La religione contro il culto della mafia

Intervista a Lucia Ceci

“Nel nome di Garibaldi, Mazzini e La Marmora, con parole d’umiltà, formo la santa società”. A capo chino, tra i “saggi fratelli” riuniti nel silenzio della devozione, il presunto boss pronuncia solennemente la formula che dà inizio al rituale. Sono immagini che sanno fortemente di sacro, quelle riprese dalle telecamere nascoste della Dda di Milano nel corso di un’indagine sulla criminalità organizzata in Lombardia e diffuse recentemente dai media nazionali. Dai gesti ai toni, la scena è palesemente liturgica: il capomafia si fa sacerdote, ministro di un culto che arriva a snaturare la trinità pur di avvicinarsi al credo. Accade ancora all’interno della ‘ndrina che si chiama non casualmente Santa, come altrove; nelle cerimonie di conferimento come nei “battesimi” di affiliazione.
Ma mentre la mafia attinge all’immaginario devozionale cattolico, la Chiesa non resta immobile. Dopo aver stretto la mano a qualche boss, parrini e papi hanno iniziato a farsi promotori della lotta contro il demonio terreno della mafia. Specie nelle parrocchie locali, ma non solo, la battaglia clericale si secolarizza e i confini tra fede e attivismo si mescolano: le processioni si trasformano in cortei e tra i “martiri della mafia” si accostano volentieri prelati e togati.

A due passi dal Vaticano, alla Casa della Memoria e della Storia di Roma, questi spunti danno vita al dibattito di “L’immaginario devoto tra organizzazioni mafiose e lotta alla mafia” (21-22 novembre 2014) – una due giorni per conoscere la storia del binomio culti e mafie, analizzare gli stereotipi del “mafioso devoto” e approfondire il fenomeno dell’emergente religione civile dell’antimafia. Ne parliamo con Lucia Ceci, ricercatrice dell’Università di Tor Vergata, che organizza il convegno.

Il rapporto tra mafia e religione è un paradosso o una forma di prevaricazione?

Da parte delle organizzazioni mafiose la religione è utilizzata come forma di legittimazione sociale, ma anche come strumento funzionale al consolidamento dei legami interni ai sodalizi criminali, al rispetto di gerarchie e rapporti di forza non dichiarati. Si pensi al ruolo delle processioni nelle feste patronali in alcuni paesi della Calabria: esse diventano spesso l’occasione per ostentare la propria potenza individuale e familiare. Ma il repertorio religioso entra nelle organizzazioni criminali a più livelli. Le immagini e i simboli sacri modulano i riti di affiliazione, definiti in alcuni casi «battesimo»: san Michele Arcangelo viene invocato nella cerimonia d’ingresso nella ‘Ndrangheta, la Madonna di Pompei nella Camorra, il santino della Madonna dell’Annunziata – lo testimoniò tra i primi Leonardo Messina – viene bruciato dopo essere stato macchiato del sangue della «punciuta» di un dito della mano destra dell’iniziato che deve ripetere la formula del giuramento: «Come carta ti brucio, come santa ti adoro. Come brucia questa carta deve bruciare la mia carne se tradisco Cosa Nostra».

Sono rituali da prendere sul serio?

L’importanza di questa dimensione era ben chiara a Giovanni Falcone, il quale nel 1991 affermò che si può sorridere all’idea di un criminale, già macchiatosi di numerosi delitti, che prende in mano un’immagine sacra e giura solennemente su di essa. Si potrebbe sorriderne come di un cerimoniale arcaico, o considerare tutto ciò una vera e propria presa in giro. Ma Falcone concludeva che si trattava di un fatto estremamente serio, che impegnava quell’individuo per tutta la vita: entrare a far parte della mafia, secondo il magistrato, equivale a convertirsi a una religione.

Come si mescolano, nella pratica, gli elementi del sacro e del mafioso?

Le sfere attorno a cui si salda il rapporto tra mafia e religiosità sono molteplici. Quando, il 6 giugno 1997, Pietro Aglieri (uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di via d’Amelio) venne arrestato, nel suo rifugio furono ritrovati crocifissi, immagini sacre, breviari, persino un piccolo altare per le messe private celebrate per lui da padre Frittitta. Anche quando fu catturato Pino Piromalli a Gioia Tauro furono trovate in bella mostra immagini di padre Pio e una notevole quantità di santini. Sul repertorio devozionale di Cosa Nostra ha scritto un fondamentale volume Alessandra Dino, La mafia devota (Laterza 2008), successivamente ci hanno anche lavorato giovani studiosi italiani e stranieri: antropologi, sociologi, storici del cristianesimo, storici dell’età contemporanea, ma c’è ancora molto da studiare. Per questo abbiamo pensato di organizzare un gruppo di ricerca internazionale e interdisciplinare, che in questo convegno ha la sua prima uscita pubblica.

