Dopo lo stato d’eccezione. Una nuova grammatica oltre il paradigma securitario

A più di un anno di distanza dall’irrompere improvviso e inatteso della pandemia e dal conseguente sconvolgimento del nostro vivere quotidiano, i nostri modi di fare socialità e di vivere in comune con l’altro sono stati completamente stravolti o cancellati. Abbiamo vissuto un anno in uno “stato di eccezione”, direbbe Carl Schmitt, in cui lo stato di diritto e le più elementari libertà sono state sospese, appese a un filo, messe fra parentesi, così come le nostre relazioni sociali, culturali, politiche, commerciali, di amicizia o di amore. Non è banale o futile fermarsi a compiere un esercizio di riflessione critica, di messa a distanza e di memoria di questo vissuto di eccezione che ci ha privato della maggior parte dei nostri diritti, secondo un’etica del sacrificio cui abbiamo aderito. Il diritto di movimento e circolazione, il diritto di intraprendere e di esercitare la propria professione, il diritto di riunirsi e di manifestare, il diritto di andare a scuola e di ricevere un’educazione in presenza insieme ai propri compagni e maestri, il diritto di esprimere la propria socialità e di condividere la propria vita con gli altri, il diritto di divertirsi. Per trovare una via d’uscita da questa situazione è necessario analizzarla, adottare uno spirito critico per poter ricostruire un domani in cui la vita in comune sia più coesa, più condivisa e più equa.

Siamo di fronte ad una frammentazione della nostra società acuita dalla crisi economica e sociale che l’emergenza sanitaria non ha che fatto emergere. La sospensione delle attività produttive e delle attività di socializzazione, di riflessione negli spazi comuni e condivisibili hanno portato ad erodere il concetto stesso di socialità o di condivisione. Ci siamo rinchiusi in diverse “bolle”, questo d’altronde è anche il termine scientifico utilizzato ed invocato dai medici per spezzare le catene di trasmissione, pronti a consumare da casa i surrogati di una vita reale.

La portaerei francese Charles De Gaulle (R91) colpita da un focolaio di Covid-19 nel 2020 (Wikimedia)

La “securitizzazione” della vita

Sottolineando la necessità delle misure di eccezione dettate dall’urgenza e dalla situazione drammatica della pandemia, è opportuno tuttavia riflettere sulle conseguenze di questo stravolgimento del nostro quotidiano da un punto di vista critico. Prima di tutto è necessario comprendere in che modo ci siamo trovati in un paradigma securitario in cui la sicurezza sanitaria si è estesa a tal punto da inglobare tutte le sfere dell’esistenza.

Cosa si cela dietro questo bisogno di sicurezza, questa rincorsa del rischio zero? Come ricorda Michael Dillon (Politics of Security 1996), il progetto della politica internazionale e nazionale contemporanea è una “politica della sicurezza”, che ha permesso di proteggere e mettere in sicurezza la categoria stessa di sicurezza, divenuta dogma irrefutabile. Comprendere la situazione che abbiamo vissuto nell’ultimo anno, per ritornare ad essere pienamente soggetti emancipati e portatori di diritti, deve passare attraverso un esercizio di analisi critica che permetta di ridare valore al concetto di libertà individuali, svincolando il paradigma della sicurezza dal suo sistema di protezione dogmatica. Cosa vuol dire sicurezza sanitaria? In che modo questa categoria fa convergere la dimensione militare con quella medica?

Prima di tutto il paradigma della “sicurezza umana” (UNDP 1994) rivela la fragilità dell’individuo inteso come un essere da proteggere e la vulnerabilità delle popolazioni di fronte a rischi globali quali le epidemie, i cambiamenti climatici, le guerre civili, la malnutrizione o la povertà. La sicurezza non è più quindi solo una questione militare o di difesa delle frontiere nazionali. Durante la pandemia molti Stati hanno invano adottato politiche di chiusura dei confini nazionali più per demagogia che per reale efficacia, non riuscendo in ogni caso a fermare questo “nemico invisibile”. La sola frontiera veramente utile rimane quella del proprio viso, da coprire con dispositivi di protezione individuale.

In secondo luogo, la pandemia del COVID-19 ha accelerato un processo già in corso durante l’epidemia della SARS nel 2002-2003, di “securitizzazione della salute” nel senso che la salute pubblica mondiale è diventata un problema di sicurezza, come ben analizzato da Stefan Elbe. Secondo lo studioso inglese nel contempo la sicurezza è stata trasformata in un problema medico: di conseguenza i medici e gli esperti svolgono un ruolo di primo piano da un punto di vista decisionale e le misure adottate per apportare una maggiore sicurezza rilevano soprattutto dell’ambito medico e farmacologico – si pensi alle campagne di vaccinazione a livello mondiale[1].

Seguendo la scuola di Copenaghen e in particolare le teorie di Barry Buzan e Ole Waever, la securitizzazione è un processo linguistico, un atto del linguaggio, secondo il quale un oggetto viene identificato dagli attori politici come una minaccia esistenziale, una questione di vita o di morte, che la società civile riconosce come tale. Quest’identificazione è pubblica e dichiarativa. Pensiamo allo stravolgimento del nostro vocabolario quotidiano, dalla “guerra contro un nemico invisibile”, alle “armi dei vaccini”, al bollettino di guerra quotidiano o settimanale che ha scandito la temporalità dell’anno trascorso. Nel contesto della securitizzazione sono adottate delle misure straordinarie dettate dall’urgenza e si instaura lo stato di eccezione, abolendo di fatto lo spazio dell’agire politico. I termini stessi di “assembramento” o di “distanziamento sociale” non sono affatto neutri e hanno eroso a poco a poco la nostra idea di comunità, di vita sociale. La polis secondo l’etimologia greca concerne lo spazio pubblico della città e come tale è un luogo di condivisione e coabitazione.

