THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

La strana morte della cultura

La Chiesa di Santa Croce è legata in maniera fortissima ad alcuni dei più dolci ricordi della infanzia di chi ha avuto la fortuna, come chi scrive, di avere un padre che lo ha avvicinato a percepire la bellezza e la vastità dei tempi che ci procedono e degli spazi che ci sovrastano. In quello scrigno dell’arte gotica, lavorarono, molti dei protagonisti di una storia dell’arte che lascia a bocca aperta: nel Medioevo Giotto e Cimabue, nel primo e pieno Rinascimento, Donatello, Vasari, Brunelleschi, Andrea e Luca Della Robbia. Come cantò poi Foscolo, dentro a tanta bellezza c’è la dolce celebrazione della grandezza di un Paese: i sepolcri del più grande artista di tutti i tempi; di colui che inventò la scienza della politica e di quello che, invece, sistematizzò il metodo stesso che è alla base della fondazione della scienza. È vuota, invece, la tomba del Poeta che più di chiunque altro ha – letteralmente – messo in Poesia il principio divino che qualcuno dice essere in tutti gli uomini. La chiesa di Santa Croce è, per questi motivi, forse il monumento che più di qualsiasi altro, è patrimonio dell’umanità e fu questa la molla che fece scattare i giovani di tutto il mondo quando accorsero a Firenze per salvarla dall’alluvione del 1966. Ieri sera un giullare portentoso cantava a tutti, soprattutto ai bambini con genitori che credono nel futuro, la purezza assoluta che si fa parola attraversando tre mondi e commuovendo chiunque vi si avvicini.
Penso a questo quando penso a Santa Croce e a tanti angoli del Paese più bello del mondo. Il mio.
E allora non so come è possibile che tanta indicibile bellezza si è trasformata in cinismo.
Aspettando un Governo, c’è già, infatti, un pezzo di futuro che sta sfuggendo di mano alla società italiana. Ed è, paradossalmente, il nostro passato:se solo avessimo la capacità di valorizzare un patrimonio culturale che, come ci raccontiamo stancamente da anni, dovrebbe essere il nostro grande vantaggio competitivo nel gioco dell’economia globale. Tuttavia, ad anni di appelli a “fare presto prima che tutto finisca” – come per ultimo ha ricordato il Presidente di Confindustria – non è conseguito alcun fatto.
Stretta tra la morsa della mancanza di risorse pubbliche e l’ideologico rifiuto di sviluppare alleanze intelligenti con investitori privati, la cultura italiana è la prima vittima di un crisi che non è solo finanziaria, ma anche di mancanza di idee unita ad una diffusa rassegnazione.
L’occasione che l’Italia perde da decenni è clamorosa se si considera che, per la Commissione Europea, è pari a 654 miliardi di euro la ricchezza prodotta dall’industria della cultura e della creatività (che comprende la valorizzazione di diritti d’autore nel design e nell’editoria e la vendita dei biglietti in musei, teatri, cinema): un valore più che doppio rispetto a quello fatto registrare dall’intera industria automobilistica. Essere tra i primi per capacità di dare valore alla cultura, significherebbe avere la leadership di un settore che oltre ad essere grande in assoluto – in Europa dà lavoro a cinque milioni di persone –è in crescita maggiore di altri comparti e offre livelli di redditività superiori.
L’Italia dovrebbe essere all’avanguardia. E lo è stata fino a qualche anno fa. Uno studio del 2010 condotto dall’Università di Harvard con Google ha conteggiato quante volte diversi Paesi sono citati da milioni di volumi che parlano di arte nelle sue diverse forme e che vengono divisi per periodo di pubblicazione: l’Italia era prima per le riviste internazionali di architettura all’inizio del novecento; ma è stata prima, davanti agli Stati Uniti, nella qualità della produzione cinematografica subito dopo la Guerra; e ancora al secondo posto nel design fino agli inizi degli anni novanta, quando era ancora nettamente il Paese che registrava il più alto numero di turisti internazionali che venivano attratti da un patrimonio culturale che per l’UNESCO non ha confronti. Oggi, persino per l’arte, in quasi tutte le sue manifestazioni, siamo diventati assolutamente periferici e mentre nel resto d’Europa sono il 5,5% dei lavoratori a essere impiegati da lavori creativi, nel Paese più bello del mondo la percentuale è dimezzata (2,2%). Napoli, poi, la capitale di un Mezzogiorno che da solo ha un numero di siti Unesco quasi uguale a quello degli Stati Uniti, non èneppure tra le prime dieci città d’Italia per numero di imprese che producono cultura.
Non è vero che siamo destinati ad essere il “centro del mondo”, perché la nostra posizione si è deteriorata; ma non è vero che non riusciremo mai più ad essere competitivi, perché lo siamo stati fino a qualche anno fa.Anzi, come rileva Squinzi, a volte le notizie cattive ne nascondono una buona, visto che basterebbe imitare gli altri Paesi europei per creare circa mezzo milione di posti di lavoro in più.
Riusciamo a perdere laddove dovremmo vincere a mani basse, per un triplice motivo.
La composizione della spesa pubblica italiana non è adeguata a quelle che sono le nostre caratteristiche: i documenti della Ragioneria generale dello Stato dicono che in “valorizzazione di beni e attività culturali” abbiamo speso nel 2011 poco più di un miliardo e mezzo di euro che è meno della ventesima parte di quanto spendiamo in difesa.In Spagna e Inghilterra – secondo la Commissione Europea – si investono circa cinque miliardi, in Francia e Germania più di otto. Riusciamo, poi, a sprecare risorse già scarse, se si considera che quasi tutti i giorni dell’anno, ormai alla Reggia di Caserta ci sono più dipendenti che visitatori; o se si considera che un terzo dell’intera spesa nazionale è concentrata nella Regione Lazio per pagare le strutture centrali.
In secondo luogo, non esiste una vera industria della cultura, ma una frammentazione – favorita da finanziamenti a pioggia che garantiscono la sopravvivenza di operatori non efficienti- che porta ad una dimensione microscopica delle imprese e una scarsa propensione all’innovazione. Lo dimostra la percentuale di persone che lavorano nell’industria della cultura e che risultano laureati: in Italia è di poco superiore ad un terzo, mentre in Spagna o Francia siamo quasi al sessanta per cento.
Infine, nonostante la mancanza di risorse, lo Stato riesce persino a rendere difficile – è successo con il Colosseo – o a non ritenere centrale – si è verificato a Pompei dove pure il ministro Barca è riuscito a far sentire la presenza delle istituzioni – il coinvolgimento di finanziatori privati: ciò è sbagliato non solo perché di risorse c’è bisogno, ma perché avendo a disposizione nomi – come Roma o come Pompei – che sono conosciuti in tutto il mondo,perdiamo l’occasione di attrarre chi potrebbe contribuire con esperienze, tecnologie, relazioni. E soprattutto controllo rigoroso dei risultati.
Ci vorrebbe un Governo e una strategia. E forse anche di un Governo sufficientemente pragmatico da capire che i governi precedenti sono stati parte del problema e non certo della soluzione, e che finora l’errore è stato proprio quello di continuare a voler presidiare un territorio senza averne le risorse.

Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Il Mattino del 4 Aprile.

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