COSE DELL'ALTRO MONDO

Riccardo Cristiano

Giornalista e scrittore

Assad, l’Isis e la violenza mimetica

Che le feste pagane siano state assimilate dalle feste di altre religioni è un’osservazione abbastanza comune. Pasqua e Natale cadono nei giorni delle feste d’inverno e primavera dell’epoca antica, pagana, le assorbono, le assimilano. Ma questo lo sappiamo. Quel che mostriamo di sapere di meno è che la vera chiave della violenza è il desiderio che si esprime per mimesi. Il grande René Girard, principale studioso e teorico della violenza mimetica, lo ha insegnato con libri che hanno segnato un’epoca, capovolto il pensiero antropologico ed etnologico, ma che purtroppo non abbiamo imparato ad usare: “Mentre noi nel conflitto guardiamo soprattutto al risultato, e cioè alla vittoria dell’uno e alla sconfitta dell’altro, vale a dire alla differenza che emerge dalla lotta, le società tradizionali e primitive pongo l’accento sulla reciprocità del processo, vale a dire sull’imitazione vicendevole degli antagonisti. Vengono messe in risalto le somiglianze tra i concorrenti, l’identità degli scopi e delle manovre, la simmetria dei gesti etc.”
L’uomo, e la scimmia, imitano. E nell’imitazione, la mimesi, si evidenziano il desiderio, il possesso. Se porteremo 15 trenini a 15 bambini, ha osservato Girard, difficilmente questi giocheranno ciascuno con uno di essi, felici, contenti e disinteressati al trenino dell’altro. Piuttosto la scelta di un trenino da parte dell’uno porterà anche un altro a desiderare lo stesso: per imitazione e desiderio di possesso.
Eccoci alla violenza mimetica: è il voler diventare come l’atro, l’imitare l’altro, il desiderio di sostituire l’altro o fare come l’altro. Arriviamo all’estremo: in al Qaida e nella sua violenza globale, tecnologica, “imperiale”, non c’è una scelta mimetica? Lui, bin Laden, non arrivò a parlare di Giappone, dove i musulmani non sono poi tanti? Non è proprio mimetica, “americana”, la violenza di bin Laden? Ha scritto al riguardo sempre Girard: “Quando ho letto i primi documenti di Bin Laden ed ho riscontrato  i suoi  accenni alle  bombe americane  cadute in Giappone, ho capito ad un tratto che il  livello di riferimento è il pianeta intero, ben al di là dell’Islam. Sotto l’etichetta  dell’Islam  c’è una volontà di collegare e mobilitare tutto un terzo mondo di frustrati e di vittime nei loro rapporti di rivalità mimetica con l’Occidente. Ma nelle Torri distrutte lavoravano sia stranieri che americani. E per l’efficienza, la sofisticazione dei mezzi impiegati, la conoscenza che essi avevano degli Stati Uniti, gli autori degli attentati non erano anch’essi un po’ americani? Siamo in pieno mimetismo.”
Per riportare l’ordine il rimedio più arcaico è stato sempre quello del capro espiatorio. Non perché uno solo sia il colpevole del disordine, ma perché solo unendosi contro uno, scelto a caso magari, si può riprodurre l’ordine nella comunità turbata dalla violenza.
Gerusalemme è città di specchi, quei moltiplicatori dell’uno che rendono la mimesi incombente, è il luogo prescelto per riprodurre l’ordine nella comunità internazionale ferita, individuando il capro espiatorio? Ecco per assurdo, e logicissimo, il tentativo del summit islamico di paesi in guerra tra di loro, guerra non più di posizione, ma di trincea, paesi che hanno trascurato Gerusalemme e il suo status per decenni preoccupandosi molto di più di quello Sanaa o di Aleppo o al Arish, unirsi nel nome di Gerusalemme est fingendo di aver ritrovato l’ordine interislamico perduto, per imporre almeno l’ordine comunitario (nazionale) perduto. Legittimarsi grazie al nemico esterno agli occhi della propria comunità turbata.
Forse Trump ha pensato solo all’ordine della sua famiglia, cioè della sua base elettorale, intrisa di umori “messianici”, un messianesimo davvero curioso (come accade sovente ai messianesimi).
Resta il fatto che solo un’altra cultura, quella del vivere insieme, potrebbe prendere atto che se Gerusalemme è rimasta ebraica, cristiana e musulmana è perché, come diceva Martin Luther King, o impareremo a vivere insieme come fratelli o sorelle o periremo come degli stolti. Ma questa è una lezione che tutti fingono di aver appreso, attribuendo all’altro la colpa della sua inattuabilità. Lezione di sapore antico, colonialista: eppure Waizman e Faisal, già negli anni ‘20 del secolo scorso, avevano indicato proprio il contrario ai “civilizzatori”, trovando un linguaggio comune su come fare soddisfare le reciproche aspettative su quel fazzoletto di terra. Non è la natura violenta la causa degli odierni priblemi, è la nostra incomprensione della violenza.
E’ il caso dunque di cambiare registro, anche nella lettura della violenza e delle sue cause. Seguitare a legittimare i bombardamenti di centri abitati siriani o iracheni dopo attentati attribuiti all’Isi, o all’altro lato gli atti terroristici a Parigi o New York dopo l’intervento francese o statunitense in quella o in quell’altra regione, porta a dimenticare non solo Girard, ma anche riferimenti più semplici, per esempio che gli assedi si facevano nel Medio Evo, ma in epoca napoleonica Austerlitz o Waterloo si combattevano lontano dai centri abitanti. Non c’è anche in questo qualcosa che dovrebbe preoccuparci tutti? Gerusalemme è un banco di prova perché afferisce al sacro. Ma è l’ideologizzazione delle cause della violenza il punto dolente.
Chi ha dimostrato di aver capito è il regime autenticamente primitivo e selvaggio di Assad. Creando il suo doppio, il suo analogo e concorrente, l’Isis, ha creato una violenza mimetica rispetto alla scelta coerentemente non violenta del suo antagonista, il popolo siriano. Loro, i miliziani dell’Isis, hanno accettato di buon grado di essere l’altro analogo. Così il primitivo Assad ha fatto dell’Isis il capro espiatorio da isolare e sconfiggere per riportare il suo ordine selvaggio e convincerci che stessimo sostenendo il “male minore”. Invece avevamo semplicemente accettato di fingere di non vedere che Isis e Assad sono la stessa cosa. E quel che in realtà abbiamo fatto è stato fare, nel nostro linguaggio moderno, del popolo siriano il vero capro espiatorio tramite l’assassinio (cruento e feroce) del quale riportare “la pace” nella comunità internazionale turbata dalla “violenza”.

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