Mi sento incerto, voglio cambiare

Dal numero 67 di Reset (settembre – ottobre 2001)

La percezione del rischio globale potrebbe addirittura diventare una fonte di riforme per modellare il futuro. Per questo il punto chiave di una cultura dell’incertezza è stabilire a chi spetta decidere, e in che modo, all’interno di un orizzonte di incongnite. Minor fiducia, maggior rischio. Il problema centrale risiede nel capire come possiamo prenderci collettivamente la responsabilità per le conseguenze dei nostri atti.

 

Poche cose spiegano meglio ciò che intendo con “società del rischio” di un avvenimento verificatosi negli Usa appena pochi mesi fa. Il Congresso degli Stati Uniti nominò una commissione, presieduta da Gregory Benford, assegnandole il compito di sviluppare un sistema di simboli universali che proteggessero gli incauti, allontanandoli dai luoghi di deposito di scorie radioattive. L’obiettivo centrale era così formulato: “Il Congresso esige una protezione che duri per i prossimi 10.000 anni”; e, di conseguenza, la domanda a cui trovare risposta , e per la quale il Congresso stanziava 1,8 miliardi di dollari , era la seguente: “Come si può costruire un sistema di simboli che sia in grado di trasmettere lo stesso messaggio per 10.000 anni?”. La commissione ascoltò le dichiarazione di fisici, antropologi, linguisti, neurologi, biologi molecolari, astronomi, archeologi e artisti. Gli antropologi affermarono che il teschio avrebbe potuto rappresentare un simbolo universale di pericolo; ma uno storico osservò che, tra gli alchimisti, il teschio simboleggia la resurrezione. Uno psicologo avviò una ricerca sui bambini per studiare le loro reazioni simbolo: risultò che, se il teschio con le ossa incrociate era posto su una bottiglia, i bambini spaventati pensavano al veleno; ma se lo stesso teschio veniva posto contro un muro, essi esclamavano eccitati: “Pirati!” Una delle idee portate avanti dalla commissione riguardava l’ipotesi di costruire una leggenda circa una presunta “maledizione del faraone”, che avrebbe potuto funzionare anche in tempi illuminati. I socio-linguisti esaminarono la possibilità di inventare una specie di moderna storia dei fantasmi, che gli abitanti delle aree vicine ai luoghi contaminati si tramandassero oralmente, per far sì che la gente evitasse di avventurarsi in quei luoghi. Gli architetti studiarono persino come pilastri di granito e cemento potessero produrre un misterioso vento stridente.

 

Un abisso di ignoranza

Ma gli esperti della commissione arrivarono alla conclusione che questi sistemi sarebbero stati compresi per un massimo di 2.000 anni (Schirmacher). Il lavoro della Commissione, scrisse Benford, fu il “più rilevante tentativo fatto dalla nostra società fino ad oggi per comunicare con il futuro attraverso gli abissi del tempo”. Il tentativo fallì, ed io ritengo che un’attenta considerazione di questa vicenda convincerà la maggior parte di noi che esso sarebbe dovuto necessariamente fallire.

Questa riflessione possiede delle implicazioni che vanno ben al di là del problema dell’isolamento delle scorie radioattive. Essa riguarda al tempo stesso gli effetti delle recenti rivoluzioni tecniche nel campo dell’ingegneria genetica e nella mappatura del genoma umano, e gli orizzonti che entrambe queste ultime aprono per la medicina, la clonazione e la diffusione di alimenti geneticamente modificati nell’ambiente; essa ha anche fare anche con la rivoluzione informatica – nella misura in cui quest’ultima influenza la velocità della comunicazione di ogni tipo e, infine, con la rivoluzione nella micro-robotica, conosciuta anche come nanotecnologia, che tenta di creare macchine grandi come molecole. In breve, la congiunzione di tutte queste rivoluzioni produce un tipo di rischio globale radicalmente nuovo, non più inteso come minore o maggiore probabilità, ma come incertezza incommensurabile. Il termine “rischio”, infatti, possiede due significati radicalmente diversi. In primo luogo, esso si applica ad un mondo interamente governato dalle leggi della probabilità, nel quale ogni cosa è misurabile e calcolabile. Ma il termine è generalmente usato anche in riferimento a incertezze di tipo non quantitativo, a “rischi che non possono essere conosciuti”. E quando parlo di “società del rischio” lo faccio riferendomi a quest’ultima accezione, cioè intendo una società caratterizzata da incertezze, incognite prodotte (manufactored uncertainties). Queste autentiche incognite, rafforzare dalle rapide innovazioni tecnologiche e dalle relative, veloci, risposte sociali, stanno creando un orizzonte di rischio globale di tipo fondamentalmente nuovo, nel quale siamo separati dai possibili risultati fianli – proprio come la commissione lo era dal futuro – da un abisso di ignoranza.