Perché non è stato invece usato il termine di distanziamento fisico, che avrebbe il merito di indicare una distanza nello spazio, necessaria per evitare il contagio, piuttosto che una distanza nelle relazioni? Quello che abbiamo vissuto quest’anno potrebbe essere definito “securitizzazione della vita“, un processo secondo cui la vita nella sua dimensione del quotidiano (i movimenti individuali, le abitudini, i gusti, gli acquisti, ecc.) è stata trasformata in problema di sicurezza. Di conseguenza le norme, le azioni, le scelte, gli spostamenti individuali diventano una questione di sicurezza nazionale e pertanto sono regolamentati entro un contesto di eccezione. Gli attuali progetti di passaporti vaccinali costituiscono un prolungamento di queste pratiche di controllo, regolazione e tracciabilità integrale che rientrano nel paradigma della bio-sicurezza ben descritto dal filosofo francese Frédéric Gros (Le Principe Sécurité, 2012). A suo avviso le tecniche di identificazione, tracciamento e geolocalizzazione sottintendono una visione dell’individuo come un substrato biologico da identificare, isolare e tracciare. In un’ottica liberale, Gaspard Koenig, filosofo e scrittore francese mette in guardia dall’adozione di un passaporto vaccinale che ci trasformerebbe in animali da gregge, sempre tracciabili e reperibili, infrangendo il diritto all’anonimato e alla privacy che costituiscono i pilastri delle democrazie liberali.

Alunni di una scuola francese si preparano per una lezione all’aperto (Sebastien Salom-Gomis / AFP)

 

 

 

 

 


Riannodare i fili

Ora, come possiamo immaginare un’uscita dallo schema securitario e una riconquista dello spazio sociale e politico? Buzan e Waever sottolineano che il ritorno alla normalità e quindi alla dimensione politica avviene attraverso un processo di “de-securitizzazione”, nel corso del quale l’oggetto in questione non è più considerato una minaccia. Noi forse adesso ci ritroviamo in bilico fra questi due poli e siamo alla ricerca di un nuovo vocabolario, di una nuova grammatica per uscire dal paradigma securitario. Come riabilitare lo spazio politico e la socialità senza cadere in tentazioni biopolitiche di controllo e sorveglianza permanente? Come ricomporre i frammenti e farli convergere in un progetto comune? Parlare di ricostruzione della società e delle relazioni sociali non può che dipendere dal ruolo attribuito ai cittadini all’interno della stessa. Come ristabilire il concetto di individuo portatore di diritti, soggetto responsabile delle proprie scelte e non solo oggetto veicolo di eventuale contagio da dover tracciare, isolare e confinare?

Lo spirito critico unito a un senso di responsabilità individuale possono essere un motore per ricostruire le basi di un’etica pubblica, lacerata dai dogmi inevitabili della situazione d’eccezione della pandemia. È giunto il momento di analizzare la situazione, di metterla a distanza critica, di ripensare gli spazi sociali per favorire una maggiore inclusione.

L’educazione, unico mezzo a disposizione per coltivare lo spirito critico, dovrebbe ritornare protagonista, permettendo una condivisione nella trasmissione dei saperi basati sul principio dell’agorà, della piazza pubblica, dello spazio condiviso, dell’apprendimento nella relazione e nell’interazione fisica. La prolungata chiusura degli stabilimenti scolastici, che ha causato “una catastrofe generazionale” secondo un rapporto dell’Unesco, ha dilaniato il tessuto sociale di bambini, adolescenti e delle famiglie che hanno dovuto supplire alle mancanze spesso ingiustificate delle istituzioni. Tra le conseguenze disastrose di scelte politiche miopi in Italia, secondo le ricerche dell’Istat sul 2020, vi è stato un drastico abbandono dell’occupazione femminile, le donne essendo impegnate in prima linea nella cura dei bambini e degli anziani per mancanza di politiche adeguate di sostegno e welfare.

Come affrontare la parità di genere al nocciolo della questione, ovvero la parità nella gestione delle mansioni familiari e dei congedi parentali, ancora un tabù in ambito lavorativo in Italia, o ancora la parità salariale?

Come ripartire dalla scuola, affinché diventi un vero spazio di inclusione, di apertura e dialogo e soprattutto che non sia mia più possibile una sua chiusura in nome del paradigma della sicurezza? Perché non si sono concepiti sistemi creativi di didattica all’aperto o negli spazi cittadini a disposizione come stadi, parchi, teatri? Chiudere è sempre più semplice che innovare.

Come ricostruire dei luoghi di interazione sociale che siano davvero inclusivi? La riconquista degli spazi verdi, un fenomeno recente abbastanza spontaneo e diffuso costituisce forse un buon esempio di ricostruzione delle relazioni sociali in un luogo comune in cui persone di ogni classe sociale, generazione, religione, nazionalità o genere si incontrano dedicandosi ognuno ai propri interessi.

Qualsiasi nuovo paradigma per la fase post-pandemica e di ricostruzione non potrà prescindere da questi tre ambiti: i giovani e la loro istruzione, la parità di genere e la protezione dell’ambiente. Sono tre elementi essenziali del nostro futuro e della possibilità stessa di crescere nuove generazioni di cittadini responsabili e liberi.

 

[1] Elbe S. (2010). Security and Global Health: Toward the Medicalization of Insecurity. Polity Press, Cambridge.

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