Attenti al rischio dittatura della maggioranza

L’articolo fa riferimento al discorso di Mohammad Khatami ex presidente dell’Iran letto durante gli Istanbul Seminars 2012 organizzati da ResetDoc.

E’ fuori di dubbio che non si può comprendere il mondo in cui viviamo se non ricorrendo a concetti quali «molteplicità», «diversificazione» e via di seguito. Anche la molteplicità, tuttavia, ha dei limiti: fino a che punto si può essere «multipli» nel comprendersi a vicenda e nel rendere il dialogo proficuo come dovrebbe?

Nel 2012, accettare la democrazia e fare i conti con essa non significa confrontarsi con un fenomeno necessariamente occidentale o diffuso solo in Occidente. Non è ancora chiaro se la Primavera araba porterà alla nascita di governi democratici, quel che è certo è che i primi cambiamenti sono stati l’esito di movimenti democratici, non di autocrazie intente a sostituire altre autocrazie. Il processo è infatti partito dalla periferia e non dal centro. Il giovane tunisino che ha scatenato la rivolta da un villaggio sconosciuto è già una figura mitica, e il resto della popolazione è stato spinto a ribellarsi contro il sistema dalla percezione di disuguaglianze e corruzione. La Tunisia non ha ancora un governo democratico, ma si è indubbiamente avvicinata alla democrazia; i cittadini rivendicano un proprio ruolo e vogliono liberarsi dei regimi autoritari da cui sono stati in un modo o nell’altro sfruttati.

I cambiamenti in corso nei Paesi islamici non sono stati privi di conseguenze; non dimentichiamo che la Fratellanza e i partiti sono arrivati dopo e, anche se ora hanno assunto un ruolo crescente, non possono imporsi su quelle società come avrebbero potuto in un contesto diverso. Khaled Fouad Allam ha citato su Italianieuropei un articolo apparso sulla rivista Esprit a firma di Olivier Roy, in cui quest’ultimo analizza il linguaggio della Primavera araba, sottolineando come la parola chiave non sia «onore», che riguarda la comunità, ma «dignità», che si riferisce all’individuo. Si tratta di una novità importante, come a dire: «io sono e voglio essere il protagonista e l’Islam deve fare i conti con me; sono religioso, non secolarizzato, ma ho una dignità in quanto individuo che deve essere riconosciuta».

Il presidente Khatami propone una piattaforma di dialogo sulle iniziative che Medio Oriente e Occidente dovrebbero intraprendere. Concordo con lui sulla necessità di conciliare democrazia e religiosità nel mondo islamico, e sull’idea che l’Occidente non debba considerare la democrazia parte integrante della sua laicità. Ma la molteplicità ha i suoi limiti. Io condivido quello che suggerisce Habermas, e cioè che l’Occidente debba accettare la transizione a una democrazia post secolare nella quale le religioni possano svolgere un ruolo nella sfera pubblica e i credenti possano contribuirvi con argomenti, vedute e concetti dettati dalla loro fede. Io stesso, pur non essendo un credente, mi sentirei penalizzato se i fedeli di qualsivoglia religione fossero discriminati o non avessero la possibilità di esprimere il portato della loro cultura e del loro credo nella sfera pubblica. Sarebbe inammissibile.

Ma altrettanto inammissibile, in una democrazia, è la pretesa che lo Stato usi i suoi strumenti vincolanti a difesa di credenze religiose. Svolgere un ruolo nella sfera pubblica non significa far sì che lo Stato obbedisca in qualche modo alle proprie credenze e le trasformi in regole e princìpi giuridicamente vincolanti per tutti i cittadini. Tutto ciò sarebbe incompatibile con la democrazia, per la semplice ragione che equivarrebbe a negare i diritti degli individui disposti a negoziare nella sfera pubblica le loro credenze in vista del bene comune. È evidente che qui si pone un problema estremamente complesso: quello delle verità non negoziabili. Come confrontarsi con queste ultime nella sfera pubblica? Si può trovare in qualche modo un compromesso, ma occorre senz’altro respingere la pretesa che lo Stato trasformi tali verità in princìpi vincolanti.
La nostra concezione del rapporto tra democrazia e religione è esemplificata al meglio dalla democrazia americana, dove a una società religiosa si accompagna uno Stato che non può interferire con le istituzioni religiose, a partire dalle scuole. Come spiega John Dewey, nella democrazia americana le credenze religiose fungono da guida morale per i cittadini, ma non sono imposte a questi ultimi dall’esterno.

Mi sembra che oggi, nelle società in cui l’Islam è la religione maggioritaria, l’idea di partire da una società religiosa e non da uno Stato religioso stia mettendo radici. Non c’è ragione di partire da uno Stato islamico, né di riconoscere alla sharia lo statuto di legge ufficiale.
Il modello di riferimento è la società americana o un’altra? In tutta onestà, nella stessa Turchia (che è ormai considerata un modello di modernità per l’Africa del Nord) sono ravvisabili alcune tendenze che mi ricordano bensì la società americana, ma nella sua parte più oscura e cioè nella dittatura della maggioranza riscontratavi da Tocqueville quando notò come, nel perdurare della neutralità della legge, le pressioni della maggioranza divenivano così forti che per il resto della popolazione era praticamente impossibile resistervi. E nella Turchia di oggi ciò vale tanto per questioni di importanza marginale, come l’uso del velo per essere accettati dalla società, quanto per aspetti più sostanziali.

Nel loro libro I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo Karim Mezran e Massimo Campanini mettevano in luce l’interesse della Fratellanza per il concetto di egemonia teorizzato da Antonio Gramsci e quindi per la costruzione di una società in cui tutti i cittadini condividano gli stessi ideali e le stesse credenze, e dove la legge non sia più necessaria, dal momento che scomparirebbe qualsiasi forma di dissenso. Converrete con me che non è quello il tipo di società a cui aspiriamo. Non sarebbe semplicemente una società religiosa senza uno Stato religioso, infatti, ma una società dispotica in cui uno degli ingredienti fondamentali della democrazia, ossia il rispetto per l’individuo e il pluralismo, verrebbe meno. E forse uno dei limiti della molteplicità è proprio questo.

(Traduzione di Enrico Del Sero)

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