 

Irresponsabilità istituzionalizzata

Partendo da quanto detto, la mia tesi circa la società di oggi è che la resistenza della società verso cose quali gli alimenti geneticamente modificati non è in sé una questione di comprensione o ignoranza dei rischi calcolabili: essa piuttosto risiede in un cambiamento delle basi del potere e della legittimità. Al fine di sviluppare questa prospettiva, è necessario modificare radicalmente i punto di vista, in modo da mostrare come, in questi casi, è l’imprevedibilità delle conseguenze piuttosto che i singoli cambiamenti tecnologici o le decisioni prese su di essi, ad essere divenuta la fonte della politica. Il problema, cioè, non è se una determinata tecnologia sia o meno pericolosa, quanto piuttosto se essa venga percepita come tale.

La consapevolezza della non prevedibilità delle conseguenze estreme ha dato luogo alla crescita di un pubblico mondiale che è “sensibile al rischio” (ultimate-risk sensitive). Ma l’altra faccia di tale pubblico è il consumatore imprevedibile, nel quale anche una minima, accettabile, traccia di prova può generare una reazione a catena; e, dal momento che una evidenza scientifica incontestabile è sempre più rara, la percezione del pubblico diventa l’elemento determinante all’interno di uno scenario di questo tipo, ed il suo peso politico è perciò ciò che, in ultima istanza, determina la possibilità che un prodotto venga bandito o che una richiesta di impegno abbia successo.

Nei conflitti legati al rischio, il problema principale del potere è un problema di definizione. È il problema di chi, con quali risorse legali e intellettuali, arriva a decidere cosa può essere considerato un “rischio”, cosa una “causa” e cosa un “costo”. La questione di determinare chi sia responsabile, e chi debba accollarsi l’onere di pagare per i danni, si è trasformata in una battaglia sui criteri per stabilire le evidenze e le leggi relative alle responsabilità, perché, in realtà, il vero scontro è tra l’idea che qualcuno sia responsabile, e l’idea che nessuno lo sia. Il nuovo pubblico sfida il sistema esistente di responsabilità istituzionalizzata: la dinamica che trasforma i fallimenti, generati dal rischio, in vere e proprie crisi rappresenta il tentativo di trasferire l’onere della prova e i pesi del costo – finora sopportati dai consumatori e dall’ambiente – sulle imprese e sui governi. In altre parole, il nuovo pubblico mondiale è guidato dal tentativo di istituzionalizzare la preoccupazione per le conseguenze estreme di ciò che facciamo.

 

L’orizzonte globale

Vorrei elaborare la prospettiva illustrata in tre passi. Innanzitutto ampliando l’idea che il concetto di rischio ha un significato del tutto separato da quello probabilistico, e che, pertanto, è nella sua accezione non quantitativa che esso risulta cruciale nel decifrare ciò che ci accade; in secondo luogo, mettendo in luce la relazione interna tra rischio e il nuovo pubblico mondiale, tra rischio e potere; infine, sviluppando l’idea di una “cultura dell’incertezza”.

