è un fenomeno europeo l’invecchiamento della popolazione, con il conseguente ribaltamento, sul lungo termine, dei rapporti demografici su cui si fondava tanta parte dei sistemi di Welfare costruiti negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. È un punto su cui le forze di sinistra hanno fatto solo una politica dello struzzo. Negare il problema e difendere l’esistente è ancor peggio che accettare in toto e passivamente gli effetti dell’invecchiamento cancellando lo stesso Welfare, come tenderebbe a fare una destra dura e pura. Quest’ultima è una politica dissennata, ma la prima non è neppure una politica: è una sconfitta dettata dai numeri. Così come è globale – e certamente europea – la dissoluzione delle forme produttive cui ha corrisposto la progressiva atomizzazione dell’antica unità operaia. E alla fine della classe operaia ha corrisposto una forte crescita delle nicchie di rendita – sia in termini di lavoro protetto, sia in forma di pensioni – a fronte di un generale impoverimento della maggior parte della popolazione. La reazione è atomizzata e difficilmente canalizzabile nelle forme tradizionali della politica e della lotta sindacale: i fenomeni come Grillo, lo stesso Berlusconi, già la Lega (e chissà che cosa ancora da venire) non sono solo italiani; in ogni società europea cresceranno gli anticorpi localistici. Rispetto all’attuale insorgere di forti umori antieuropeistici, per i socialisti europei è certo controcorrente parlare d’Europa, ma è essenziale. Aver lasciato questa carta ai banchieri di Francoforte (lasciando in ombra le loro responsabilità per il disastro greco) è il segno di una debolezza politica e di una mancata comprensione dei termini in cui si gioca la partita per l’egemonia anche nazionale.

È però vero che l’Europa, in qualche modo, ha il vantaggio – e l’immenso svantaggio a breve termine – di fare emergere le contraddizioni. Alcune le conosciamo bene: i bilanci pubblici allegramente truccati, l’indebitamento crescente, i diversi livelli di ristrutturazione capitalistica della produzione e delle politiche di mercato, con una divaricazione eccessiva dei vari livelli di competitività internazionale pur all’interno di una moneta unica. Altre sono meno evidenti ma non meno esiziali, e concernono la sempre più netta tentazione delle varie società (e quindi delle forze politiche che le governano o che cercano in esse successo e voti) di dare risposte nazionali a problemi essenzialmente sovranazionali: un errore meno evidente di quanto non possa sembrare sulla carta, se si pensa all’enorme vischiosità e forza che tuttora hanno le entità nazionali, ed a come sia invece priva d’espressione politica quest’entità sovranazionale, negoziata tra Stati, che è l’Europa.
È proprio questa la strada battuta sinora dai vari partiti, e di cui l’esempio più evidente è costituito dalla recente alleanza di governo tra la Merkel e i socialdemocratici: ognuno per sé e Dio per tutti. Ma questo potrebbe essere la giusta celebrazione del centenario di un altro errore tragico delle sinistre, che le coinvolse nella responsabilità per la follia iniziata nel 1914. Oggi è abbastanza illusorio pensare che la salvezza delle conquiste realizzate nel corso del ‘900 possa prescindere all’Europa. E tuttavia a impedire una decisa scelta europeistica dei socialismi nazionali è il pulsare di una crescente ostilità tra le opinioni pubbliche dei vari paesi dell’Ue. Ma è questo il nodo che va tagliato con grande decisione: altrimenti è la stessa prospettiva del socialismo democratico a rischiare di essere travolta, e non solo nelle società europee più deboli. La premessa per questo sforzo comune è costituita dalla convinzione che la nuova fase di una politica europea volta a governare in modo più efficace i processi economici e finanziari non può esser lasciata alle logiche degli Stati nazionali. La strada in tal modo intrapresa porterà ad un aggravarsi degli squilibri interni, sino a rendere insostenibile proprio quell’unione monetaria che si vorrebbe difendere: se non altro a livello delle opinioni pubbliche di quelle comunità gravemente penalizzate da tale politica, ma ancor più probabilmente da tutte le varie opinioni pubbliche nazionali e per motivi opposti.

Inutile ricordare come di questo processo che potrebbe divenire esplosivo (e portare a una singolare composizione del prossimo Parlamento europeo) siano responsabili proprio i deboli governi e gli apparati europei, che hanno mostrato sempre un senso d’estraneità ed una vera e propria ostilità verso gli elettorati nazionali: si pensi solo alla farsa della cosiddetta “Costituzione europea”. È qui che i socialisti sono stati assenti, lasciando nientedimeno all’Economist il compito di sottolineare l’assenza di spazi di democrazia nella costruzione europea. Ed è qui che oggi i socialisti incassano i dividendi negativi della loro politica: schiacciati tra l’ortodossia finanziaria prekeynesiana delle autorità di Francoforte (o quanto meno della dominante componente tedesco-baltica, sostenuta peraltro con forza da un’opinione pubblica che non vuole essere chiamata a rispondere per i dissipatori meridionali), e l’insorgenza dei populismi nazionali. Ma è proprio in questo dilemma che si può cogliere una possibilità di risaldare gli interessi e i valori socialdemocratici a livello europeo.