In Italia, partendo dalla Sicilia, Rosa Balestreri cantava che “mafia e parrini si dettiru la manu”. Quando hanno iniziato e perché lo hanno fatto?

In Sicilia la Chiesa a fine Ottocento, cioè nel periodo postunitario, era un’organizzazione poco centralizzata, basata soprattutto sulle parrocchie, con una forte partecipazione dei singoli ecclesiastici alla vita locale. Localismo e personalismo caratterizzano anche la vita politica siciliana di quegli anni. Il primo quadro completo sulla mafia in Sicilia, il rapporto Sangiorgi, realizzato dal questore di Palermo tra il 1898 e il 1900 e inviato al ministero dell’Interno, vede coinvolti ben otto sacerdoti. Nel primo dopoguerra si sa di un arciprete, Baiamonte, considerato un capomafia. Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale vedono la forte impronta impressa alla Chiesa siciliana dal cardinale Ernesto Ruffini, nominato arcivescovo di Palermo da Pio XII nel 1945. Un prelato del Nord, un lombardo, sul piano ecclesiale un tradizionalista, Ruffini assume un ruolo di guida su una Chiesa che è uscita dagli anni del fascismo centralizzata, ha recepito l’importanza del ruolo di governo – a livello locale e nazionale – di un grande partito cattolico, la Democrazia Cristiana. La Chiesa è schierata in prima linea contro i comunisti e poiché in questa fase la denuncia del fenomeno mafioso viene solo dai comunisti, la linea dettata da Ruffini è quella della negazione del fenomeno mafioso: la mafia non esiste, è un’invenzione dei comunisti e dei nemici della Sicilia come Danilo Dolci. Pur non essendo siciliano, Ruffini dà alla sua apologetica filomafiosa toni sicilianistici, regionalisti. Si è parlato, a tal proposito, di Chiesa del silenzio, ma la questione di fondo che modula la posizione rispetto alla mafia è l’anticomunismo e il collateralismo della Chiesa siciliana alla Democrazia cristiana, un partito al cui interno, dall’inizio degli anni Cinquanta, iniziano a militare i mafiosi.

Come è cambiato il rapporto tra la criminalità organizzata italiana e la Chiesa cattolica nel tempo?

La prima cesura si ha con il cardinale Salvatore Pappalardo. Le parole pronunciate al funerale del generale Dalla Chiesa, il 4 settembre 1982, ebbero un impatto mediatico enorme. Egli non solo definì la mafia incarnazione di Satana, ma dinanzi alla schiera di politici seduti nelle prime file davanti alla bara del generale pronunciò parole durissime seguite da un applauso interminabile e liberatorio: «Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur». Mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata.
È da quel momento che una parte dell’associazionismo cattolico inizia ad assumere posizioni contro la mafia e anzi che esponenti di tale associazionismo diventano un segmento tra i più significativi del movimento antimafia. Ciononostante molti uomini di Chiesa continuano a restare su posizioni conservatrici e a sminuire la portata del fenomeno mafioso con gli argomenti del passato: garantire l’afflusso dei capitali in Sicilia, l’imprenditoria, il turismo.
Ma è all’indomani delle stragi di Capaci e di via d’Amelio, con l’omicidio di Falcone e Borsellino, che si registra la cesura più importante. È il 9 maggio 1993 quando papa Giovanni Paolo II, parlando, con un volto tesissimo, nella Valle dei templi, si rivolge ai mafiosi e li invita a convertirsi. A distanza di pochi mesi, il 27 e il 28 luglio, abbiamo le due autobombe contro obiettivi cattolici a Roma, nel cuore della cristianità, con gli attentati di San Giovanni in Laterano e san Giorgio al Velabro. Il colpo più duro, il messaggio più sanguinoso arriva però con l’uccisione, il 15 settembre dello stesso anno, del parroco di Brancaccio don Pino Puglisi. Il 19 marzo 1994 il clan dei Casalesi ucciderà in Campania un altro sacerdote, don Peppino Diana, che aveva assunto una posizione forte di condanna contro la Camorra. A partire da quel momento si accentua da parte della Chiesa una presa di distanza dalle organizzazioni criminali. Nel suo discorso alla Valle dei templi, Giovanni Paolo II aveva definito le vittime della mafia «martiri della giustizia e indirettamente della fede», ma saranno l’avvio del processo di canonizzazione del giudice Rosario Livatino su iniziativa dell’arcivescovo di Agrigento e, ancor più, la beatificazione di don Puglisi a ridisegnare il terreno della santità e, su quel terreno, il confine tra legalità e illegalità all’interno di una Chiesa che si è dimostrata nel tempo permeabile all’ideologia mafiosa. Non solo per i silenzi, le resistenze, gli eccessi di prudenza, ma anche per le molte aperture accordate alle organizzazioni criminali nella gestione dell’apparato devozionale.