La nuova definizione della vita non è solamente un tema legato al rischio e ai conflitti da esso causati, ma esprime anche una specifica operazione di potere all’interno del discorso della biologia molecolare. Foucault ha parlato di questa come di un’era della “biopolitica”, finalizzata al controllo dei processi vitali, ora anche nel campo della genetica. Inizialmente, la definizione tecnologica di rischio fu appositamente introdotta per gestire i rischi politici che ristavano dagli sviluppi della tecnologia. La possibilità di pericoli legati alla genetica venne definita come una funzione della validità delle scoperte nella biologia molecolare, in modo che grandi progressi in quel campo venissero usati come un argomento per la sua liberalizzazione. Termini come tecnologia genetica e ingegneria genetica facevano parte del tentativo di normalizzarle, di paragonarle alla tecnologia e ingegneria meccaniche in generale e, fino a poco tempo fa, ciò ha costituito una strategia di successo per rimuovere l’ingegneria genetica dal campo del conflitto politico. Ma dagli anni novanta questa strategia ha raggiunto i suoi limiti, e ha mostrato di essere controproducente. Per capire ciò, è necessario esplorare i nuovi orizzonti delle incognite prodotte. Ecco alcune delle loro caratteristiche:

 

Conseguenze nel tempo e nello spazio

Misurare probabilisticamente il “rischio” presuppone un concetto di “incidente” inteso come un avvenimento che accade in un tempo ed in uno spazio determinati, e ad un gruppo sociale determinato. Ma, ad esempio, una volta introdotto nell’ambiente, un incidente legato ai cibi geneticamente modificati sarebbe incontrollabile al pari di un incidente nucleare, perché il successo della globalizzazione industriale del cibo geneticamente modificato abolirebbe ogni confine spaziale, temporale e sociale.

Il problema del periodo di lunga latenza. Un noto esempio è l’amianto: tutti sanno che fu largamente usato per decenni prima che si scoprisse che rappresentava un rischio per la salute.

Non consapevolezza riconosciuta. Ciò che non sappiamo supera di gran lunga ciò che sappiamo. Se è vero, ad esempio, che gli scienziati conoscono meglio il virus della muccap azza rispetto a quando iniziò la crisi, ancora oggi, a distanza di più di dieci anni dalla scoperta della malattia, le sue origini, il suo raggio di azione, i suoi mezzi di trasmissione, la natura dell’agente infettivo e la relazione con la sua variante umana (malattia di Creutzfeldt-Jacob), restano per lo più sconosciuti. Non sempre esiste un rischio che offre una chiusura narrativa, un fine grazie alla quale la verità viene stabilita e i confini tracciati.

La prospettiva post-umana. Quando la ricerca della vita artificiale si unisce alla nanotecnologia, si apre la prospettiva di macchine in miniatura che creano e alterano forme di vita all’interno di mondi vitali costruiti sperimentalmente. Tale prospettiva offre sia la visione di una forma industriale di produzione che sia completamente efficiente ed ecologicamente corretta, sia la promessa del controllo tecnico di malattie, virus e altri tipi di minacce per gli organismi viventi. Da un lato, perciò, questi sviluppi sono profondamente rassicuranti; dall’altro essi si associano a rischi incalcolabili. Sono rassicuranti perché possiedono una dimensione utopica; ma sono rischiosi perché non possiamo prevedere la direzione che i sistemi che si auto evolvono, la vita e l’intelligenza artificiali prenderanno in futuro. In altre parole, più ci sforziamo di controllare e di controllarci, più il processo diventa impossibile da controllare, e più rischio, inteso nel senso di incertezza incalcolabile, creiamo.

La natura contraddittoria della cittadinanza nazionale. La cittadinanza è concepita in Occidente in termini di diritti e doveri nazionali, e tale idea rappresenta la cornice che stabilisce i rischi fronteggiabili da coloro che vivono nel territorio nazionale. Ma la globalizzazione del rischio ha creato enormi difficoltà al tentativo dello stato-nazione di controllare i rischi in un mondo di flussi e reti globali, e ciò avviene in particolare quando nessuno si prende la responsabilità delle conseguenze.

