I rischi della stupidità globale

Ulrich Beck è un esploratore del tempo nuovo che si muove all’insegna del “rischio” – Risiko, come si dice in tedesco – fin dai giorni in cui “rischio” voleva dire Chernobyl e l’ecologismo faceva un salto di qualità entrando nel campo visivo di tutti, insieme all’insalata ispezionata col contatore Geiger. La nostra società (la “Risikogesellschaft”, la società del rischio) vedeva molti, quasi tutti i suoi spazi, invasi da una condizione di instabilità, di gelatinosità, di incertezza. Tutto quello che era solido “si dissolveva nell’aria”, come piaceva dire a Marx un secolo e mezzo addietro. Via via che allungava lo sguardo sul finire degli anni Ottanta Beck si accorgeva che le zone occupate dal “rischio” erano sempre più estese: il lavoro, la base principale della stabilità sociale, era minacciato e tarlato almeno tanto quanto l’essere supremo della teologia era tarlato dalle filosofie postmoderne e dal disincanto generale; il matrimonio e l’amor coniugale perdevano, anche loro, il carattere di cemento sociale che teneva insieme le famiglie e, con le famiglie, molte altre cose. Nessun posto è sicuro, nessun matrimonio è sicuro; siamo consegnati alle sorti flessibili del mercato per guadagnarci da vivere come siamo consegnati al “normale caos dell’amore” per alimentare la nostra vita sentimentale.

Con la fine della guerra fredda insieme a un benefico disgelo, Beck vede arrivare anche un’altra fonte di instabilità: l’assenza del nemico. Con l’estinguersi dell’equilibrio del terrore salta anche un fattore d’ordine. Comincia un’epoca di nuovi conflitti. Ma il “rischio” da cui cominciava la riflessione di Beck, che l’ha portato in pochi anni alla ribalta sociologica mondiale (insegna a Monaco, alla London School of Economics, scrive sullo Spiegel, è noto in America) aveva anche un risvolto liberale. Il pianeta “a rischio” è un concetto caro alla cultura verde, ma e’ lo stesso pianeta sul quale il verbo del “rischio” è sacro all’impresa che ne fa il fondamento della legittimità del profitto. “Rischio” e “flessibilita’” sono concetti chiave anche della cultura neoliberale, che la sinistra cerca coniugare in modo compatibile con la tradizione socialdemocratica: il rischio viene bilanciato dalle “opportunità” e la flessibilità dalle “reti di sicurezza”. Un equilibrio sempre più difficile se vince un’idea anarchica-mercantile dell’ordine, o del disrodine, mondiale, nel quale non ci sarebbe più posto per la politica.

Ed ecco l’ultima fase della ricerca di Ulrich Beck, in questo “Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria” (Carocci editore, pp. 200, L.28.000). Un bel libro da quale non dovete aspettarvi una teoria sistematica delle tendenze economiche e sociali; ci troverete invece un disegno anche piuttosto frammentario, una serie di spunti tratti dalla cronaca e da altri lavori, ma anche molte idee, molti tentativi efficaci di illuminare la nostra condizione. Di noi abitanti di un mondo di fine millennio dove manager di gruppi multinazionali trasferiscono intere divisioni delle loro aziende nell’India meridionale, dove non manderebbero mai i loro figli, spediti invece nelle università europee d’élite, finanziate magari dallo stato. Un mondo pieno di strana gente contraddittoria che ama e usa i diritti politici, civili e sociali, le mutue e le pensioni ma intanto cerca di silurarne il finanziamento pubblico. Gente che ama i bei paesaggi europei e finge di ignorare quanto costa tenerli puliti. Gente che apprezza la bella sicurezza con cui si passeggia per le strade europee ma cerca di lavorare, con una politica orientata al puro profitto, per liquidarne le premesse.

La dimensione globale dell’agire umano alla fine di questo secolo è qualcosa di ineludibile, ma varie sono le interpretazioni possibili di questa condizione. Abbiamo e sempre più avremo organizzazioni transnazionali (la Banca mondiale, la Chiesa cattolica, la MacDonald, la Volkswagen e la mafia), problemi transnazionali (il clima, le droghe, l’Aids, i conflitti etnici), eventi transnazionali (i mondiali di calcio, la guerra del golfo, i romanzi di Rushdie), comunità transnazionali (basate sulla religione, gli stili di vita, orientamenti politici, il sapere). Questo è fuori discussione, il processo è irreversibile. Ma irreversibile non è il modo in cui possiamo agire da attori sia della globalizzazione “affermativa” (come suoi promotori in tutti i campi, economia, costume, cultura, arte, musica rock) sia da attori della globalizzazione “negativa” (come individui e gruppi che si propongono di avversare aspetti della globalizzazione).

Nell’uno e nell’altro caso dovremmo tener presente la lista degli errori da evitare, che Beck compila con accuratezza. Si segnalano tra i peccati capitali messi in evidenza nel libro la “metafisica del mercato mondiale”, la “assenza di politica come rivoluzione” (una pretesa tra le più pericolose perché aspira a trasformare il mondo per metà in un’azienda e per metà nel caos) e poi i “protezionismi” che Beck avversa con speciale passione: quello “nero” dei nazionalismi nostalgici, ideologici, un protezionismo conservatore e insieme nemico dello stato e supporter neoliberale del mercato, contraddittorio ma vero; quello “verde” degli ambientalisti aggrappati alle prerogative dello stato nazionale e della vecchia politica, incapaci di dotarsi di una visione mondiale e legati ciecamente alle piccole realtà locali; quello “rosso” della sinistra nostalgica che spera di trovare con il nemico della globalizzazione il rilancio di una strategia basata sui principi di classe.

Nel viaggio attraverso stili, scelte di gusto, teorie economiche e sociali, di un libro che si può leggere anche come repertorio degli enigmi di fine secolo, seguendo gli sviluppi di un contagio che cambia il nostro modo di mangiare, fare festa, vestirci, proponendoci un mélange globale (dai tacos giapponesi, allo Shakespeare in versione kabuki presentato a Parigi) dovremo meditare su quel che sarà della formazione degli esseri umani del prossimo futuro, divisi tra la spinta violenta al legame col suolo e col sangue dei padri, da una parte, e l’appartenenza al gran mondo dell’osmosi planetaria. Un cambio di valori è nell’aria e con lui un cambio di élites, si tratta di evitare che il passaggio, carico di promesse al punto da apparire ad Habermas una “seconda opportunità” per l’Europa si trasformi in una catastrofe, in un incubo come quello che Beck colloca nelle pagine finali del suo libro e dove le Nazioni Unite vengono sostituite dal vertice aziendale della Coca-Cola. Anche per questo dovremo, ciascuno per la sua parte, provvedere a che la formazione dei piccoli tenga nel dovuto conto l’equilibrio tra quelle cose che Beck definisce schematicamente come “cultura 1” e “cultura 2”: la prima legata all’apprendimento che avviene in un luogo, in una lingua e in un ambiente specifico, con radici; la seconda slegata dai luoghi come un software umano universale, “translocale”. L’equilibrio deve valere a garantirci che lo “sguardo cosmopolitico” degli individui del futuro non sia uno sguardo idiota e che allo “scemo del paese” di buona memoria non si sostituisca uno “scemo globale”, tanto più pericoloso quanto più vicino alle leve del governo.

 

Copyright l’Unità/Caffè Europa – Gennaio 1999

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