Cura e cultura: la ricetta dei buddhisti italiani per ricostruire il tessuto sociale

Un dialogo con Elena Seishin Viviani, vicepresidente dell’Unione Buddhista Italiana

Elena Seishin Viviani è una monaca buddhista e vicepresidente dell’Unione Buddhista Italiana, l’UBI. Per il Dossier di Reset dedicato alle “risorse morali” per la ricostruzione, ci racconta la forza, ma anche la complessità del credo buddhista, fatto di Tradizioni diverse tra loro. Tutte fanno riferimento all’evento salvifico fondante, che per questa religione è il Risveglio di Buddha, e poi si sono sviluppate in maniera autonoma. Alcune di queste scuole sono rappresentate nell’UBI: la Tradizione Zen, la Vajrayana, la Teravada, la Seon e la Tendai e Nichiren. Ed è per questo che non si dovrebbe, secondo le autorità religiose, parlare di buddhismo ma di buddhismi. «Diciamo così – spiega Viviani  – Io mi occupo del dialogo interreligioso ma anche intrareligioso: rappresento le singole confessioni, parlo a nome di tutti e conosco e rispetto le differenze tra le Tradizioni». Viviani appartiene alla Tradizione Zen Sōtō ed è guida spirituale dell’Enkuji, Tempio buddhista di Torino. Opera negli ospedali e nelle carceri, ma soprattutto tiene le fila di una comunità di maestri di culto e assistenti spirituali dei 60 centri in tutta Italia, appartenenti a Tradizioni diverse.

In Italia è difficile calcolare un numero preciso di fedeli che si rifanno al Buddhismo. Secondo gli ultimi dati del Centro Studi sulle nuove Religioni del 2019 si parla di 114mila italiani, a cui si devono aggiungere i circa 124mila buddhisti “etnici”, cioè che si sono trasferiti in Italia dai paesi asiatici. A loro si deve aggiungere la corrente, autonoma e numerosa, del Soka Gakkai. Come dicevamo le Tradizioni sono molte, e sono tutte confluite sotto il grande ombrello dell’Unione Buddhista Italiana, che è nata nel 1960 e nel 2000 ha firmato l’Intesa religiosa con lo Stato Italiano. «Fare un censimento è difficile, anche perché ci sono fedeli che non si rifanno a una specifica Tradizione o che non frequentano i nostri centri», spiega Viviani. «Però stando molto a contatto con le persone in questi mesi mi sono resa conto che molti si sono avvicinati al buddhismo durante i lockdown, hanno approfittato dei nostri insegnamenti o delle nostre pratiche di culto che come tutti siamo stati costretti a spostare online. Forse è stato più facile per le persone avvicinarsi, ma tanti hanno condiviso le tematiche sociali di cui abbiamo parlato, dall’ambiente alla salute alla scuola».

Reverenda Viviani, la pandemia ci costringe a ripensare e a ridefinire il nostro senso di comunità: il mondo buddhista che significato dà a questo termine?

Elena Seishin Viviani, monaca buddhista e vicepresidente dell’Unione Buddhista Italiana.

Alla base del Buddadharma, nome ufficiale del buddhismo, ci sono i Tre Gioielli: il Buddha cioè il Maestro, il Dharma cioè l’Insegnamento, e il Sangha che è proprio la Comunità. Nel Sangha si manifestano e si incarnano anche gli altri due Gioielli, ed è anche il luogo in cui Buddha e Dharma vengono messi in pratica. La Comunità è quindi universale, e non si limita alle persone di fede buddhista: è un’interconnessione con tutto. Il lockdown di questi mesi ha chiuso i Templi e limitato il culto in presenza, ma non ha sciolto una Comunità che di per sé è interconnessa a tutto ciò che è vivo e vivente. Anche perché il culto che lega la Comunità buddhista non è fatto solo di pratiche liturgiche e rituali, ma anche di contemplazione e meditazione. E inoltre spesso i nostri centri non sono solo luoghi religiosi, ma sono anche spazi residenziali, di accoglienza, di praticantato e di scuola per giovani maestri che vengono da fuori. Le nostre guide spirituali e i maestri di culto non si sono fermati nell’insegnamento: si sono solo – come tutti – trasferiti online.

E ora, cosa succederà alla comunità?

Francamente, sono convinta che non si tornerà più indietro, alla “normalità” e alla relazione che avevamo prima della pandemia. Non sto dando giudizi morali, ma tante cose cambieranno: alcuni dei nostri centri stanno un poco alla volta riaprendo, ma dovranno essere in qualche modo ripensati. E soprattutto, il mondo online è qui per rimanere, con tutte le conseguenze del caso. Tutti, buddhisti e non buddhisti, ci siamo abituati alla distanza e ora dobbiamo imparare di nuovo come si sta insieme, magari con una consapevolezza nuova. Non penso che i vari culti avranno grandi difficoltà, perché i fedeli torneranno alle loro religioni. I più non si sono mai allontanati, ma bisogna capire in che modo torneremo a stare insieme.

Per uscire da questa crisi serviranno nuove “risorse morali”, per ritrovare un senso nello stare insieme che vada al di là degli interessi del singolo. Quale potrebbe essere il vostro contributo in questo senso?

Dal nostro punto di vista una crisi non è mai solo negativa: in questo anno e mezzo abbiamo potuto riflettere e sviluppare nuove competenze e nuovi modi di essere solidali. Una crisi apre sempre anche un ventaglio di opportunità e ha in sé in germi della soluzione. Le fedi religiose ma anche tutta la comunità ha capito quanto è importante fare rete, vivere l’uno per l’altro perché l’altro è me stesso. Tutto riguarda tutti e ce ne siamo resi conto: ce lo hanno dimostrato le due grandi crisi odierne, quella climatica e quella da Covid. Pensiamo alla connessione stretta che c’è tra il mondo della scuola e quello del lavoro: se uno si ferma, si ferma anche l’altro. Non possiamo essere latitanti, in questo momento: è importante supportare, come l’Unione Buddhista fa da anni, le realtà sociali e non per forza religiose che operano per chi ha più bisogno e per dare voce ha chi non ne ha una abbastanza forte. Cura e cultura, così si ricostruisce un tessuto sociale in difficoltà.

Serve un’etica che si basi su una serie di valori comuni e riconosciuti. Anzi, le dirò di più: non deve per forza essere un’etica religiosa e basata su un particolare culto. Tutte le componenti della società devono avere voce e devono essere tenute in considerazione: perché anche il più piccolo è parte importante del Tutto. Il sistema che negli anni abbiamo creato ha delle falle enormi in questo senso: povertà sociale, educativa, relazionale, che chiedono, secondo noi, la creazione di una nuova ‘polis’, la polis della Cura, perché grazie a essa potremo andare a rafforzare un nuovo tessuto sociale.

Dal punto di vista religioso, quali parti del vostro dogma potrebbero aiutare a uscire da questa crisi sociale?

Io non userei la parola “dogma”, meglio “dottrina”. Sicuramente come dicevo prima la dottrina della Comunità, il Sangha. Poi l’interdipendenza e l’interconnessione di tutte le creature che traspaiono da tutto il nostro credo. E infine il prendersi Cura dell’altro e di me stesso insieme.

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