L’influenza della percezione pubblica. L’accettabilità del rischio dipende dal fatto che coloro che subiscono le perdite ricevano al tempo stesso dei benefici. Quando ciò non avviene, il rischio diventa inaccettabile per coloro che ne sono vittime. Se persino i benefici sono messi in discussione – come nel caso dei cibi geneticamente modificati – non è sufficiente dimostrare che il “rischio residuo” è, statisticamente parlando, altamente improbabile. Un rischio non può essere considerato “in sé”, perché è sempre mediato dai criteri utilizzati nel valutarlo, e alterato dalle assunzioni culturali che lo circondano. In breve, i rischi sono tanto grandi quanto appaiono: ciò è sempre vero, ma lo è ancor di più nel caso delle incognite prodotte. Inoltre, gli esperti hanno perso il monopolio sulla razionalità, nel senso che non dettano più le proporzioni tramite cui il giudizio viene misurato. Le dichiarazioni relative al rischio sono basate su criteri culturali, tecnicamente espressi, circa ciò che è ancora accettabile e ciò che non lo è più. Perciò è errato vedere nei giudizi socio-culturali dei fattori che possono solo distorcere la percezione del rischio: senza giudizi sociali e culturali, non ci sono rischi. Tali giudizi costituiscono il rischio, anche se spesso in maniera non manifesta.

Rischi virtuali. Nel contesto delle incognite prodotte il congiuntivo ha rimpiazzato l’indicativo: alla possibilità viene accordato lo stesso significato dell’esistenza. I rischi virtuali non hanno bisogno di esistere per essere percepiti come fatti, e per quanto possano essere criticati come rischi “fantasma”, ciò non ha importanza dal punto di vista economico: percepiti come rischi, essi causano perdite enormi e disastri. Per questo la distinzione tra rischi reali e percezione isterica non tiene: economicamente, infatti, la differenza non esiste.

La diversità transnazionale dei criteri regolativi. La perdita di meccanismi scientificamente guidati di risoluzione dei conflitti e l’influenza delle percezioni culturali accrescono e rinforzano la diversità dei criteri regolativi: e tale diversità può causare enormi tensioni non solo a livello “domestico”, ma anche all’interno dei sistemi commerciali globali, regionali e bilaterali.

Le relazioni di potere della definizione di rischio. Quanto detto mette in evidenza che il rischio si trasforma socialmente, con cui abbiamo a che fare qui – il rischio incalcolabile, non probabilistico – è più che una costruzione sociale,e, proprio per questo, dipende dalle risorse necessarie a definirlo, e dall’accesso a tali risorse: questo è ciò che intendo con “relazioni di potere della definizione di rischio”.

Gli elementi elencati, che caratterizzano il nuovo orizzonte della società globale del rischio, ci costringono a ripensare la nostra attitudine verso il rischio stesso e verso il futuro globale che stiamo creando. Ciò di cui abbiamo bisogno è di una “cultura dell’incertezza”, che deve essere chiaramente distinta da una “cultura del rischio residuo” da un lato, e da una cultura “priva di rischi” o “della sicurezza”, dall’altro. Tornerò su questa distinzione più avanti: prima intendo spiegare perché i rischi finali e l’incertezza siano diventati una nuova risorsa nella politica globale.

La riflessività politica. La mia teoria situa i rischi globali all’interno del contesto di quella che ho chiamato “modernizzazione riflessiva”, cioè all’interno di un processo nel quale la modernizzazione si confronta con le conseguenze delle sue stesse vittorie: essa viene portata ad un nuovo livello, con risultati paradossali, e la società che ne risulta è definita nei termini di una crescente riflessività (in questo processo, la crescita del pubblico gioca un ruolo cruciale). Se pienamente compresi, i rischi globali possiedono, infatti, un’intrinseca riflessività, che va contro la natura delle intenzioni originali degli attori, poiché essi hanno la capacità di unire insieme diversi settori di pubblico, la politica e la società. Ma per capire questo processo, è necessario operare un’ulteriore distinzione tra conseguenze indirette di primo ordine, e conseguenze indirette di secondo ordine. Le prime sono conseguenze fisiche in senso stretto, cioè sono il risultato chimico e biologico delle decisioni prese oggi. Le seconde iniziano con la traduzione degli effetti fisici in significati sociali – ad esempio, in un dibattito sui veleni nella catena alimentare – che successivamente conduce a piccoli cambiamenti nel comportamento di ciascun consumatore. Sono tali conseguenze di secondo ordine che possono sfociare in un drammatiche reazioni sociali a catena: mercati che collassano, ministri che che cadono, pressioni sui governi e sui prezzi delle azioni. In simili congiunture, i grandi “pescecani” delle imprese e dei governi possono essere inghiottiti da pesci ancora più grandi, costituiti da gruppi compatti di popolazione. La dimensione tecnica del rischio, confinata nelle conseguenze di primo ordine, perde di vista questa importante dimensione della riflessività politica.