È qui che le socialdemocrazie europee si giocano anche i loro ruoli nazionali: esse debbono riprendere un’iniziativa politica rispetto a cui sono state a lungo latitanti. Magari per affrontare il dilemma di fondo che è tuttora irrisolto: sostenere un’unica unità monetaria o non andare consapevolmente verso due aree distinte e a due velocità? Sappiamo bene come questa seconda sia una scelta da molti deprecata. Ma meglio assumerla consapevolmente, se riconosciuta come inevitabile e governata, che non lasciarla alla casualità di meccanismi fuori controllo ed ufficialmente esorcizzati da tutti. Nel porsi come protagonisti di questo dibattito le socialdemocrazie avranno il compito di non lasciare alle forze populiste e regressive il monopolio della critica alla politica dell’Ue, restando appiattite, ma in forma sostanzialmente subalterna, sull’ attuale politica economica dell’Unione, così miope e soprattutto viziata dall’esservi in essa così poco di politica. Su questo si gioca la loro futura legittimità come forze di governo e in difesa dei valori comuni su cui l’Europa pur mosse i suoi primi passi, prima d’avviarsi a divenire un morto ordine burocratico.

La mia idea è un patto tra le socialdemocrazie con una fondamentale merce di scambio: un recupero del keynesismo da un lato, ma dall’altro un patto europeo sulla natura della spesa pubblica e sulla produttività delle economie nazionali. Perché solo la forza dell’Europa può scardinare la vera minaccia alla complessiva manovra a difesa dell’Euro. Sinora, infatti, forse inevitabilmente, le autorità di Bruxelles si sono concentrate sui bilanci degli Stati nazionali. Sappiamo bene però – ed è stato scritto in tutti i modi – che il riequilibrio di tali bilanci e collegato a due variabili, non a una sola: da un lato la spesa, dall’altro il Pil. Ma è qui che paesi – e democrazie – strutturalmente “perversi” come il nostro rischiano di restare a terra: perché proprio la distorsione interna alla loro politica di spesa ed alla loro organizzazione può divenire incompatibile con una sostanziale crescita del Pil. In altre parole non basta tagliare i salari e pensioni: o forse non è neppure opportuno far leva su ciò mentre poi così poco si fa e si può fare, dati gli infiniti vincoli interni, per far leva sulla crescita della produttività del lavoro. Dalla defiscalizzazione a seri incentivi per orientate le nostre aziende a utilizzare la ricerca, sino all’alleggerimento dei vincoli amministrativi e burocratici e ad una seria limitazione degli arbitri e dell’espansione della sfera giurisdizionale (dalle sospensive dei Tar alle indagini criminali sulle presunte evasioni fiscali), v’è tutto un mondo che va disciplinato in modo affatto nuovo. Ma è una riforma dello Stato e del suo diritto che solo a livello europeo può essere imposta, contro interessi e incrostazioni molto forti. Sinora i nostri governanti sono apparsi – da Monti a Letta e col sigillo di Napolitano per il suo stesso ruolo di supremo rappresentante della Nazione – come i proconsoli di una politica di tagli e di austerità che ha operato in modo indiscriminato.

Il patto tra le socialdemocrazie deve rifarsi invece ai famosi “meriti e bisogni”: offrendo agli europei qualcosa di più e di diverso dai tagli lineari, e tagliando quindi quanto d’inefficiente e di antimoderno è venuto crescendo nei nostri sistemi. E in primis questa dovrebbe essere la politica di Renzi: non quella di giostrare con i vincoli alla sola spesa, senza affrontare la qualità di questa. Perché senza questa più forte strategia non solo non v’è speranza di sviluppo per il nostro paese (come per vari altri), ma forse non v’è neppure, per essi, un futuro in Europa.

  1. Sono un militante di centro sinistra da sempre, nonché un lettore di Reset, anche on line. Vengo da una tradizione social-comunista. La prima da parte di padre, la seconda da parte di madre. Mi sono sempre collocato nell’ambito del riformismo socialista: il mio punto di riferimento è stato ed è tutt’ora Carlo Rosselli, anche se mi piacciono anche le figure di Gobetti e Gramsci, benché diverse tra di loro. Questo articolo, lucidissimo dell’autore, mette ben a fuoco le debolezze del pensiero socialista in Italia ed in Europa. Sebbene abbia aderito al PD e guardi con una certa simpatia Renzi, tuttavia, non mi ritengo soddisfatto dalla politica del PD sul versante sociale, delle politiche del lavoro e della riforma costituzionale. Ritengo, al contrario della maggioranza degli italiani, che gli Stati nazionali debbano orientare le politiche economiche e sociali e non farsi dettare l’agenda dalla Finanza europea e mondiale. Al centro di tutto devono tornare le persone e non vi devono essere i capitali. Speriamo si ricrei in Italia una nuova forza politica capace di saper elaborare le nuove istanze della società che fino ad ora il PD e la nuova sinistra non sono riusciti ad intercettare

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