Papa Francesco questa estate ha inferto un colpo importante a questo rapporto, scomunicando i mafiosi e la risposta da parte della criminalità organizzata è arrivata quindici giorni dopo con l’inchino di Oppido Mamertina. C’è uno scostamento tra il Vaticano e le realtà cattoliche locali o la mafia ha segnato il sorpasso?

Il viaggio in Calabria di papa Francesco è stato da lui fortemente voluto, ma preparato da monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei nonché, negli anni precedenti a questa nomina, vescovo di Cassano allo Jonio, il paese di Cocò, il bimbo ucciso e bruciato insieme al nonno dalle cosche della ‘ndrangheta. Ricordo anche che il 25 maggio 2013 padre Puglisi è stato proclamato beato. L’azione svolta da don Luigi Ciotti con Libera ha dimensioni e spessore note a tutti, e non può sfuggire il significato che ha il fatto che il nemico numero uno di Riina sia, oggi, un sacerdote. Ciò non toglie che possano persistere aree di contiguità tra Chiesa e mafia, ma non credo che quella di papa Francesco possa considerarsi una posizione isolata.

Proprio nel Sud Italia, i mafiosi sono a capo dei comitati di organizzazione delle feste patronali e religiose. Come fanno a entrarci? Esiste una religione al sostegno della mafia?

La potenza dei boss si manifesta anche attraverso l’ostentazione di una potenza economica e materiale. In alcuni paesi della Calabria, durante i riti pasquali, il privilegio di slacciare il nodo che tiene legato il manto della Madonna è stato accordato per anni dopo il pagamento di ingenti somme di denaro. A Sant’Onofrio il privilegio di portare a spalla il labaro con la statua del Cristo risorto nella festa dell’«Affrontata» poteva costare oltre 5 mila euro. Quando nel 2011 il vescovo ha intimato alle ‘ndrine di restare fuori della processione, ha generato nel paese una situazione di tensione che ha richiesto l’intervento della Prefettura. Nel luglio scorso monsignor Salvatore Nunnari, presidente dei vescovi calabresi, ha invitato i parroci a bloccare le processioni definendole occasioni di «anarchia religiosa» e affermando che i mafiosi sotto la vara non si sentono dipendenti da alcuna gerarchia e sentono di avere un rapporto loro personale con il Padreterno, la Madonna e con i santi. Lo sfondo, in quest’ultimo caso, era rappresentato dalle polemiche suscitate dall’inchino della Madonna davanti alla casa del boss a Oppido Mamertina, ma il processo di revisione era iniziato prima.

Il convegno parla più in generale di culti e mafie: qual è la situazione negli altri Paesi?

Il gruppo di studiosi che ha organizzato il convegno apre su questo fronte un cantiere i cui lavori dovranno proseguire. Posso citare un caso di cui mi sono occupata di recente ed è quello della Santa Muerte, detta anche la Madonna dei narcos. Da quando il 18 agosto 1998, un altare della santa è stato ritrovato dalla polizia nel covo della banda di sequestratori capeggiata da Daniel Arizmendi, detto il “Mochaorejacas”, i media messicani e, soprattutto, statunitensi hanno iniziato a diffondere l’immagine, efficace ma fuorviante, di una equazione esclusiva tra Santa Muerte e crimine organizzato. Nel 2001 vengono alla luce i legami tra la Flaca e il cartello del Golfo capeggiato da Osiel Cárdenas Guillén. Nel 2004 si rinvengono immagini della santa in una casa di Città del Messico utilizzata dal cartel come laboratorio per tagliare cocaina da inviare negli Usa. Si diffonde la voce di un misterioso santuario fatto costruire per la Hermosa dal boss del Cartel de Juárez nella regione del Michoacán. Emergono poi tracce dei legami tra la Santa Muerte e la Mara Salvatrucha, una organizzazione criminale internazionale attiva negli Stati Uniti e in Messico, alla quale sono affiliate gang composte soprattutto da salvadoregni e guatemaltechi, i mareros, che ostentano la loro devozione alla Bonita con tatuaggi e amuleti, e professano apertamente il culto dentro e fuori le prigioni. Per la Russia l’importanza di questo nesso appare con forza, sul piano della narrativa, nel romanzo Educazione siberiana, ma è un terreno che vogliamo approfondire. Come vorremmo approfondire la dinamica religiosità/mafia giapponese.

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