Potere, denaro e verità sono tutti mezzi di comunicazione. Il rischio può essere compreso come un medium negativo di comunicazione: i rischi aboliscono le barriere alla comunicazione, e mettono in contatti persone che non hanno nulla a che fare tra loro. Vincolano e costringono alla responsabilità coloro che hanno tentato in ogni modo di evitarli (e che spesso hanno la legge dalla loro parte). I costi vengono così riassegnati e redistribuiti in modo che ci siano delle regole vincolanti.

 

Come Winnie the Pooh

In sostanza, i rischi sorpassano l’autonomia, cioè l’autoreferenzialità, dei sotto-sistemi sociali, compresi quelli dell’economia, della politica e della scienza, stabilendo dialogo e negoziazioni tra sotto-sistemi che si ignoravano o erano persino sono ostili tra loto prima di essere forzati ad incontrarsi. In tal modo, il rischio rovescia l’ordine di priorità esistenti che governa la vita di tutti i giorni e gli affari, producendo una situazione quasi rivoluzionaria, una sorta di immagine invertita dell’ordine sociale.

Se dovessi fornirvi un’immagine che rappresenti la riflessività della politica del rischio, credo che comincerei con quella di Winnie the Pooh che cerca di tirar fuori del miele con le dita da un vaso. Winnie cerca il miele, ma non vuole restare appiccicato, ma non può fare una cosa senza l’altra. E come il miele lascia sempre un residuo appiccicaticcio, così ogni cambiamento senza precedenti lascia un certo residuo di incertezza. Questa è la nostra situazione con il vaso di miele della tecnologia: cerchiamo di rimuovere l’incertezza, cercando di spazzarla via dai nostri vestiti e da ogni altra superficie, ma tutto quello che riusciamo a fare è spargerla dappertutto. Immaginate, per un attimo, che il miele in questione sia di cartone, e infinitamente estendibile, in modo che ovunque voi tocchiate siate connessi a tutto il resto da una rete di fili dorati. E ora immaginate che il miele sia un conduttore, come l’acqua: ecco un’immagine della riflessività politica, dell’incertezza come un medium di comunicazione. Senza o contro la nostra volontà, essa fa sì che tutto sia connesso, creando una situazione dove una carica in un punto viene immediatamente comunicata ovunque.

Gli scienziati sociali hanno mostrato che molti rischi, che sono tecnicamente abbastanza irrisori, si profilano assai più grandi di come dovrebbero dal punto di vista della vita di tutti i giorni. Ma se partiamo dall’ipotesi che le persone stanno agendo razionalmente, da dove viene questa differenza, se non da ciò di cui avviamo appena detto, ossia dal fatto di essere connessi ai rischi contro la nostra volontà? Un mezzo di comunicazione di massa onnipresente diffonde informazioni ossessive su un rischio continuo, ad esempio quello di contrarre il virus della Mucca pazza attraverso il cibo. Senza dubbio, il rischio è assai basso (così pensiamo). Ma la sua presenza cambia completamente la nostra esperienza del mangiare. Comprare un certo cibo è ora come prendere parte a una roulette russa: la maggior parte delle camere di caricamento sono vuote, ma si ha sempre la possibilità di prendere anche quella piena. E anche se la possibilità di morire di un’orrenda malattia che distrugge il cervello è bassissima, si tratta di una lotteria cui nessuno vuole partecipare. Per questo i consumatori decidono, per esempio, di scegliere un altro prodotto, facendo collassare il mercato e facendo persino cadere i dirigenti di alcune società.

 

L’asimmetria di potere e legittimità

Nell’era digitale, il potere delle società transnazionali sopra i governi si è modificato. Naturalmente, esse avevano potere anche prima, ma lo esercitavano in una maniera qualitativamente diversa. Oggi la minaccia fondamentale alla sovranità nazionale non è l’invasione, ma la mancanza di invasione, cioè un rifiuto di fare investimenti o la minaccia di richiamarli. Il potere morbido – il potere del “no” – è assai più pervasivo ed efficace del rinforzo degli ordini attraverso la violenza, poiché si ripercuote su tutto ciò che i governi fanno. Tuttavia, se si modificano le relazioni di potere tra i governi e le società transnazionali, cambiano anche le relazioni di legittimità. Quella di legittimità è una richiesta di potere legittimo. Se i governi perdono gran parte del loro potere di stabilire programmi politici, perdono al tempo stesso parte della capacità di conferire legittimità; e se le società transnazionali diventano dei quasi-stati attraverso la loro abilità nell’imporre linee di condotta, le loro decisioni sono trasformate in decisioni politiche che richiedono una legittimazione politica. Le grandi società di fatto emettono decisioni politiche, mentre cercano, allo stesso tempo, di spostare la responsabilità per le bombe a orologeria, costituite dai rischi a lungo termine, sui governi e sui consumatori. In altre parole, esse emettono decisioni politiche senza un mandato corrispondente. Questa asimmetria tra potere e legittimità genera una potenziale e vasta tensione. Essa funziona finché le cose filano lisce: ma in una situazione di crisi, anche l’ “imperatore economico” del mondo si rivela essere nudo di legittimità: è questo che rende possibile che gli incidenti si amplifichino così velocemente fino a diventare crisi e a fare collassare i mercati: si tratta di un deficit cronico di legittimazione.

Per converso, il deficit di legittimazione è anche la fonte principale di potere dei movimenti sociali. Questi ultimi non sono organizzati democraticamente, né sono legittimati da istituzioni democratiche, ma di fronte alla manifesta mancanza di legittimità delle imprese essi guadagnano legittimità per se stessi: non a caso, quando essi invitano i consumatori al boicottaggio, sono visti come tanti Robin Hood (intervistando i giovani e chiedendo loto quali sono gli attori politici che rispettano di più, sono proprio questi movimenti ad occupare la posizione più alta). Insomma, l’asimmetria tra potere e legittimità è il tallone d’Achille delle aziende transnazionali, ed è il punto al quale mirano le strategie pubbliche dei movimenti sociali. Questo deficit cronico di legittimità rende il mercato dei consumatori estremamente fragile e le imprese internazionali estremamente vulnerabili: più esse cercano di liberarsi dal potere dei voti e dei governi, più diventano dipendenti dalle azioni dei concorrenti, dei consumatori e dei mercati.

 

L’assenza di fiducia

Il mondo non è diventato complessivamente più rischioso, ma è piuttosto la sistematica assenza di fiducia che fa sì che i consumatori vedano rischi ovunque. Minor fiducia, maggior rischio. Maggior consapevolezza del rischio, maggiore instabilità dei mercati. Maggiore instabilità dei mercati, maggior rischio di incidenti che si amplifichino fino a diventare crisi, che si riflettono sia sulle imprese che sui governi, con una specie di effetto boomerang. Persino grandi compagnie possono trovarsi messe alle strette da reti di attivisti relativamente piccole e poveramente attrezzate. Esse si trovano in una posizione nella quale diventa al tempo stesso obbligatorio e apparentemente impossibile vincere sulla loro opposizione. Il caso Brent Spar illustra bene quanto il vuoto di legittimità sia enormemente cresciuto, e come, una volta scoperto e gestito, renda possibile che Davide sconfigga Golia. Nel caso Brent Spar, Davide era Greenpeace. Greenpeace non è un’organizzazione democratica, non ha un mandato pubblico formale. Ha 1200 impiegati, così come navi, elicotteri, palloni aerostatici, e 125 milioni di dollari di entrate: non è una somma insignificante, e non si tratta di un gruppo trascurabile. Ma è certamente Davide se confrontato con la Shell Petrolio e i suoi 120 miliardi di dollari di guadagni. In più, la Shell aveva, nel caso in questione, il diritto legale dalla sua parte – così come il supporto della polizia e del governo inglese in carica. E, forse, questa è la cosa più interessante, era anche appoggiata dalla scienza ambientale: si poteva dimostrare infatti che le affermazioni di Greenpeace erano false. E nonostante ciò, alla fine, pur con tutti i vantaggi, la Shell perse: non ci potrebbe essere una migliore dimostrazione di quale enorme risorsa è ora disponibile per essere intercettata da un’abile e organizzata campagna pubblica. Il deficit di legittimazione, che mette in luce la breccia tra rischio e responsabilità costituisce ora un potenziale costante, che aspetta di essere trasformato in ogni momento in una radicale perdita di confidenza nelle istituzioni, e cambia interamente l’equilibrio di potere tra il pubblico critico verso rischio e le società transnazionali.

 

La cultura dell’incertezza

Uno dei grandi equivoci condivisi dalle imprese, dai governi, dagli scienziati politici e dai giornalisti risiede nel ritenere che conflitti legati al rischio, come il Brent Spar, rappresentino azioni politiche finalizzate a singoli risultati (“singole issue” politics). Ma si tratta di una confortante difesa dello status quo, che dipinge i manifestanti come egoisti, monomaniaci, politicamente ingenui, limitati nello scopo; e, per contrasto, implica che i direttori delle compagnie multinazionali e dei principali governi siano persone che guardano al quadro nella sua complessità, pesando i costi ambientali e confrontandoli con i benefici della crescita economica e della competitività internazionale. In realtà, l’idea che i conflitti legati al rischio comincino e finiscano con azioni finalizzate ad un risultato isolato, è completamente errata. C’è una ragione per la quale gli stessi gruppi e individui si ritrovano campagna dopo campagna: la maggior parte di coloro che fanno tali campagne vedono le singole istanze come fulcri, sui quali fanno leva al fine di portare il mondo verso “un’etica più ampia dell’amministrazione e della responsabilità globali”. I manifestanti possono essere accusati di molte cose, ma non della mancanza di una visione globale: una nuova coscienza globale è esattamente ciò che essi stanno cercando di portare avanti, ed essi vedono ogni singolo appello come una opportunità epr far progredire tale coscienza, che può senz’altro essere chiamata una coscienza del rischio. Viste in questa luce, molte cose, che ad un primo sguardo possono apparire ingenue, sono al contrario interpretabili come atti che scaturiscono da princìpi di fondamentale importanza.

In termini di riflessività politica, abbiamo due diversi livelli di società del rischio, che corrispondono in maniera molto approssimativa agli Stati Uniti e all’Europa di oggi. Il primo livello corrisponde a una “cultura del rischio residuo”, che coincide con l’attitudine del Marlboro Man, ossia con l’illusione di vivere in una terra avventurosa, nel quale c’è sempre qualcosa di meglio “dietro la prossima collina”. Negli Stati Uniti, la maggior parte delle persone e delle élites credono a tutt’oggi con tutto il loro cuore nel progresso, pensando di poter continuare a risolvere le conseguenze dell’industrialismo allo stesso modo in cui hanno fatto nel passato: e cioè sviluppando mercati più efficienti, una migliore tecnologia e migliori leggi. Al secondo livello, la crescita dei fattori di rischio globale entra nel discorso pubblico e nella vita di tutti i giorni: la società del rischio diventa riflessiva e modifica le proprie dinamiche politiche.

 

La globalizzazione del rischio

In entrambi i livelli si manifestano alcune conseguenze paradossali. Nel primo, l’ignoranza della globalizzazione del rischio accresce la stessa globalizzazione del rischio. Nel secondo, la “trappola” della sicurezza assume una forma diversa. Se nel primo caso vige la promessa implicita di vivere in una cultura della sicurezza – una promessa continuamente non mantenuta – nel secondo siamo di fronte a una pressante richiesta che quella cultura sia attivamente creata. Ci si batte per una cultura nella quale l’accettazione di ogni nuovo cambiamento tecnologico e ogni nuovo prodotto venga subordinata alla domanda: “C’è rischio?” E finché la risposta non è chiaramente negativa, l’intero sistema è messo in discussione: ma poiché la premessa di questo nuovo atteggiamento è che l’incertezza è di fatto ineliminabile, un tipo di ragionamento siffatto finisce per reprimere completamente il cambiamento: se infatti il mondo viene percepito solo in termini di rischio, allora nessuno riesce ad agire, dal momento che il concetto di rischio ci dice soltanto cosa non dovrebbe essere fatto, e non indica cosa dovrebbe o potrebbe essere fatto.

Per questo il punto chiave di una cultura dell’incertezza è stabilire a chi spetta decidere, e in che modo, all’interno di un orizzonte di incognite. Ci sarebbero naturalmente molte considerazioni da fare. Vorrei tuttavia terminare la mia conferenza proponendo alcuni suggerimenti e prospettive. In primo luogo, credo che sia necessario valutare correttamente l’opportunità che i rischi globali offrono in vista del rinnovamento sociale e politico. La percezione del rischio globale non rappresenta una sorta di nuovo spenglerismo – il nuovo tramonto dell’Occidente – ma potrebbe addirittura diventare rapidamente il contrario: cioè una fonte per le riforme globali, per modellare il futuro globale (il potere politico del rischio globale è facilmente individuabile nelle reazioni alla decisione del governo Bush di ritirarsi dal protocollo di Kyoto, decisione strenuamente criticata dalla gran parte dei paesi del mondo, compresi i partner stessi di Bush, e comprese persino molte grandi multinazionali). In secondo luogo, è necessario riconoscere e accettare il livello di riflessività e di scetticismo della cultura moderna. Una cultura dell’incertezza si baserebbe su quelle componenti della nostra cultura che hanno rinunciato all’idea che ci sia una verità rivelata dalla “meta-narrazione” della scienza, e che hanno optato in favore di una diffusa idea di società intesa come un continuo processo di reinvenzione. In terzo luogo, la cultura dell’incertezza dovrebbe accettare che le perdite e le catastrofi rappresentano sempre un’eventualità possibile, anche se tale accettazione è possibile solo quando i partecipanti sono sicuri che saranno personalmente coperti dai rischi: può funzionare, cioè, solo in un’atmosfera di fiducia. Minor fiducia, maggior rischio. Per questo il problema centrale di una cultura dell’incertezza risiede nel capire come possiamo prenderci collettivamente la responsabilità per le conseguenze dei nostri atti. In quarto e ultimo luogo, per acquisire credibilità, credo che una cultura dell’incertezza debba reinventare il “no”. Per quanto paradossale possa sembrare, essa dovrebbe reintrodurre il tabù, per esempio, per quanto riguarda la clonazione umana.

 

La prossima commissione Usa

Naturalmente, potrei andare avanti per parecchio. Il mio discorso può sembrare quasi una lista di buoni propositi per Natale: ma se nessuno crede che si possa dar vita a una cultura dell’incertezza, allora ci lasceremo con l’immagine con la quale ho iniziato. Non sarà difficile immaginare il Congresso degli Stati uniti intenzionato a convocare, nei prossimi 10 o 20 anni, un’altra commissione, che abbia il compito sia di individuare il responsabile dei problemi globali prodotti dall’introduzione del cibo geneticamente modificato, sia di sviluppare un sistema di simboli che tenga lontano per migliaia di anni i nostri discendenti dai pericoli che abbiamo scatenato. Ma poiché le risposte a tali domande saranno difficili da trovare. La cosa migliore da fare, se non crediamo in una cultura dell’incertezza, è dare avvio, subito, alla commissione sui cibi geneticamente modificati.

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